
Le vetrate medievali erano parte integrante del rituale religioso, assolvevano a ben precise funzioni didascaliche, proponevano storie che facevano parte di una cultura collettiva che per secoli informa di sé l'intera civiltà occidentale. La stessa estetica della luce non è questione di gusto ma trova precisi riscontri concettuali e legittimazione nelle dottrine neoplatoniche. Inoltre è facile rendersi conto di come la costruzione di una vetrata fosse il risultato di sapienze tecniche e artistiche tali da coinvolgere specializzazioni, conoscenze e strutture materiali assai ampie. Sicché studiare le vetrate significa, di fatto, affrontare il tema della cultura artistica medievale e della sua geografia, della circolazione dei modelli, della presenza dei cantieri, così come delle tecniche e dei simboli.
Calder che lavora sull'incudine a una delle sue celebri sculture equilibriste; Burri con in mano invece del pennello la fiamma ossidrica; Segal che plasma le mummie bianche di gesso; Fontana mentre squarcia con un taglierino la tela bianca; Warhol al lavoro nella confusione della Factory; Giacometti che cammina tra i suoi uomini scorticati e filiformi; ma anche Melotti, Pistoletto, Duchamp, Newman... Una serie di ritratti di grandi artisti del Novecento al lavoro nell'atelier o per le strade delle loro città. Artisti-amici ricordati per immagini nei magici momenti della creazione artistica; ma anche con le parole, in pagine nelle quali Ugo Mulas riesamina il significato del loro e del suo lavoro, e "verifica" gli elementi costitutivi e il valore dell'operazione fotografica.
Il più noto dei testi incompiuti di Brecht è stato per lungo tempo un riassunto di poche righe pubblicato all'interno delle sue opere complete. Heiner Müller ha consultato gli archivi di Berlino e ha scoperto centinaia di pagine di appunti legati al soggetto "Fatzer". Brecht vi lavorò tra il 1927 e il 1932 scrivendo quasi seicento pagine di appunti, frammenti, scene complete e note teoriche in cui sviluppava una nuova idea di teatro. Il dramma è ambientato nella Germania degli anni della Prima guerra mondiale, Johann Fatzer e tre commilitoni nascondono il proprio panzer e scappano a Mühlheim, una città segnata dalla fame e dal malcontento sociale.
La prima guida all'uso personale del cinema. Di tutto il cinema. Da quello mai visto o dimenticato al grande successo planetario. Da Hollywood a Dakar, da Hong Kong a Cinecittà, di serie A e di serie Z, in nitrato d'argento o digitale. Una mappa geografica ed emozionale del cinema, suddivisa per generi.
Quando scrisse le tre parti del "Wallenstein", fra il 1796 e il 1799, Schiller era ormai un uomo maturo. Aveva abbandonato le ingenuità e i furori ideologici delle prime tragedie, nelle quali il bene, il coraggio e la libertà stavano da una parte, e il male e la tirannide dall'altra. Nel portare sulle scene le vicende del generale dell'impero asburgico, che tante battaglie vinse durante la Guerra dei Trent'anni ma venne poi sospettato di tradimento e ucciso, Schiller non mette in campo vizi contro virtù, ma uomini a tutto tondo, un po' buoni e un po' cattivi, in lotta fra loro; soprattutto rappresenta le loro volontà teoriche in lotta contro l'andamento quasi meccanico delle loro azioni negli insondabili destini tracciati da quel groviglio di forze discordi che è la storia. Un caposaldo del teatro europeo tradotto da Massimo Mila sessant'anni fa in una prosa che ancora oggi appare moderna ed efficacemente teatrale.
Una guida ideale a tutti i musei. Mille anni di immagini di un lungo Medio-evo scorrono davanti ai tuoi occhi e assumono per la prima volta un senso di racconto altrimenti destinato a restare sepolto solo nelle biblioteche degli eruditi. Affreschi, sculture, mosaici e pale tornano ad essere, grazie a questo viaggio meraviglioso, quello che erano. Storie di incontri, emozioni, sentimenti. Immagini che trovano una parola che racconta.
A seconda di come siede, tiene le gambe o muove le mani e il volto, un condannato dice la sua superbia o la sua arroganza, Pilato è tormentato dal dubbio, Maria è sconvolta dal dolore, un peccatore rifiuta la tentazione del demonio. E il gesto famoso delle tre dita levate di Cristo non è solo per benedire, ma può significare anche semplicemente parlare o, se affidato ad altri personaggi e situazioni, legiferare, detenere il potere. E tu, in possesso di una nuova grammatica, molto precisa, molto efficace e molto memorabile, non hai piú davanti solo forme mute e bellissime, ma vere e proprie storie di vita. Robert Louis Stevenson, proprio lui, l'autore dell'Isola del tesoro, pensando alla grande letteratura, parlava della sua forza «plastica», quella capacità cioè di rappresentare i sentimenti interiori piú profondi descrivendo con le parole i piú semplici gesti quotidiani. Qui avviene in qualche modo un movimento contrario ma di uguale potenza conoscitiva. Immagini di grande efficacia plastica riacquistano potenza grazie a una ritrovata forza narrativa. La voce delle immagini, appunto. Dal Medioevo, ma non solo.
Fra le centinaia di immagini del libro ne compare una che sembra totalmente fuori contesto. È Aldo Moro che, parlando, unisce indice e pollice della mano destra nel gesto classico che esprime esattezza. Il libro ti fa capire come quel gesto nasca nell'iconografia medievale, a dimostrazione non solo del fatto che le immagini antiche parlino, ma che ancora ci parlano e ci fanno parlare.
Si esce dal libro di Chiara Frugoni con nuove chiavi per comprendere ciò che abbiamo a portata di sguardo.
«Nel Medioevo, diciamo per semplificare almeno fino a tutto il XII secolo, il viso dei personaggi non esprime i sentimenti e i moti interiori dell'animo, demandati al linguaggio dei gesti e delle mani, quasi il corpo parlasse. Come vedremo, quanto appena affermato rimane vero in molti casi anche nei secoli seguenti.
Chi ha potuto assistere agli spettacoli di Giorgio Strehler nei quali l'attore Ferruccio Soleri recitava la parte di Arlecchino con il volto completamente e sempre coperto da una maschera nera, comunicando però con la sua agilità espressiva svariatissime emozioni allo spettatore, può comprendere quale fosse il tipo di reazione dello spettatore medievale davanti, ad esempio, ad una figura che con una mano si afferra l'altra mano o ne stringe il polso».
Pochi studiosi hanno inciso sul pensiero e sulla cultura artistica del proprio tempo come Johann Joachim Winckelmann; ma il suo lascito va ben oltre il Settecento, se è vero che da allora e anche oggi lo si riconosce come fondatore dell'archeologia classica e della storia dell'arte. Proprio l'unanimità di questo riconoscimento ha portato spesso a guardare alla sua opera come a una sorta di monumento, ingessandone il contenuto in rigide formule, oppure identificandola completamente con l'esperienza neoclassica. In realtà i "Pensieri" del 1755 e i brevi scritti degli anni successivi, come poi le opere della maturità - la "Storia dell'arte nell'antichità" e i "Monumenti antichi inediti" - mostrano continuamente la ricchezza e la vivacità del suo pensiero, l'acutezza delle osservazioni sull'arte degli antichi e su quella dei moderni, la capacità di proporre ampie visioni storiche, ma anche di decifrare il minimo dettaglio. Nel frattempo la modernità viene posta di fronte al mondo classico e costretta a confrontarsi con quello, da una parte sul piano dell'arte, dall'altra secondo la prospettiva della vita culturale, dei comportamenti, delle strutture politiche. L'antologia di scritti, apparsa da Einaudi già nel 1943, viene ora riproposta con testi recuperati nella loro integrità, una nuova scelta di passi, una bibliografia aggiornata e un apparato di note di commento.
Poche settimane prima di suicidarsi, Vincent Van Gogh dipinge il ritratto del proprio medico: Paul-Ferdinand Cachet. Il ritratto è quello di un vecchio seduto a un tavolo rosso. Un pugno scheletrico sostiene la testa, l'altra mano giace appoggiata sul tavolo con le dita leggermente allargate. Indossa un cappello color panna e una giacca blu scuro. La posa è quella classica della melanconia. O meglio, come scrive Van Gogh all'artista e amico Paul Gauguin, "nel mio ritratto il dottore ha l'espressione affranta del nostro tempo". Questo libro è la storia del quadro e delle incredibili vicende di cui fu il vero protagonista. Un'avventura che dura cento anni. Inizia nel 1890 e continua fino al 1990, quando il "Ritratto del dottor Cachet" approda a Manhattan e durante un'asta di Christie's, lotto 21, viene aggiudicato per 82,5 milioni di dollari. Il quadro viaggia ininterrottamente da Parigi ad Amsterdam, a Copenhagen, Berlino, Weimar, poi è di nuovo a Parigi, Francoforte, Berlino, Amsterdam, e infine a New York e Tokyo. Da una città all'altra, da un continente all'altro. Passa di mano in mano di molti proprietari: ricchi artisti d'avanguardia, galleristi famosi e senza scrupoli, collezionisti appassionati, direttori di museo che cercano di salvarlo dalla furia della propaganda di regime, ricchi banchieri e anche un membro dell'elite nazista.
La città europea è da sempre l'ambiente della civitas democratica occidentale. Quello dove i cittadini si riconoscono come tali, dove sono cresciuti i diritti umani e le libertà. Per questo i muri dell'urbs sono stati immaginati con la pretesa di offrire una prospettiva di eternità nella quale radicare le speranze terrene e riconoscersi pienamente come cittadini. Il degrado delle periferie europee, i cui abitanti sono privati della loro appartenenza alla civitas è uno dei disastri del Novecento. L'Europa è stata capace di risollevarsi dalle sbandate per i totalitarismi, salvata dall'antica radice democratica della civitas, ma non sembra ancora avviata a rigenerare con altrettanta consapevolezza la consolidata figura dell'urbs. Senza alcuna nostalgia tradizionalista, Marco Romano invita a riscoprire il linguaggio consolidato attraverso i secoli nella sfera estetica della città. Quel linguaggio che non è soltanto una declinazione artistica tra le tante, ma il solo modo con il quale la civitas esprime il sentimento della propria cittadinanza e il riconoscimento della dignità dei suoi cittadini.
La vocazione alla forma è una necessità vitale della natura quanto dell'arte.
Tutto ciò che vive possiede una forma e tutto ciò che si comunica presenta una forma. Questo libro si propone di indagare le segrete relazioni che intercorrono tra le forze psichiche che promuovono la genesi della forma artistica, le forze fisiche che agiscono sulla struttura della materia e le energie che originano i processi delle morfogenesi nelle forme viventi. L'informazione, la morfogenesi e le trasformazioni metamorfiche sono processi che attraversano la natura e la cultura, lo spazio e il tempo, la materia e il vuoto, il campo e le forze, l'ordine e il caos, la parte e il tutto, l'unità e la molteplicità, la costanza e il mutamento, la polarità e la crescita, istituendo una continuità tra piani fisici, biologici, artistici e percettivi. Avvalendosi delle intuizioni di artisti come Leonardo, Klee, Goethe e delle teorie matematiche di D'Arcy Thompson, Benoît Mandelbrot e Buckminster Fuller, l'autore avanza l'ipotesi di una teoria unificante dei principî formativi, suffragata dal fatto che tanto nella natura quanto nella pratica artistica la forma non è data a priori, ma si forma nel tempo, manifestandosi come il momentaneo diagramma di forze di un processo in divenire. Se da un lato la morfogenesi della forma assicura la distinzione e la singolarità delle cose, dei concetti e dei fenomeni, dall'altro manifesta localmente i caratteri di una cosmogenesi, di un evento promosso da forze non ancora del tutto comprese, rivelatrici del senso assoluto della totalità e dell'universalità, trascendenti in ogni forma di vita e in ogni forma d'arte.
"Negli ultimi anni sono diventato un appassionato di opera. Con l'avanzare dell'età lo spirito richiede un nutrimento più ricco. Curare l'adattamento di Viaggio alla fine del millennio a opera lirica mi avrebbe dato l'opportunità di dispiegare le ali della "poesia medievale", di trasformarla in canto vero e proprio. Così, malgrado non avessi mai curato la trasposizione di una mia opera in un'altra forma d'arte, e mai naturalmente mi fossi cimentato nella stesura di un libretto operistico, chiesi alla direzione del teatro dell'Opera israeliano di inviarmi quanti più esempi di libretti di opere famose e cominciai subito a contare le righe per sapere quanto fosse necessario dilungarmi" (Abraham B. Yehoshua).
Al pari di altri fondamentali ambiti disciplinari, la cultura architettonica odierna è esposta al rischio della progressiva perdita di memoria storica, e della mancanza di comprensione dei fenomeni. Questo volume intende essere una approfondita riflessione di una disciplina che ha sempre più un ruolo di primo piano nella società. Marco Biraghi ripensa la storia dell'architettura contemporanea non solo per aggiornarla rispetto alle altre opere di questo genere - inevitabilmente invecchiate dal punto di vista del metodo oltre che cronologico - ma sopratutto per leggere i molteplici aspetti che caratterizzano il secondo dopoguerra, rispettandone la complessità, e ponendo la materia sotto una precisa angolazione critica.