
È inutile chiedersi cosa sia la felicità, o come fare a raggiungerla. Lo scrive un padre ai propri figli nella lettera che apre questo libro: la felicità, spiega, non è una questione d'istanti, ma una presenza costante, che corre parallela a noi. Il problema è saperla intravedere, imparando a non farci abbagliare. Il padre è Roberto Vecchioni. Sono per i suoi figli Francesca, Carolina, Arrigo e Edoardo - i racconti che compongono il volume. Dalle bizzarrie vissute insieme a loro, a episodi comici e drammatici della sua carriera di insegnante; dagli amori perduti o ritrovati fino a un ritratto vivo e passionale di suo padre Aldo, Vecchioni attinge alla propria biografia per costruire un vero e proprio manuale su come imbrigliare la felicità, senza farla scivolare via finché non diventa soltanto un ricordo. Ma ci sono anche le canzoni, scritte in un arco di quasi quarant'anni. Ci sono squarci letterari: un racconto dalle Mille e una notte, la storia di Paolo e Francesca, il mito di Orfeo ed Euridice, un frammento di Saffo. C'è l'amata Casa sul lago, testimone di tanti momenti, alcuni dei quali difficili e persino spaventosi. Roberto Vecchioni ci conduce in un viaggio personale lungo quello che chiama "il tempo verticale", uno spazio che tiene uniti tra loro passato, presente e futuro, dove nulla si perde. D'altronde "la felicità non è un angolo acuto della vita o un logaritmo incalcolabile o la quadratura del cerchio: la felicità è la geometria stessa".
Sono le parole di un grande scrittore e non di un professionista del mondo delle arti figurative o di un accademico, quelle che Julian Barnes mette in conversazione con le immagini di alcune grandi opere del canone occidentale tra il 1850 e il 1920, dal maturo Romanticismo fino al Modernismo e oltre. Il punto di partenza è il dipinto noto come La zattera della Medusa di Géricault, di cui Barnes segue le fonti storiche nel naufragio della fregata francese Meduse nel luglio del 1816, per spostarsi poi sulla storia dei bozzetti preparatori e dell'autoreclusione del pittore per otto mesi durante il lavoro sulla grande tela, fino a offrire risposta su che cosa trasformi la catastrofe in arte, dopo aver trasformato l'evento in immagine. I saggi trattano dipinti di Manet, Bonnard, Vuillard, Degas, Cézanne, ma anche di Vallotton, Braque, Picasso e Magritte, fino agli inquieti ritratti di Lucian Freud, con la loro spietata ricerca dell'anima della carne, e al gigantismo giocoso di certa Pop Art destinata, nel giudizio di Barnes, a invecchiare male e approdare a una senilità precoce e un tantino ridicola. Si tratta di testi eruditi e brillanti che garantiscono tuttavia un piacere ulteriore a chi vi si accosta, quello di suggerire in controluce alle figure descritte potenziali personaggi o scene di romanzi di Barnes. Accade con l'analisi di certi interni borghesi di Vuillard, con l'attenzione tutta narrativa riservata alla posizione dei piedi nel dipinto di Manet L'esecuzione dell'imperatore Massimiliano; accade nel racconto delle vite a confronto di Braque e Picasso. Barnes si sbilancia, si diverte, ci incanta. E, dopo aver sommessamente contraddetto per quasi trecento pagine le indicazioni del maestro Flaubert, secondo il quale i grandi dipinti non vogliono parole a illustrarli, Barnes liquida se stesso commentando cosí le opere dell'amico Howard Hodgkin: «Questi quadri parlano ai miei occhi, al mio cuore, alla mia mente. Perciò, basta con le parole».
L'architettura non è semplicemente qualcosa che guardiamo da lontano o di cui ci serviamo per necessità pratiche, ma il catalizzatore della nostra autentica esistenza di esseri viventi che agiscono in armonia con il mondo. Dalle scale scavate a mano nei villaggi greci alle passerelle lasciate libere di fluttuare, dalla funzione dei paraventi giapponesi al senso di libertà che caratterizza le piazze italiane, dalla magistrale manipolazione delle forme di Frank Lloyd Wright alle mutazioni poetiche di Carlo Scarpa, ogni volta abbiamo a che fare con esperienze molto diverse, di passaggio da un livello a quello successivo, ognuna delle quali influenza la nostra esperienza dello spazio. Integrando sapientemente testo e immagine, ogni capitolo si concentra su un aspetto diverso delle nostre interazioni quotidiane con l'architettura, prendendo in considerazione scale, pavimenti, percorsi, spazi interni, percezione e prospettiva, e il rapporto tra un edificio e l'ambiente che lo circonda. Un volume che in un originale confronto con poeti, filosofi e psicoanalisti ripensa le basi e la storia dell'architettura, rivolgendosi non solo agli specialisti impegnati nell'ideazione di nuovi spazi, ma soprattutto a quanti cercano di comprendere meglio il loro posto nel mondo per come è stato e viene costruito dagli uomini.
Una volta giú, gli piacerebbe essere musicista ma è solo la sensazione di una sensazione. Non è una sensazione invece quel piolo sulla testa. E la sua Canzone piú bella? Quanto la dovrà tenere per sé e quanto lasciarla andare di fronte a un Ariston che si apre in due? Un vocal trainer può garantire qualunque cosa tranne il successo. Un manager, qualunque cosa tranne la fedeltà. Ma si può essere fedeli per tutta la vita alla propria batteria, e alla donna che suona il basso nel tuo gruppo da sempre. Signora Pilar, è durata anche troppo. Troppo poco un minuto per esprimere un desiderio al genio della chitarra. Ma non sono troppi dieci anni per un incontro cosí. O Sí? L'Uno e l'Altro. Insomma, questi racconti - cosí diversi fra loro e cosí inseparabili, vivaci come una scolaresca eterogenea ma affiatata - sono un tripudio di fantasia e vitalità. E soprattutto irrompono sulla scena due elementi nuovissimi nella scrittura vibrante di Ligabue: il fantastico e la forza della musica. La musica in tutte le sue declinazioni. La musica che, come il sesso e l'amore, sfugge fortunatamente a ogni tentativo di imbrigliarla. Perché solo nell'abbandono, nell'accettazione del mistero, nello stupore che ci afferra ogni volta come fosse la prima, possiamo sperimentare una quotidiana spettacolare magia.
Babasunde, che ha perso il suo nome. E quella ragazza intirizzita che cammina verso la stazione. Rrock Jakaj, violinista di Scutari. Jean-Claude Izzo, commosso dall'ascolto di una canzone di Murolo. E poi Tinochika detto Tino, che si è aggrappato con tutto se stesso allo sguardo di una donna. Gianmaria Testa ritorna - questa volta non nelle vesti di cantautore ma di scrittore sul tema delle migrazioni contemporanee. E lo fa senza retorica e con il solo sguardo sensato: raccontando storie di uomini con una lingua poetica e tagliente, insieme burbera ed emozionata. A dieci anni dall'uscita del disco "Da questa parte del mare", che ha ricevuto la Targa Tenco nel 2007 come migliore album dell'anno, quelle canzoni così vive e attuali generano qualcosa di nuovo: un altro tipo di scrittura e di voce. "Ho l'impressione che nei confronti del fenomeno delle migrazioni abbiamo avuto uno sguardo povero e impaurito che ha fatto emergere la parte meno nobile di noi tutti, - scrive. Bisogna avere occhi, cervello e coraggio da spendere". Prefazione di Erri De Luca.
Di tutte le tipologie di arte medievale, i manoscritti miniati sono probabilmente una delle meno accessibili al grande pubblico. Conservati perlopiù all'interno di biblioteche, questi volumi sono stati esibiti nel corso degli ultimi secoli in sale di lettura per specialisti e in sporadiche mostre ed esposizioni temporanee. Soltanto di recente le versioni digitalizzate sul web hanno ampliato in modo significativo l'accesso a queste opere. Eppure, di fatto, la pittura medievale di maggiore qualità artistica sopravvive nei libri più che in qualsiasi altro mezzo espressivo. Attraverso le illustrazioni del volume si viene trasportati in un viaggio di mille anni, concentrato soprattutto nel periodo medievale, ma capace di restituire la costanza nella produzione di manoscritti miniati della Bibbia in alcune tradizioni fino all'alba dell'era moderna. Dal punto di vista geografico si attraverseranno molti dei più importanti centri del mondo cristiano. Partendo da Costantinopoli, a Oriente, il viaggio si sposta a Lindisfarne al nord, nella Aquisgrana imperiale, fino a Canterbury, poi nella Tours carolingia. Proseguendo, vedremo alcune delle ricchezze di Winchester, della Spagna, di Gerusalemme, della valle della Mosa, dell'Iraq settentrionale, di Parigi, Londra, Bologna, Napoli, della Bulgaria, dei Paesi Bassi, di Roma e della Persia. Un viaggio che termina a Gondar, la capitale dell'Etiopia imperiale.
Dove corre il confine fra «paesaggio» e «città»? E come giudicare o indirizzare gli interventi sull'uno e sull'altra, o la continua crescita delle periferie? Devono prevalere i valori estetici (un paesaggio da guardare) o quelli etici (un paesaggio da vivere)? L'architetto è il mero esecutore dei voleri del committente, anche quando vadano contro l'interesse della collettività, o deve mostrarsi attento al bene comune? Sfidare i confini difficili fra città e paesaggio, decostruire i feticci di un neomodernismo conformista (il grattacielo e la megalopoli) e le sue conseguenze (i nuovi ghetti urbani) vuol dire tentare il recupero della dimensione sociale e comunitaria dell'architettura. In un paesaggio inteso come teatro della democrazia, l'impegno etico dell'architetto può contribuire al pieno esercizio dei diritti civili. Diritto alla città, diritto alla natura, diritto alla cultura meritano questa scommessa sul nostro futuro.
Già i pittori offrivano al vasto pubblico immagini decisive della storia: ma, prima di dipingere una battaglia, si informavano su chi l'aveva vinta. L'invenzione fotografica fu invece salutata come l'avvento dell'informazione obiettiva. I cronisti possono mentire, gli scatti sul campo dovrebbero riprodurre la realtà. Eppure, la ricostruzione storica dimostra che le foto piú famose sono spesso il risultato di artifizi. La nuova tecnica, nata per aiutare il vero, scivola al servizio della propaganda, alleandosi al falso. La parabola della fotografia riassume quindi in icone una degenerazione dei mass-media. Il libro di Zoja discute otto fotografie celebri. Le quattro che rappresentano "guerrieri" provengono da messe in scena. Possiamo invece credere alle altre quattro: riproducono dei bambini, che ignorano finalità nascoste. Questa rassegna anticipa il problema della post-verità, analizza la psicologia retrostante e offre strumenti per capirla.
L'infanzia di Dori e quella di «Bicio», che mostra come la storia sia sempre stata una sola, anche quando loro non si conoscevano. Il primo incontro, a un premio musicale vinto da entrambi, durante il quale non smettevano di guardarsi. La nascita della figlia Luvi e la quotidianità campestre in Gallura. I mesi del sequestro, in cui a sostenerli fu proprio quel legame «fermo, limpido e accecante» che sarebbe continuato oltre il tempo. Un tempo sempre scandito dalla magia degli incontri: da Marco Ferreri a Lucio Battisti, da Cesare Zavattini a Fernanda Pivano. Tra bambine che chiacchierano con Arturo Toscanini e bambini che bevono cognac sotto i bombardamenti. Tra cuccioli di tigre allevati in salotto e un viaggio in nave con un toro limousine. Scritto assieme agli sceneggiatori di Principe libero, il film tv sul cantautore, Lui, io, noi è una storia privata che s'intreccia con quella pubblica di chi, da sessant'anni, ascolta De André. Soprattutto è il racconto intimo, commovente, a tratti perfino buffo, di un grande amore.
In occasione dell'uscita della serie Tv "I Bastardi di Pizzofalcone", Maurizio de Giovanni dà voce ai personaggi che compongono la squadra investigativa più famosa d'Italia. Ognuno di loro si racconta, talvolta quasi si confessa. E parla dei colleghi e dello strano commissariato dove, contro ogni previsione, ha trovato riscatto. Con 134 foto del set.
La canzone napoletana studiata e raccontata non nei suoi aspetti folcloristici più standardizzati, ma come mito che affonda negli archetipi musicali più antichi, come sonorità rimosse dalla memoria e affioranti dove meno te l'aspetti: in un mercatino domenicale dove si vendono dischi di prima della guerra o nel negozio di un barbiere cantante che conserva tradizioni perse nei secoli. Roberto De Simone ci conduce in una ricerca che diventa inventario di testi e musiche, ma anche racconto di personaggi, di luoghi, di rappresentazioni popolari devote e profane. Sempre nei libri di De Simone alto e basso, popolare e colto si intrecciano indissolubilmente; così avviene anche in questo libro, che insieme al saggio sul Presepe napoletano è forse il suo capolavoro, la summa delle sue ricerche e della sua antropologia culturale. Dunque nelle pagine della Canzone napolitana l'arte canterina di un anonimo venditore ambulante e la raffinata poesia di Salvatore Di Giacomo vanno a braccetto fra loro, come i melodrammi di Rossini e Donizetti e la performance di tre femminelli in processione a un santuario. L'alternanza fra capitoli di rigorosa musicologia e altri di spericolata narrazione è più apparente che reale, perché nei capitoli storico-musicali si insinua la fiction (come in un bellissimo colloquio immaginario fra Torquato Tasso e Monteverdi) e nelle narrazioni c'è molta filologia (peraltro le partiture delle canzoni sono raccolte in fondo al volume). Attraverso la trattazione storica e il racconto, De Simone delinea un genere musicale ma tratteggia anche il ritratto della sua città: una Napoli cangiante nei secoli eppure sempre se stessa. Un collage di sovrapposizioni (splendidamente rappresentate in un parallelo visivo dalle illustrazioni di Gennaro Vallifuoco, antico sodale di De Simone) legato da un filo rosso che arriva fino alla seconda guerra mondiale e, attraverso le testimonianze più resistenti ai cambiamenti della modernità, a saperle trovare e ascoltare, fino ai giorni nostri.
Molte sono le opere di Rembrandt con oggetti tratti dalla Bibbia ebraica e numerosi sono i suoi ritratti di notabili ebrei. Ma quali furono i concreti legami tra Rembrandt e la comunità ebraica? Steven Nadler documenta i rapporti quotidiani, non sempre facili, tra il pittore e i suoi vicini di casa a Vlooienburg, nel cuore del mondo ebraico di Amsterdam. E ben presto, partendo dal lavoro del grande artista, il rinomato studioso di Spinoza estende il campo d'indagine, per descrivere alcune pagine centrali della vita dei sefarditi e degli ashkenaziti all'indomani del loro insediamento presso lo Zuiderzee: l'assimilazione da parte di una società cosmopolita di queste comunità di migranti, oggetto di interesse intellettuale e sospetto, curiosità e pregiudizio, e talvolta ammirazione. L'attento esame di dipinti, incisioni e di segni sfocia nell'analisi della vita culturale e sociale del Secolo d'oro olandese, e approfondisce le fondamentali questioni di carattere spirituale, teologico e politico dell'epoca. Un viaggio lungo i canali e sotto i cieli annuvolati dell'affollata Amsterdam, tra personalità fuori del comune, accese discussioni e splendidi capolavori artistici.