
Anni Venti. Una banda variopinta di esemplari della jeunesse dorée inglese, che il ricchissimo e affascinante Max ha invitato a sue spese a una partita di piacere in Francia, si è data appuntamento alla stazione. Un topos classico della narrativa: ma "questo libro non somiglia a nessun altro" avverte Tim Parks nel saggio che lo accompagna. Una fitta nebbia gravita sulla stazione e sulla storia; una materia grigia che pervade tutto in modo subdolo, provocando scompiglio e disorientamento. Henry Green, "maestro del sottinteso" oltre che "santo del mondano", coglie le sfumature del parlato perforando, nelle quattro ore in cui si svolge la vicenda, le pareti della coscienza, anche quella di classe, così peculiare della società britannica.
"Non sapevo in realtà dove stavo andando; se me lo chiedevano, dicevo in Russia". Se anche si prendono tutti, ma proprio tutti gli stereotipi sullo strano essere che Mark Twain chiamava l'innocente all'estero, e li si dispone a formare un personaggio immaginario, si otterrà solo una pallida approssimazione a quel prototipo del viaggiatore, e dello scrittore di viaggi, che è stato Evelyn Waugh. Che nel 1928, quando a ventisei anni parte per la sua prima, lunga crociera nel Mediterraneo, è già completamente formato, vuoi negli abiti di scena vuoi in quelli mentali, a cominciare dalla convinzione, molto fertile sul piano narrativo, che l'Inghilterra sia la norma, e il resto del mondo una bizzarra, affascinante e soprattutto comica eccezione. Etichette è il primo e più celebre esperimento dell'autore con un genere in realtà molto arduo - ed è forse il più capriccioso, attendibile e felice. E se la Napoli o il Cairo di Waugh risultano ancora oggi più veri del vero, il merito è tutto della sfacciata certezza che ispira questa non resistibile scorribanda, e cioè che i libri di viaggio, come quell'autobiografia di cui costituiscono un sottoinsieme, siano tanto più efficaci quanto più si reggono "su un bel fondamento di vanteria bugiarda".
La "Nebulosa del Granchio" - osservata dagli astronomi cinesi nel 1054 - è il prodotto di una supernova o di una stella sull'orlo dell'esplosione. Distante dalla Terra tremila anni luce, ha cominciato a invaderla per sottoporla a un controllo totale, biologico e psicologico - e ora sta per procedere all'attacco finale, scatenato dalle Bande Nova. Ma un'alleanza composta dalla Polizia Nova e dai Resistenti di Hassan-I-Sabbah (il Vecchio della Montagna) non è disposta ad arrendersi. È dunque la minaccia di uno schianto apocalittico a innervare il terzo pannello (dopo "Pasto nudo" e "La macchina morbida") della tetralogia di Burroughs - e mai come in "Nova Express" egli è riuscito a dare concretezza profetica alla sua "visione" e al suo ardito sperimentalismo. Certe scene sembrano già contenere tutto il cyberpunk e l'immaginario che alimenta Matrix, e l'idea del Linguaggio come onninvasivo strumento di plagio e anestesia sembra preludere a ogni successiva teoria del Complotto e del Controllo. L'unico, paradossale riscatto, in questo universo chiuso e manicomiale, è il linguaggio sabotatore di Burroughs: una frantumazione di suoni e di luci (esaltata dalla consueta tecnica del cut-up) che oscilla tra naturale e artificiale, biologico e tecnologico, ed è capace di amplificare vertiginosamente le possibilità metamorfiche e inventive della parola.
"Mi rendevo conto che c'era un demone in. me che gioiva nel vedere le persone per quello che erano, e sempre di più, sempre di più". Così Fleur Talbot rievoca per noi gli albori del suo talento letterario negli anni del dopoguerra londinese, quando, giovane e "piena di gaudio", scriveva il suo primo libro, Warrender Chase. Insieme a lei partecipiamo alle riunioni dell'Associazione Autobiografica, dove lavora come stenografa alle dipendenze dell'anziano e altezzoso Sir Quentin. I soci leggono al gruppo le proprie memorie, che Fleur, al momento della battitura, arricchirà di dettagli scabrosi. Dal canto suo Sir Quentin si premura di conservare i fascicoli sottochiave per ignoti, forse sordidi, usi futuri. Ma com'è possibile che intanto Sir Quentin vada somigliando sempre più a Warrender Chase"? O è Warrender Chase a precorrere misteriosamente, tappa per tappa, quel che accade a Sir Quentin?
Questo libro avrebbe dovuto chiamarsi "War in Abyssinia". Buon titolo: asciutto, fattuale, esotico. Dell'Abissinia nel 1935 nessuno sapeva nulla, anche se il paese era l'unico stato africano cooptato nella Lega delle Nazioni e il suo giovane despota era un pupillo dei media - Uomo dell'Anno per "Time". Ma adesso di quell'immensa piantagione di caffè stava per impadronirsi l'ultima arrivata nel circolo delle potenze coloniali: sì, la Grande Proletaria di Mussolini si preparava a invadere, e per ciò stesso a scatenare, nei timori di molte cancellerie, un conflitto globale. Ottima ragione per spedire sul posto un esercito di inviati - pericoloso quanto e più di quelli in armi, però, specie se forzato all'inazione. I centocinquanta embedded al seguito dell'esercito italiano erano infatti costretti a passare le veline dello Stato Maggiore, o riferire voci incontrollabili (i duemila morti nel bombardamento d'Adua, che a villaggio raggiunto si sarebbero rivelati sei). Quanto a quelli aggregati agli etiopi, se ne occupava un irreprensibile addetto stampa indigeno, che fin dal primo giorno aveva promesso notizie di due soli tipi: false, o tendenziose. Dopo qualche settimana gli inviati erano accampati in pianta stabile ai tavolini da bridge. Tutti, tranne il corrispondente dello "Evening Standard", Evelyn Waugh. Povero Waugh, mette a segno addirittura uno scoop, e ne è talmente geloso da scrivere il pezzo in latino, certo che i colleghi non lo mastichino. Così in effetti è...
Nel presentare ai suoi lettori "Storie proprio così", scritte in origine per far addormentare la sua primogenita, Kipling ricordava come non gli fosse permesso, allora, alterarne neanche una parola: andavano raccontate "proprio così", altrimenti la bambina "sarebbe saltata su a ripristinare la frase mancante". In seguito le avrebbe sperimentate con gli altri figli e i loro piccoli amici, studiandone le reazioni, dando ascolto a eventuali loro appunti, rifinendo ogni cadenza e intonazione, tanto che quelle storie hanno finito per diventare vere e proprie formule incantatorie. Così temi didascalici come geografia e preistoria, flora e fauna, nascita della scrittura, "evoluzione della specie" e altro materiale ponderoso, mirabilmente parodiati e reinventati, vengono assunti di diritto nell'empireo fiabesco. E verremo a sapere "perché" il Cammello ha la gobba o il Leopardo le macchie; scopriremo le origini degli Armadilli e come sia stato composto il primo Alfabeto; incontreremo il Gatto che se ne va per i fatti suoi e la Farfalla che batte i piedi - in un tripudio di trovate sempre più fantastiche, accompagnate da rime bislacche e disegni ancor più strani. Giacché qui Kipling ha voluto mostrare, per una volta, un altro suo inedito talento, corredando i testi di disegni in tutti i sensi originali, arabeschi di gusto fin de siècle - con un tocco forse dell'amico Beardsley - che arricchiscono le vie della lettura.
Maugham era un formidabile conoscitore della vita mondana - e di quella sua provincia che è la vita letteraria. Da entrambe trasse materiali preziosi e inesauribili per i suoi racconti, come dimostrano quelli qui riuniti. Di entrambe seppe riconoscere, con lucidità stupefacente, che esigevano una dura, quasi militare disciplina ed erano fondate su una ubiqua malevolenza. La più scintillante commedia poteva facilmente precipitare in dramma. O nasconderlo. Di queste commedie e di questi drammi Maugham fu il magistrale, sarcastico e penetrante cronista. Esemplarmente nel racconto che dà il titolo a questo libro, dove si scoprirà come l'"impulso creativo" possa anche avere origine dalla fuga, con la cuoca di casa, del docile marito di una prestigiosa autrice, celebrata per i suoi punti e virgola.
Quando Alan Querdilion, un ufficiale della Marina britannica, si risveglia nel letto di uno strano ospedale sono passati centodue anni, il mondo non è più lo stesso e lui si ritrova imprigionato in un incubo. I nazisti hanno vinto la seconda guerra mondiale e regnano incontrastati. I prigionieri-schiavi vengono allevati e trasformati nella selvaggina di un feroce sovrano. Un terrore remoto e indicibile si impossessa lentamente di Alan: è "il terrore che si prova ad essere cacciati". Qualcosa di notte si muove nella foresta e brama sangue. Lo sente avvicinarsi da lontano, preceduto dal suono di un corno. Sono note isolate, appena avvertibili, separate da lunghi intervalli, "ognuna così solitaria nel buio e nel silenzio assoluto, come un'unica vela su un vasto oceano". Poco dopo la fine della guerra, e ben prima che il genere distopico infuriasse fra i lettori di tutto il mondo, un diplomatico inglese estremamente discreto, che passava da una sede all'altra del Medio Oriente, scriveva questo piccolo romanzo, che fa pensare a un racconto di Wells, e dove all'immagine di un futuro alternativo governato dai nazisti si sovrappone ben presto la terrificante visione di un mondo capovolto e arcaico, regolato dalla caccia fine a se stessa. Ossessione ricorrente da varie migliaia di anni fino a oggi, e forse oggi più che mai.
"Questa non è una storia dell'India. Di quel paese, quando salpai alla sua volta, sapevo all'incirca quanto ricordavo dagli anni di scuola: che c'era stato un ammutinamento, per esempio, e che a vederlo sulla carta somigliava un po' a un Cervino capovolto; rosa, perché lo governavamo noi". Intorno alla metà degli anni Venti, senza alcuna preparazione e nemmeno una vaga idea di quello che lo aspetta - unico requisito richiesto, oltre alla cittadinanza inglese, era la somiglianza con il vichingo Olaf, personaggio leggendario di un romanzo di Rider Haggard -, il giovane Ackerley decide di partire per l'India, accettando di rivestire l'improbabile ruolo di segretario privato del Maharaja di Chhokrapur: invisibile staterello che oggi sarà vano cercare sulle carte, "posto che sia mai esistito". Infantile, lussurioso, ossessivo, smanioso di Assoluto e occidentalista all'estremo, Sua Altezza assillerà Ackerley con le domande più impensate e sulle questioni più insondabili, non ottenendo nient'altro che una serie di evasive risposte, ma trovando quello che forse, in fondo, cercava: un amico. Degli incontri giornalieri con il Maharaja e con gli altri non meno irresistibili personaggi che frequentano la sua corte è fatto questo libro: più che un diario di viaggio, un'esilarante e indimenticabile commedia di costume, e insieme una preziosa testimonianza involontaria sull'India al tramonto della colonizzazione.
"Avevo bisogno di soldi, e quel tizio pareva averne ... Come diavolo facevo a sapere che genere di persona era Harper?". Arthur Abdel Simpson è un apolide egiziano che si professa inglese, un volgare ladruncolo che vive di espedienti, circuisce i turisti che arrivano ad Atene e ruba i traveller's cheque dalle loro camere d'albergo. Ma Harper, l'uomo adescato appena fuori dall'aeroporto - uno che parlava "da americano" -, non è affatto quello che sembra, e lo coglie in flagrante. Arthur, temendo la polizia greca, accetta da lui quello che appare come un facile incarico, mettendosi subito nei guai alla frontiera. In stato d'arresto, gli rimane un'unica possibilità di salvezza: collaborare suo malgrado con il controspionaggio turco, infiltrandosi in quella che sembra una pericolosa banda di sovversivi. Nel meraviglioso scenario del Bosforo, Ambler intesse una trama, nella quale il gioco di ricatti e colpi di scena si sovrappone a una galleria di memorabili ritratti; tra i quali, vivido e sferzante, spicca quello del protagonista, con la sua misera esistenza messa alla berlina, il profondo disincanto verso il mondo, la caccia ostinata al più sordido tornaconto. Perché in fondo, per Arthur Abdel Simpson, "anche una briciola è meglio di niente".
"Uomo demoniaco e brillantissimo" diceva il necrologio di Terence Hanbury White, noto come Tim agli amici e come T.H. al resto del mondo. Erudito e letterato finissimo, inveterato misantropo, nonché calligrafo, artigiano squisito e naturalista affascinato dal ferino, nel 1937 restò avvinto da un trattato secentesco di falconeria e ordinò dalla Germania un astore, il più coriaceo fra i rapaci, per dedicarsi, ignaro, al suo addestramento. Questo libro è la cronaca di quell'impresa temeraria: non un manuale, ma il racconto di un'esperienza profonda e lacerante, il tentativo di sottomettere all'uomo "una persona che non era un umano". Il novizio non sapeva di avere a che fare con "un assassino" dai folli occhi di "un forsennato arciduca bavarese": eppure fra White, lo schiavo, e il suo tiranno, "l'orribile rospo aericolo" che per sei settimane lo impegnerà in un duello quotidiano, corre un vero "rapporto d'amore" perché il primo falco tocca sempre il falconiere nel profondo, e la sua perdita gli causa "uno smottamento del cuore" che lascia senza respiro.
Nell'Inghilterra vittoriana Sukey Bond, appena uscita dall'orfanotrofio, viene mandata a servizio in una fattoria dell'Essex. Nulla di meno fiabesco, verrebbe da pensare. Eppure la scrittura obliqua e onirica di Sylvia Townsend Warner ci fa vivere, in questo romanzo, una delle più enigmatiche ed emozionanti storie d'amore che sia dato leggere - dedicata, non a caso, ad Amore e Psiche. Perché nella fattoria lavora un giovane bellissimo ed elusivo, che nei loro rari, furtivi incontri guarda Sukey «con un'espressione di splendente trionfo». Tutti dicono che è «un idiota», ma Sukey lo vede solo «ilare e candido», sapendo che lei, e solo lei, potrà renderlo felice. E quando Eric le verrà rapito, Sukey capirà che il suo futuro non è più «una regione inesplorata fatta di nuvole», e andrà a cercarlo con infinita de terminazione. Cosi come infinite saranno le sue peripezie, al termine delle quali, con ironica maestria, ci verrà restituita una delle cose più preziose: la fiducia nell'impossibile.

