
Barbara Lope è una donna nel pieno della vita, ha un'attraente frangetta bionda, vestiti eleganti, un bel lavoro. Eppure ogni tanto sente come un peso, un fastidio acuto: a scuola era il compagno presuntuoso, al lavoro la collega arrivista, e poi le scarpe con il tacco a spillo, le serate mondane, i discorsi ufficiali, le cerimonie, i matrimoni... E quando le situazioni si fanno insopportabili, quando le sembra che le persone e i luoghi abbiano perso il senso di quello che sono realmente (se mai l'hanno posseduto), in Barbara scatta qualcosa, un piccolo movimento, un gesto minimo, di insofferenza... Sfrontato? Scherzoso? Provocatorio? Non si può dire. Di certo si tratta di un impulso irresistibile, e Barbara non può trattenerlo. È il suo modo di reagire alle assurdità, alle distorsioni. Forse il desiderio di trovare qualcuno che le somigli. Insomma fa quel gesto, e d'improvviso ciò che appariva così serio e importante perde consistenza, diventa aria, si dissolve.
"Boccaccio" dichiara Dario Fo "è stato per me una grande scoperta acquisita anni e anni dopo l'accademia. È a quel punto che mi è apparsa evidente tutta la potenza di questo autore. Al tempo in cui scriveva, Boccaccio non godeva che di un riconoscimento limitato a gruppi di amici della sua città. Durante la peste, si inventò il Decameron, cento novelle ambientate nel tempo da lui vissuto, e con sorpresa risentita dei letterati di buon rango ebbe un enorme successo che durò nei secoli, pur sotterrato più volte a partire dal Seicento (con illustri accademici in testa) fino ai nostri giorni. Un grande uomo di cultura e spregiudicatezza quale Pier Paolo Pasolini, sensibile al valore di questo 'narratore di conte', alle sue favole dedicò un film." Fo e Boccaccio sono gente dello stesso mestiere: il loro incontro ha generato questo libro straordinariamente godibile, che esalta il ruolo storico dell'autore toscano. A fare da guida, da suggeritore e da contrappunto ci sono poi i dipinti di Dario Fo, che immergono la narrazione dentro fondali dai colori ora festosi ora scuri e profondi, ma incisi "dalla luce di taglio del sole".
Esistono Bibbie degli imperatori, splendidamente miniate, ed esistono, meno appariscenti e meno note, ma non meno preziose, Bibbie dei villani. Sono le Bibbie dei contadini, dei piccoli mercanti e degli artigiani, insomma del popolo minuto, che la tradizione orale e scritta di ogni regione d’Italia ci ha tramandato, e che Dario Fo e Franca Rame hanno scoperto in anni di ricerche sulle tradizioni popolari, ricreato sulla scena e ora riproposto, in una versione inedita, in questo libro.
In queste Bibbie, commosse e piene di risate, Dio è gioia ma anche sofferenza, godimento e pianto, sorriso e sghignazzo: il Dio dei villani discute con gli animali e con gli umani, certe volte anche li aggredisce; l’Altissimo, essendo il padre delle sue creature, ha i loro stessi pregi e i loro stessi difetti, persino la gelosia, la paura di rimanere solo, la malinconia. E poi, altro fatto straordinario, egli non è solo maschio, ma anche femmina, cioè madre, una tradizione che viene da tempi lontani, dalla Grecia arcaica. La Bibbia dei villani di Dario Fo segue liberamente la successione «biblica», dall’Antico al Nuovo Testamento, dalla Genesi ai Vangeli canonici e apocrifi, con prologhi che introducono i vari racconti scritti nel volgare di lingue diverse con versione italiana a fronte. Ne viene fuori una storia di meraviglie e di storture, di miracoli e di stragi, di crudeltà e di tenerezza, di follie di potenti e onnipotenti e di saggezza popolare, dove il Signore parla attraverso l’energia e la concretezza dei villani.
Dopo gli studi universitari a Padova, Tommaseo si fa luce come intellettuale che alla formazione umanistica unisce una viva sensibilità romantica. Nelle sue peregrinazioni dovute a motivi politici e a un'inquieta ansia vitale, matura l'idea di una nuova arte che unisca il sublime di Dante e Omero alla letteratura del popolo. Escono cosi nel 1841-42 i "Canti popolari toscani, corsi, illirici, greci", accompagnati da queste "Scintille", libro creativo e critico, ricco di prose d'arte e di riflessione, di poesie dello stesso Tommaseo e dei suoi corrispondenti. L'opera è plurilingue: italiano, francese, greco, latino, slavo si alternano alle traduzioni dell'autore. Nelle "Scintille" si individua dunque un'idea plurale di nazioni e culture, un discorso rivolto a individui e collettività dell'Italia e della Franda, del mondo slavo del Sud e della Grecia. In questo progetto la letteratura ha un suo ruolo: è espressione di un io che esce dal proprio chiuso, narcisistico isolamento, per trasmettere un messaggio di amore.
Roma 63 a.C. Catilina sta preparando la sua congiura. Cicerone, che è console, la sta scoprendo, grazie a una spia. Cesare diventa Pontefice Massimo. Crasso, che è già ricco, si arricchisce ancora di più. I due si alleano, unendo abilità politica e denaro. Contemporaneamente, a Gerusalemme, Pompeo il Grande sconfigge i Giudei ed entra, primo Romano a farlo, nel Sancta Sanctorum del Tempio. Accanto a questi personaggi celebri, che si incontrano nelle loro case e tessono le loro trame con dialoghi spregiudicati, assai diversi dalle tesi sostenute nell'ufficialità, c'è il popolo che si raduna nelle osterie e nelle botteghe di barbiere. Qui commenta i fatti degli uomini illustri in modo adeguato, cioè con un controcanto demistifcante, degno di un coro pettegolo e malevolo, ma spesso veritiero.
Questa raccolta riunisce i racconti più "neri" di Marco Vichi. Vi si ritrovano le sue atmosfere e i suoi personaggi, e quella sua capacità di farsi ascoltare mentre narra vicende quotidiane e terribili dove all'improvviso qualcosa si incrina, un meccanismo si inceppa, e a poco a poco tutto diventa follia, assurdità, mistero, fino al piccolo, spesso del tutto inaspettato colpo di scena finale. Come in "Amen", in cui un giovane ricco e nullafacente, che si gode l'eredità di famiglia senza un pensiero e senza un impegno, viene aggredito da un ometto bizzarro, che lo accusa di avergli ucciso l'amico più caro, il suo unico affetto. Eppure il ragazzo è certo di non aver mai fatto del male a nessuno... O in "Mio figlio no", dove l'ossessione di un padre che teme l'omosessualità del figlio adolescente spinge l'uomo a una decisione crudele. O ancora in "Puttana", una vicenda di sesso e vendetta ambientata nel famigerato villino romano frequentato dai gerarchi fascisti e dal Duce stesso, dove va a lavorare la giovane Simonetta, in arte Sissi, che ha un sogno segreto...
È una vita come tante, quella del palermitano Giovanni Ribaudo: un lavoro dignitoso, una moglie, Vera, e un figlio, Salvatore, che frequenta l'ultimo anno delle superiori. Un ragazzo simile a molti altri, con un po' di sogni per la testa e qualche piccolo segreto. Ma una notte la paura che è di ogni genitore diventa realtà: una telefonata sveglia di soprassalto i Ribaudo, una sconosciuta cerca Salvatore con voce agitata. Salvatore però non è rientrato. La mattina, dopo angosciose ricerche, Giovanni scopre che suo figlio è stato arrestato: un reato grave, un'accusa incomprensibile. E per quest'uomo, che ha sempre creduto a parole come onestà, giustizia, serietà, e ha cercato di viverle, inizia un incubo, nel quale precipita tutta la sua famiglia. Schiacciato negli affetti, assurdamente e crudelmente privato di un figlio, si trova a dover combattere una battaglia personale contro un muro di indifferenza, di arroganza, di corruzione: una macchina capace di stritolare chiunque, che lo porterà lontano, molto lontano dalla persona che era... Una storia di sopraffazione e una requisitoria morale che investe un mondo intero.
La devozione verso tutti i figli, al di là dei legami di sangue: è il senso dell'elefante, codice inscritto in uno dei mammiferi più controversi, e amuleto di una storia che comincia in un condominio di Milano. Pietro è il nuovo portinaio, ha lasciato all'improvviso la sua Rimini per affrontare un destino chiuso tra le mura del palazzo su cui sta vegliando. Era prete fino a poco tempo prima, ora è custode taciturno di chiavi e appartamenti, segnato da un rapporto enigmatico con uno dei condomini, il dottor Martini, un giovane medico che vive con moglie e figlia al secondo piano. Perché Pietro entra in casa di Martini quando non c'è? Perché lo segue fino a condividere con lui una verità inconfessabile? Il segreto che li unisce scava nel significato dei rapporti affettivi, veri protagonisti di un intreccio che si svela a poco a poco, arrivando all'origine di tutto: una ragazza conosciuta da Pietro quando era un sacerdote senza Dio, in una Rimini dura e poetica, a tratti felliniana. Qui inizia questa storia che accompagna i suoi personaggi nella ricerca di un antidoto alla solitudine dei nostri tempi, verso una libertà di scelta, e di sacrificio. In questo romanzo Marco Missiroli va al cuore della sua narrativa, raccontando il sottile confine tra l'amore e il tradimento, il conflitto con la fede e la dedizione verso l'altro. A partire da una semplice, terribile domanda: a che cosa siamo disposti a rinunciare per proteggere i nostri legami
Cinquecento anni fa gli ambasciatori del Ducato di Milano e della Repubblica di Venezia sottoscrissero un trattato che inaugurava, dopo lunghi anni di guerre, un inaspettato periodo di pace. Un quarantennio d'oro. Nessuna generazione aveva mai goduto di quel dono, e nessun'altra, per il mezzo millennio successivo, ne avrebbe più goduto. Finché sono arrivati loro, i nati fra il 1946 e il 1950. Il protagonista di questo romanzo ha avuto la fortuna di nascere nel quinquennio felice e di avere, insieme agli altri fortunati, un'esistenza baciata dagli dèi: di conoscere due mondi, due infanzie e due giovinezze, la prima in un'Italia pre e paleoindustriale, ancora a misura di bambino, e la seconda, fatta di entusiasmi e di esperienze del tutto originali, nel periodo eroico del Sessantotto. Ma di quel dono questi "frontalieri della Storia" cos'hanno saputo fare? Cos'hanno costruito per il futuro, con i loro slanci, le loro battaglie al riparo dalle guerre e le loro allegre rivoluzioni sessuali? Mentre la vita scorre, il protagonista si interroga, cerca ragioni e spiegazioni, angosciato per il figlio, condannato a essere precario, per le tante donne che lo attraggono e gli complicano le giornate, per i colleghi e le vicende dell'università verso cui è ogni giorno più insofferente, per il mondo così come è diventato. Rimangono il suo vitalismo, il conforto degli amici di sempre e il lucido disincanto al quale, senza proporselo, si è allenato.
Evandra vive in un piccolo paese del Centro Italia dove fa la casalinga. Rimane vedova all'improvviso, e la sua vita si svuota. Ha una figlia lontana, amiche indaffarate. L'unica salvezza è andare al cimitero, trovarsi con le altre vedove a disporre i fiori per i propri cari. Ma la pioggia... La pioggia ha un ruolo determinante in questa storia. Di colpo Evandra scopre un mondo meraviglioso che fino ad allora le era del tutto ignoto: prende lezioni di Facebook e la sua vita cambia, si popola di personaggi un po' veri e un po' finti, buoni, cattivi, enigmatici, timidi. E tra questi, persino un innamorato... Una moderna favola d'amore, ambientata in un'epoca, la nostra, dove il virtuale si confonde con il reale, ma dove anche s'incontrano quelle anime semplici, appartate e solitarie, che Paola Mastrocola sa far vivere con felice ironia.
Ubermensch Belasco, stravagante editore di Reggio Emilia, convoca lo scrittore Francisco Portali, reduce da un terribile flop letterario, per commissionargli la stesura di quella che a sua detta è la "storia del secolo". Peccato che, a causa dei micidiali effetti di un mix di antidepressivi e vino, l'intrattabile e smemorato Belasco faccia l'errore di chiedere la stessa cosa a un altro fallimentare autore, Ladislao Tanzi. Quando inevitabilmente si ritrova sulla scrivania due romanzi dall'identica trama, in un lampo di fantaeditoria, Belasco decide di assemblarli, producendo l'agghiacciante libro "Un premio da tredici". I giovani Tanzi e Portali, nel demenziale tour promozionale che seguirà, saranno coinvolti in un'interminabile serie di situazioni losche e sgangherate. A far loro compagnia, tra gli altri, il bieco, gigantesco Lothar, ufficio stampa di Belasco, Arcovaldo Cacciapuoti, svaporato critico letterario dall'illustre passato, e l'inquietante Raul, il fan che nessuno scrittore vorrebbe mai avere. Un romanzo che trasforma in parodia gioie e sofferenze del "mestiere".
"Antonello, mio babbo, era nato galeotto, come diceva sempre quando parlava del suo luogo di nascita. In carcere, senza aver commesso alcun reato. Era infatti nato all'Asinara..." Così la voce femminile di questo romanzo d'esordio inizia il racconto, di una limpidezza sorprendente, di vicissitudini famigliari che hanno tratti antichi. In una Sardegna selvatica e piena di luce, si consuma l'iniziazione alla vita del padre, figlio di una guardia penitenziaria, attraverso i giochi proibiti con un detenuto-pastore che ha in sé qualcosa di tremendo e di epico. E si succedono, in una trascinante, a volte fosca, a volte persino spassosa catena di storie, avventure e sventure di sognatori e disgraziati innocenti, passioni amorose e vendette insensate, mescolate al rumore incessante del mare, al sapore della polvere, e a momenti di libertà "panica" in quella terra dove il sole brucia. La scrittura accompagna le vicende come una narrazione orale riversata in prosa: una lingua di oggi e, verrebbe da dire, di sempre, sostenuta da un occhio che guarda, trasparente, sia i minuti, duri fatti quotidiani, sia le immagini di una storia maggiore che corre dal Fascismo alla guerra fino agli ultimi decenni del secolo.