
Impetuoso, lieve, sconvolgente: è il vento che soffia senza requie sulle pendici del Rossarco, leggendaria, enigmatica altura a pochi chilometri dal mar Jonio. Il vento scuote gli olivi secolari e gli arbusti odorosi, ulula nel buio, canta di un antico segreto sepolto e fa danzare le foglie come ricordi dimenticati. Proprio i ricordi condivisi sulla "collina del vento" costituiscono le radici profonde della famiglia Arcuri, che da generazioni considera il Rossarco non solo luogo sacro delle origini, ma anche simbolo di una terra vitale che non si arrende e tempio all'aria aperta di una dirittura etica forte quanto una fede. Così, quando il celebre archeologo trentino Paolo Orsi sale sulla collina alla ricerca della mitica città di Krimisa e la campagna di scavi si tinge di giallo, gli Arcuri cominciano a scontrarsi con l'invidia violenta degli uomini, la prepotenza del latifondista locale e le intimidazioni mafiose. Testimone fin da bambino di questa straordinaria resistenza ai soprusi è Michelangelo Arcuri, che molti anni dopo diventerà il custode della collina e dei suoi inconfessabili segreti. Ma spetterà a Rino, il più giovane degli Arcuri, di onorare una promessa fatta al padre e ricostruire pezzo per pezzo un secolo di storia familiare che s'intreccia con la grande storia d'Italia, dal primo conflitto mondiale agli anni cupi del fascismo, dalla liberazione alla rinascita di un'intera nazione nel sogno di un benessere illusorio.
Inseparabili. Questo sono sempre stati l'uno per l'altro i fratelli Pontecorvo, Filippo e Samuel. Come i pappagallini che non sanno vivere se non sono insieme. Come i buffi e pennuti supereroi ritratti nel primo fumetto che Filippo ha disegnato con la sua matita destinata a diventare famosa. A nulla valgono le differenze: l'indolenza di Filippo - refrattario a qualsiasi attività non riguardi donne, cibo e fumetti - opposta alla determinazione di Samuel, brillante negli studi, impacciato nell'arte amatoria, avviato a un'ambiziosa carriera nel mondo della finanza. Ma ecco che i loro destini sembrano invertirsi e qualcosa per la prima volta si incrina. In un breve volgere di mesi, Filippo diventa molto più che famoso: il suo cartoon di denuncia sull'infanzia violata, acclamato da pubblico e critica dopo un trionfale passaggio a Cannes, fa di lui il simbolo, l'icona in cui tutti hanno bisogno di riconoscersi. Contemporaneamente Samuel vive giorni di crisi, tra un investimento a rischio e un'impasse sentimentale sempre più catastrofica: alla vigilia delle nozze ha perso la testa per Ludovica, introversa rampolla della Milano più elegante con un debole per l'autoerotismo. Nemmeno l'eccezionale, incrollabile Rachel, la "mame" che veglia su di loro da quando li ha messi al mondo, può fermare la corsa vertiginosa dei suoi ragazzi lungo il piano inclinato dell'esistenza. Forse, però, potrà difendere fino all'ultimo il segreto impronunciabile che li riguarda tutti...
Stanco di storie tristi, reali o immaginarie, Mauro Corona ha deciso che è arrivato il momento dell'allegria: basta disgrazie o morti ammazzati, esiste un tempo per la gioia. E quale modo migliore per rallegrarsi se non recuperando storie antiche perdute tra i boschi? "Barzellette letterarie" come quella di Rostapita, Clausura e Santamaria, riuniti per ammazzare il maiale ma troppo ubriachi per riuscirci davvero, o racconti che l'autore ha raccolto a Erto e dintorni, nei paesi e nelle osterie, come quello di don Chino, prete anziano, incapace di arrampicarsi fino alla casa più arroccata del borgo e di Polte che, per ripagarlo della mancata benedizione, quasi lo uccide lanciandogli addosso una forma di formaggio. Così, scolpiti dalle sapienti mani di Corona, momenti di vita di montagna, episodi tragicomici ed esilaranti diventano novelle, piccole grandi leggende da tramandare alle generazioni future. Chi legge percepisce subito quanto l'autore si sia divertito nello scrivere - "come mi sono sempre divertito a fare libri, a raccontarmi storie per rimanere a galla" dice -, eppure lui stesso ammette di essersi accorto, procedendo nella stesura, di non essere stato fedele fino in fondo all'intento iniziale: a ben guardare, infatti, le storie raccolte in questo volume non sono tanto allegre. Traggono tutte origine da fallimenti, solitudini, tristezze, "ricordano gente semplice, vissuta senza luci di ribalta, passata al buio del mondo in silenzio".
È un plotone di giovani ragazzi quello comandato dal maresciallo Antonio René. L'ultimo arrivato, il caporalmaggiore Roberto Ietri, ha appena vent'anni e si sente inesperto in tutto. Per lui, come per molti altri, la missione in Afghanistan è la prima grande prova della vita. Al momento di partire, i protagonisti non sanno ancora che il luogo a cui verranno destinati è uno dei più pericolosi di tutta l'area del conflitto: la forward operating base (fob) Ice, nel distretto del Gulistan, "un recinto di sabbia esposto alle avversità", dove non c'è niente, soltanto polvere, dove la luce del giorno è così forte da provocare la congiuntivite e la notte non si possono accendere le luci per non attirare i colpi di mortaio. Ad attenderli laggiù, c'è il tenente medico Alessandro Egitto. È rimasto in Afghanistan, all'interno di quella precaria "bolla di sicurezza", di sua volontà, per sfuggire a una situazione privata che considera più pericolosa della guerra combattuta con le armi da fuoco. Sfiniti dal caldo, dalla noia e dal timore per una minaccia che appare ogni giorno più irreale, i soldati ricostruiscono dentro la fob la vita che conoscono, approfondiscono le amicizie e i contrasti. In un romanzo corale, che alterna spensieratezza e dramma, Giordano delinea con precisione i contorni delle "nuove guerre". E, nel farlo, ci svela l'esistenza di altri conflitti, ancora più sfuggenti ma non meno insidiosi: quelli familiari, quelli affettivi e quelli sanguinosi e interminabili contro se stessi.
Tutti noi abbiamo la sensazione di ricordare da sempre le gesta di Odysseo, ma in questo romanzo, attingendo all'immensa messe di miti che lo vedono protagonista, Valerio Massimo Manfredi porta alla luce episodi e personaggi che non conoscevamo, ci regala la viva emozione di scoprire un intero universo brulicante di uomini, donne, imprese gloriose o sventurate. Ci mostra come accanto a quel personaggio fluisca gran parte dell'epos greco: Alcesti, le fatiche di Herakles, i sette contro Tebe, gli Argonauti, oltre ai due poemi di Omero. Odysseo non si erge solitario tra le ombre di dei e guerrieri, ma il suo intero percorso di formazione, le sue radici familiari, gli epici racconti di cui è nutrito dal nonno-lupo Autolykos e dal padre argonauta, i dialoghi con Herakles e Aias, gli incontri con la misteriosa Athena dagli occhi verdi, ogni dettaglio dà corpo a un racconto profondamente sorprendente. Con assoluto rigore ma anche con una vibrante adesione a questa materia "in continuo movimento", Manfredi compie la scelta forte di affidare la narrazione proprio a colui che disse di chiamarsi Nessuno: una voce diretta, potente, scolpita nella sua semplicità. Una voce dal fascino assoluto, una storia incalzante come i tamburi di guerra, tempestosa come il mare scatenato da Poseidone, piena di poesia come il canto delle Sirene.
Ci sono voluti dieci anni ininterrotti di guerra e di sangue, di amori feroci e di odio inestinguibile, per sconfiggere i Troiani. Ora Odysseo deve rimettersi in viaggio con i suoi uomini per fare ritorno a Itaca, dove lo attendono la moglie fedele e il figlio lasciato bambino. Ma il ritorno è una nuova avventura: Odysseo deve riprendere la lotta, la sua sfida agli uomini, alle forze oscure della natura, al capriccioso e imperscrutabile volere degli dei. Vano è disporre gli animi alla gioia del ritorno: l'eroe e i suoi compagni dovranno affrontare imprese spaventose, prove sovrumane, nemici insidiosissimi come il ciclope Polifemo, i mangiatori di loto e poi la maga incantatrice che trasforma gli uomini in porci, i mostri dello Stretto, le Sirene dal canto meraviglioso e assassino... Il multiforme Odysseo, il coraggioso Ulisse, l'astuto Nessuno dovrà raggiungere i confini del mondo e addirittura evocare i morti dagli inferi, sperimentando lo struggimento più immedicabile al cospetto di chi ormai vive nel mondo delle ombre, e ancora finire su un'isola misteriosa dove una dea lo accoglierà e lo terrà avvinto in un abbraccio dolcissimo e pericoloso per lunghi anni... Poi, finalmente, con il cuore colmo di dolore per i compagni perduti lungo la rotta, ecco compiersi il ritorno. Il giorno dell'esultanza. Il giorno della vendetta... Dopo aver cantato la nascita e la formazione dell'eroe e la guerra sotto le alte mura di Pergamo, Manfredi dà voce al viaggio più straordinario di tutti i tempi.
Atene, 17 novembre 1973. Un eminente archeologo muore misteriosamente subito dopo aver ritrovato il vaso d'oro dell'indovino Tiresia. Poche ore più tardi, mentre scoppiano i disordini di Piazza del Politecnico, una giovane e bella studentessa viene catturata, stuprata e uccisa dalla polizia sotto gli occhi del fidanzato, Claudio Setti. Dieci anni dopo, una catena di efferati delitti sconvolge la Grecia. Riti annunciati da oscure profezie. Omicidi senza spiegazione per chi non abbia vissuto i giorni della rivolta studentesca e non conosca il segreto del vaso di Tiresia, sul quale era raffigurata la profezia riguardante l'ultimo viaggio di Ulisse: una seconda odissea durante la quale l'eroe omerico sarebbe arrivato fino alla fine del mondo, a interrogare il misterioso "oracolo dei morti"...
C'è un popolo che vive di stenti in una terra ostile. Una terra in cui nevica sempre, anche d'estate, le valanghe incombono dalle giogaie dei monti e le api sono bianche. E gli uomini hanno la carnagione pallida, il carattere chiuso, le parole congelate in bocca. Però è gente capace di riconoscenza, di solidarietà silenziosa, uomini e donne con un istinto operoso che li fa resistere senza lamentarsi, anzi, addirittura lavorare con creativa alacrità, con una fierezza gioiosa, talvolta, pronti a godere dei rari momenti di requie, della bellezza severa del paesaggio, della voce allegra del loro "campo liquido", il torrente che, scorrendo sul fondo della valle, dà impulso a segherie e mulini. Il torrente è una delle voci di questi uomini freddi solo all'apparenza, ed è l'acqua - neve allo stato liquido, si potrebbe dire, che, se da un lato mette in moto tutte le attività, dall'altro innesca il dramma che sta sospeso su quelle vite grame eppure, in qualche modo, felici. Corona ci ha abituato alle narrazioni corali, alle epopee umili di gente che avanza compatta con le proprie storie senza storia solo perché nessuno ha voluto abbassare l'orecchio al livello del suolo per ascoltarne la voce flebile eppure emozionante. Vite che, come scriveva Ungaretti dei morti: "Non fanno più rumore del crescere dell'erba, lieta dove non passa l'uomo". All'armonia di una vita aspra ma equilibrata si contrappone il ritmo disumano delle "città fumanti"...
Federico ha diciassette anni e il cuore pieno di domande alle quali la vita non ha ancora risposto. La scuola è finita, l'estate gli si apre davanti come la sua città abbagliante e misteriosa, Palermo. Mentre si prepara a partire per una vacanza-studio a Oxford, Federico incontra "3P", il prof di religione: lo chiamano così perché il suo nome è Padre Pino Puglisi, e lui non se la prende, sorride. 3P lancia al ragazzo l'invito a dargli una mano con i bambini del suo quartiere, prima della partenza. Quando Federico attraversa il passaggio a livello che separa Brancaccio dal resto della città, ancora non sa che in quel preciso istante comincia la sua nuova vita. La sera torna a casa senza bici, con il labbro spaccato e la sensazione di avere scoperto una realtà totalmente estranea eppure che lo riguarda da vicino. È l'intrico dei vicoli controllati da uomini che portano soprannomi come il Cacciatore, 'u Turco, Madre Natura, per i quali il solo comandamento da rispettare è quello dettato da Cosa Nostra. Ma sono anche le strade abitate da Francesco, Maria, Dario, Serena, Totò e tanti altri che non rinunciano a sperare in una vita diversa... Con l'emozione del testimone e la potenza dello scrittore, Alessandro D'Avenia narra una lunga estate in cui tutto sembra immobile eppure tutto si sta trasformando, e ridà vita a un uomo straordinario, che in queste pagine dialoga insieme a noi con la sua voce pacata e mai arresa, con quel sorriso che non si spense nemmeno di fronte al suo assassino.
Nel cuore di Roma, il palazzinaro Sasà Chiatti organizza nella sua nuova residenza di Villa Ada una festa che dovrà essere ricordata come il piú grande evento mondano nella storia della nostra Repubblica.
Tra cuochi bulgari, battitori neri reclutati alla stazione Termini, chirurghi estetici, attricette, calciatori, tigri, elefanti, il grande evento vedrà il noto scrittore Fabrizio Ciba e le Belve di Abaddon, una sgangherata setta satanica di Oriolo Romano, inghiottiti in un'avventura dove eroi e comparse daranno vita a una grandiosa e scatenata commedia umana.
L'irresistibile comicità di Ammaniti sa cogliere i vizi e le poche virtú della nostra epoca. E nel sorriso che non ci abbandona nel corso di tutta la lettura annegano ideali e sentimenti.
E soli, alla fine, galleggiano i resti di una civiltà fatua e sfiancata. Incapace di prendere sul serio anche la propria rovina.
Perchè Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che a Soreni si fa fatica a comprendere. La vecchia e la bambina camminano per le strade del paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. Quarta figlia femmina di madre vedova, Maria è abituata a pensarsi, lei per prima, come "l'ultima". Per questo non finiscono di sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo. "Tutt'a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fili'e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia". Eppure c'è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c'è un'aura misteriosa che l'accompagna, insieme a quell'ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo alle cose della vita e della morte. Quello che tutti sanno e che Maria non immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell'accabadora, l'ultima madre.
Rebecca è nata irreparabilmente brutta. Sua madre l'ha rifiutata dopo il parto, suo padre è un inetto. A prendersi cura di lei, la zia Erminia, il cui affetto però nasconde qualcosa di terribile, e la tata Maddalena, affettuosa e piangente. Ma Rebecca ha mani bellissime e talento per il piano. Grazie all'anziana signora De Lellis, Rebecca recupera un rapporto con la complessa figura della madre, scoprendo i meccanismi perversi della sua famiglia. E nella musica trova un suo modo singolare di riscatto, una vita forse possibile. La Veladiano racconta senza sconti l'ipocrisia, l'intolleranza, la crudeltà della natura, la prevaricazione degli uomini sulle donne, l'incapacità di accettare e di accettarsi, la potenza delle passioni e del talento.