
Coltivare la terra, prendersi cura di creature viventi, stare all'aria aperta, fare un lavoro manuale, ascoltare i ritmi delle stagioni, comprendere le esigenze profonde di un fiore: gesti che ci fanno sentire bene e ci aiutano a capire meglio il nosro percorso. Sagge e silenziose compagne di viaggio, le piante hanno molte cose da insegnarci.
Che cosa può la grande letteratura - quella di Dante e Apuleio, Virginia Woolf e Leopardi, Conrad e Dostoevskij, Melville e Joyce, Rilke e Yeats, i numi tutelari di questo libro - insegnare sul Bene? Trevi lo racconta in un breve libro, oggi ripubblicato in una nuova edizione rivista e accresciuta dopo un decennio di assenza dalle librerie, i cui capitoli sono dedicati ad altrettante virtù della tradizione cristiana: fede, speranza, carità; prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Svincolate dalla loro dimensione religiosa, non perciò dal loro intimo nucleo spirituale, le virtù, parole che paiono sull'orlo del definitivo tramonto, riprendono forza e vigore se illuminate - con la sapienza di Emanuele Trevi - dalla tradizione letteraria occidentale.
Roma, 1983. Il Novecento brilla ancora. Emanuele, neppure ventenne, lavora in un cineclub del centro. Una notte, al termine di un film di Tarkovskij, entra in sala e vi trova un uomo solo, in lacrime. È Arturo Patten, statunitense trapiantato a Roma, uno dei più grandi fotografi ritrattisti. Per tutto lo scorcio del secolo, Emanuele ascolterà la lezione del suo amico, Lucignolo e Grillo Parlante assieme, che vive la vita con invidiabile intensità, e grazie a lui incontrerà Cesare Garboli, il «grande critico» cui è qui dedicato uno splendido cammeo, che prima di morire gli affiderà la missione di indagare su Metastasio e sul suo sonetto "Sogni, e favole io fingo". «Favole finge» tutta la grande letteratura moderna qui evocata, da Puskin a Pessoa fino ad Amelia Rosselli, somma poetessa italiana del Novecento, che abita nella stessa strada di Arturo e che come lui lascerà la vita per scelta; Emanuele incontrerà più volte quel meteorite umano, sempre in fuga da oscuri e spietati nemici, e con Arturo è lei, e la sua eredità, l'altra protagonista di questo «libro strano» di Trevi - romanzo autobiografico e divagazione saggistica assieme, sette anni dopo "Qualcosa di scritto". Arturo, Amelia, Metastasio guidano lui e noi nel cuore di una Roma piovosa e arcaica, nel cerchio simbolico della depressione e dell'insensatezza, verso l'approdo vitale dell'illusione: se, come scrive Metastasio, le storie inventate suscitano in noi la stessa commozione delle vicende reali, forse di sogni e favole è fatta la vera vita.
L'ingegner Ivo Brandani è sempre vissuto in tempo di pace. Quando il libro comincia, il 29 maggio 2015, Ivo ha sessantanove anni, è disilluso, arrabbiato, morbosamente attaccato alla vita. Lavora per conto di una multinazionale a un progetto segreto e sconcertante, la ricostruzione in materiali sintetici della barriera corallina del Mar Rosso: quella vera sta morendo per l'inquinamento atmosferico. Nel limbo sognante di un viaggio di ritorno dall'Egitto, si ricompongono a ritroso le varie fasi della sua esistenza di piccolo borghese: la decadenza profonda degli anni Duemila, i soprusi e le ipocrisie di un Paese travolto dal servilismo e dalla burocrazia, il sogno illusorio di un luogo incontaminato e incorruttibile, l'Egeo. E poi, ancora indietro nel tempo, le lotte studentesche degli anni Sessanta, la scoperta dell'amore e del sesso, fino ad arrivare al mondo barbarico del dopoguerra, in cui Brandani ha vissuto gli incubi e le sfide della prima infanzia. Chirurgico e torrenziale, divagante e avvincente, "La vita in tempo di pace" racconta, dal punto di vista di un antieroe lucidissimo, la storia del nostro Paese e le contraddizioni della nostra borghesia: le debolezze, le aspirazioni, gli slanci e le sporcizie, quel che ci illudevamo di essere e quel che alla fine, nostro malgrado, siamo diventati.
Una donna in dialogo perpetuo con sé stessa e con il mondo disegna una mappa delle sue ossessioni, del suo rapporto con l'amore e con il corpo, serbatoio di ipocondrie e nevrosi: il nuovo romanzo di Daniela Ranieri è un diario lucido e iperrealistico, in cui ogni dettaglio, ogni sussulto di vita interiore è trattato allo stesso tempo come dato scientifico e ferita dell'anima. Dalla pandemia di Covid-19 alla vita quotidiana di Roma, tutto viene fatto oggetto di narrazione ironica e burrascosa, ma in special modo le relazioni d'amore: le tante sfaccettature di Eros - l'incontro, il flirt, il piacere, le convivenze sbagliate, la violenza, l'idealizzazione, la dipendenza, l'amore puro - vengono sviscerate nello stile impareggiabile dell'autrice, un misto di strazio, risentimento, ironia impastati con la grande letteratura europea (e non solo). E forse è proprio la lingua di Daniela Ranieri il vero protagonista di questo "Stradario aggiornato di tutti i miei baci", una lingua ricchissima di echi gaddiani, di irritazioni à la Thomas Bernhard, di citazioni, e allo stesso tempo inquietantemente diretta e inaudita, una lingua la cui capacità di nominare e avvicinare le cose è pari soltanto alla sua potenza nel distruggerle. Lo Stradario di Daniela Ranieri non è solo un romanzo: ha la sostanza di un corpo vivente che abita nel mondo, di una voce che avvince e persuade con la forza della grande letteratura.
Molto è già stato detto su Antonia Pozzi, ragazza "imperdonabile" che, nonostante la sua breve vita, ha lasciato più di trecento poesie, numerose lettere, pagine di diari e circa tremila fotografie, e la cui figura è oggetto di una straordinaria riscoperta di pubblico e di critica. Eppure c'e sempre, quando si parla di lei, l'impressione di qualcosa di incompiuto. Come se la "troppa vita" che le scorreva nel sangue non si sia mai voluta lasciare decifrare fino in fondo. Come se ci fosse sempre troppo da dire e nello stesso tempo un'urgenza di silenzio avesse costantemente percorso lei e le persone che le stavano accanto. Per raccontare questo personaggio complesso, profondo e a tratti enigmatico, che ha attraversato gli anni Trenta con intelligenza e passione, sofferenza e determinazione, Gaia De Pascale ha scelto la via del romanzo. Il libro dà la parola alla stessa Antonia, scavando nell'animo della protagonista e restituendo le persone, i luoghi e le atmosfere di un tempo cruciale sotto ogni punto di vista per la storia del nostro Paese. In bilico tra realtà e finzione, "Come le vene vivono del sangue" usa il verosimile come unico mezzo possibile per accedere al fondo segreto dell'esistenza di Antonia Pozzi, e rende omaggio a una figura femminile che ha saputo attraversare con la stessa profondità tanto la vita quanto la morte.
Tra il 1978 e il 1990, mentre in Unione Sovietica il potere si scopriva fragile e una certa visione del mondo si avviava al tramonto, Andrej Cikatilo, marito e padre di famiglia, comunista convinto e lavoratore, mutilava e uccideva nei modi più orrendi almeno cinquantasei persone. Le sue vittime bambini e ragazzi di entrambi i sessi, ma anche donne - avevano tutte una caratteristica comune: vivevano ai margini della società o non si sapevano adattare alle sue regole. Erano insomma simboli del fallimento dell'Idea comunista, sintomi dell'imminente crollo del Socialismo reale. Questo libro, sospeso tra romanzo e biografia, narra la storia di uno dei più feroci assassini del Novecento attraverso la visionaria, a tratti metafisica ricostruzione della confessione che egli rese in seguito all'arresto. E fa di più. Osa raccontare l'orrore e il fallimento in prima persona: Cikatilo, infatti, in questo libro dice "io". È lui stesso a farci entrare nella propria vita e nella propria testa, a svelarci le sue pulsioni più segrete, le sue umiliazioni e ossessioni. "Il giardino delle mosche" è un libro lirico e crudele allo stesso tempo: la storia di un'anima sbagliata, una meditazione sul potere e la sconfitta e, soprattutto, una discesa impietosa fino alle radici del Male.
"Per molti versi, avrei preferito non dover pubblicare questo libro, che non esisterebbe se una delle mie scrittrici preferite - non posso nemmeno incominciare a spiegare l'importanza che ha avuto nella mia vita, professionale ma soprattutto personale, il suo 'Orto di un perdigiorno' - non si trovasse in condizioni di salute che non lasciano campo alla speranza. Eppure. 'L'orto di un perdigiorno' si chiudeva con una frase che mi è sempre sembrata un modello di vita, un obiettivo da raggiungere: "Ho la dispensa piena". Oggi questa dispensa, forse proprio grazie alla sua malattia, Pia ha trovato modo di aprircela, anzi di spalancarcela. E la scopriamo davvero piena di bellezza, di serenità, di quelle che James Herriot ha chiamato cose sagge e meravigliose, di un'altra speranza. È davvero un dono meraviglioso quello che in primo luogo Pia Pera ha fatto a se stessa e che poi, per nostra fortuna, dopo lunga riflessione ha deciso di condividere con i suoi lettori. Non posso aggiungere molto, se non raccomandare con tutto il mio cuore la lettura di un libro che, come pochi altri, ci aiuta a comprendere la straordinaria avventura di stare al mondo." (Luigi Spagnol)
Otto racconti che esplorano la natura umana e i rapporti sociali.
Ai margini della Roma che tutti conosciamo, dove il Tevere crea un'ampia ansa prima di correre verso il mare, vivono uomini e donne che sembrano essersi incontrati solo grazie alle rispettive necessità. Fra baracche e chiatte, uniti dalla gestione di una trattoria improvvisata, mentre si alternano in piccoli lavori nei campi e nella guida dei turisti cittadini attratti dai loro lavori arcaici, essi hanno formato una specie di strana comunità fuori dal tempo e dal mondo in cui siamo abituati oggi a vivere. Cesare, uno degli ultimi anguillari romani, suo fratello Guido, un bizzarro lettore di testi sacri, Victoria, una cuoca sudamericana e due ragazze dell'est dal mestiere equivoco, hanno accolto già da qualche anno un uomo in fuga. Lo chiamano tutti "il dottore" perché, se il suo nome non ama rivelarlo, sembra venuto a offire le sue cure a chi vive lì e nei dintorni. Zingari, reietti, osti, piccoli criminali, pastori clandestini, tutti chiedono al dottore di essere curati. Tutti del resto hanno intuito che questo cinquantenne vissuto sempre in città è venuto in realtà a curare se stesso. Ma qual è il suo passato? Quale l'immenso dolore che lo ha strappato alla sua casa?
In una Napoli sensuale, disperata e viziosa, una ragazza sparisce portando con sé una cartella di documenti importanti – un appalto truccato. Il padre della ragazza, don Michele Miletti -l’uomo forse più ricco di Napoli, sessantanove anni e «ancora il ritmo di un’Esportazione ogni cinque minuti, il tempo di fumare la precedente» - incarica Sasà Iovine, finto avvocato che si arrabatta con piccoli luridi affari, di ritrovare la figlia difficile e ribelle ma soprattutto di far sparire i documenti la cui pubblica circolazione avrebbe compromesso un giro di mazzette consistenti. Sasà si ritrova coinvolto in un malaffare molto più grande di lui, famigliare e politico. Il malaffare è talmente sporco che Sasà le prende di santa ragione da due omoni grandi come armadi, i Gemelli, ma sopporta tutto perché insegue – come un cane inseguirebbe una salsiccia - una mazzetta, una percentualina che non ha alcuna intenzione, come tutti gli altri, di farsi sfuggire. Tra corruzione, istinti famelici, cadaveri, adulteri e inganni si snoda questo romanzo, capostipite del giallo italiano, così attuale, ritmato e potente che sembra essere stato scritto domani.
Una mappa del tesoro di oltre due secoli fa è apparentemente indecifrabile; ricorrendo alla crittologia più sofisticata, uno studioso riesce finalmente nell'impresa, ma l'indovinello che ne risulta pare non avere a sua volta soluzione; inoltre, il tesoro sarebbe nascosto nelle Negrillos, isolette nel mar dei Caraibi che dal 1867 in avanti scompaiono inspiegabilmente da tutte le carte nautiche. Un narcotrafficante colombiano indagato dalle autorità statunitensi ha bisogno di trovare il tesoro - ben sedici galeoni stipati d'oro - per giustificare i suoi introiti, e obbliga un caccia-tesori irlandese, Christopher, e una filosofa cubana ma cresciuta a New York, Marisol, a trovarlo in sua vece. La spedizione in barca a vela avviene durante una Settimana Astrale in cui gli dèi che hanno dato il proprio nome ai giorni influenzano gli eventi quotidianamente; a pari passo si procede allo smantellamento del razionalismo, con il fallimento della «cerca» dell'algoritmo elusivo di Marisol, e del materialismo, quando si scopre che l'oro cercato era, in realtà, l'"aurum non vulgi sedphilosophorum" (l'oro non della gente ma dei filosofi). Finalmente il mistero della congiunzione si solidifica nel fine ultimo dell'alchimia.