La pace di Versailles ha segnato, per giudizio ormai unanime della storiografia, la fine della centralità dell'Europa nella storia mondiale. L'Europa che ne uscì, pur indebolita, continuò a interpretarsi come un «concerto delle potenze». E nell'estremo tentativo di stabilire quali di queste potenze dovessero assumere l'egemonia si giunse al loro collasso: per quanto non fosse allora evidente, si sarebbe trattato di un fenomeno che avrebbe coinvolto tanto i vinti quanto i vincitori della Grande guerra. Il tentativo di non accettare questo dato di fatto costò una nuova guerra mondiale, che lo sanzionò fuor di ogni dubbio. Nacque però una nuova e parzialmente diversa storia d'Europa, non più incentrata sul ripristino impossibile della sua centralità come «potenza» nel senso classico del termine, ma ancora percorsa dall'orgoglio di ricostruirsi almeno come «potenza civile». Questo volume offre una serie di riflessioni sulla complessità della vicenda che si è snodata fra due date simboliche: la conferenza di Versailles e la caduta del muro di Berlino. A cent'anni dal primo e a trent'anni dal secondo, in queste pagine si ragiona su una storia che ha visto mutare la geografia, i sistemi politici e sociali, la cultura, le relazioni internazionali, fino a giungere alle radici della crisi che attualmente coinvolge il nostro continente.
Il 12 settembre 1919 un poeta, alla testa di duemila soldati ribelli, conquista una città senza sparare un colpo. Vi rimarrà oltre un anno, opponendosi alle maggiori potenze sotto gli occhi di un mondo ancora sconvolto dalla Grande Guerra. Lo scopo di Gabriele d'Annunzio e dei suoi legionari non era solo rivendicare l'italianità di Fiume: il Vate sognava di trasformare la sua «Impresa» in una rivoluzione globale contro l'ordine costituito, e nell'avveniristica Carta del Carnaro - una costituzione avanzatissima - teorizzò un governo della cosa pubblica lontano da quello dello Stato liberale, socialista, fascista. Per sedici mesi Fiume fu teatro di cospirazioni, feste, beffe, battaglie, amori, in un intreccio diplomatico e politico sospeso tra utopia e realtà. Militari, scrittori, aristocratici, industriali, femministe, sovversivi, politici, ragazzi fuggiti di casa componevano l'esercito del «Comandante», inconsapevoli di quanto avrebbero influenzato l'immaginario del Novecento. Nelle luci e nelle ombre dell'Impresa ritroviamo, a distanza di cento anni, molti aspetti del mondo di oggi: la spettacolarizzazione della politica, la propaganda, la ribellione generazionale, la festa come mezzo di contestazione, la rivolta contro la finanza internazionale, il conflitto tra nazionalismi, il ribellismo e la trasgressione. Mussolini, che a Fiume tradì d'Annunzio, saccheggiò quell'epopea adottandone la liturgia della politica di massa: i discorsi dal balcone, il dialogo con la folla, il «me ne frego», l'«eia eia alalà», riti e miti: così l'Italia democratica ha voluto dimenticare che la «Città di Vita» fu anzitutto una «controsocietà» sperimentale, in contrasto sia con le idee e i valori dell'epoca sia - e tanto più - con quelli del fascismo. Eppure, se molti legionari aderirono al regime, come Ettore Muti, molti altri furono irriducibilmente antifascisti, confinati o costretti a morire in esilio, come il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris. Giordano Bruno Guerri ricostruisce quei sedici mesi attraverso migliaia di documenti custoditi negli Archivi del Vittoriale, intrecciando la grande storia con le vicende degli uomini e delle donne che hanno vissuto quell'irripetibile avventura, e portando alla luce un aspetto inedito della poliedrica personalità dell'uomo che ne fu l'ispirato animatore e l'indiscusso protagonista.
Il 23 marzo 1919 è una data cardine nella storia d'Italia. Quel giorno, a Milano, in piazza San Sepolcro, al primo piano di Palazzo Castani, elegante edificio di fine Quattrocento, l'ex socialista Benito Mussolini fonda i Fasci italiani di combattimento. Sulla scena politica irrompe un movimento di tipo nuovo, aggressivo e dinamico, che non solo mescola estremismo di destra e radicalismo di sinistra ma raccoglie simpatizzanti di ogni genere: Arditi, futuristi, reduci, massoni, socialisti, sindacalisti rivoluzionari, anarchici. La maggior parte di loro sono giovani. Il programma è avanzato e decisamente riformista: si propongono la Costituente repubblicana dei combattenti, l'abolizione del Senato, il suffragio universale maschile e femminile, l'introduzione delle otto ore lavorative. Mussolini, in particolare, vuole affidare la guida del Paese a una nuove élite, l'aristocrazia dei combattenti. L'obiettivo è spodestare la vecchia classe dirigente liberale, scongiurare il pericolo bolscevico e conquistare il potere. Dalle colonne de «Il Popolo d'Italia», il quotidiano interventista creato nel 1914 grazie ai finanziamenti degli industriali, Mussolini rivendica l'annessione di Fiume e della Dalmazia, soffia sul fuoco della crisi economica, legittima l'uso della violenza come strumento di lotta politica (il primo assalto alla sede dell'«Avanti!» avviene il 15 aprile 1919). Eppure, per il fascismo delle origini le elezioni di novembre si rivelano un insuccesso: Mussolini non viene neppure eletto alla Camera ed è addirittura arrestato per violenze. Come il leader fascista reagì alla sconfitta e riorientò il suo movimento verso nuove prospettive? Chi lo aiutò in quel frangente? Lo spiega in maniera chiara ed esauriente Mimmo Franzinelli, ponendo al centro della sua analisi proprio il "diciannovismo", ossia quella pericolosa miscela di violenza verbale e fisica che avvelenò il clima sociale dell'epoca, scatenando lampi di guerra civile. Sulla base di inedite fonti d'archivio, l'autore ha potuto ricostruire le variegate identità e i tortuosi percorsi biografici di chi, quel 23 marzo 1919, partecipò all'«adunata», un evento che la propaganda di regime - inventando il «brevetto di sansepolcrista» - innalzerà a vero e proprio mito fondativo del fascismo. A un secolo esatto di distanza dalla fondazione dei Fasci italiani di combattimento, le pagine di Franzinelli hanno il merito di gettare nuova luce sull'avventura politica e personale di Mussolini e di ricostruire, in maniera scrupolosa, il preludio di una dittatura.
Agli albori del 1915 l'Italia è una nazione ancora da forgiare. Il popolo è diviso da irriducibili differenze: non c'è una lingua, non c'è un sentimento comune. Gli italiani devono temprarsi in una solida unità nazionale. La soluzione è la guerra, la fucina il campo di battaglia. Più alto sarà il sacrificio, più nobili saranno i risultati. A pagarne il prezzo saranno i giovani costretti in un fronte che corre per seicento chilometri, dalle Dolomiti all'Adriatico. Combatteranno in un biancore di pietre e di neve che dura tutto l'anno, saranno uniti nella paura e nell'angoscia, uccideranno. Intorno a loro l'assordante fuoco di sbarramento, l'insostenibile tensione prima dell'"ora zero", l'inferno della terra di nessuno. Luigi Cadorna avrà in pugno le vite dei suoi soldati. Nel 1919 chi alla patria aveva dato tutto si lascia conquistare dalla "trincerocrazia" di Mussolini e dall'idea che la Grande guerra costituisca il fondamento della nazione. Si prepara così la scena per l'avvento del fascismo. Valorizzando fonti come i diari dell'epoca e le interviste ai veterani, lo storico inglese Mark Thompson con "La guerra bianca" restituisce il pathos degli assalti alle trincee, ripercorre con sobrietà e precisione l'epica del fronte italiano, mette a nudo la foga nazionalistica e gli intrighi politici che hanno preceduto il conflitto. Tra le pagine del libro, le esperienze di guerra di una grande generazione di scrittori schierati su fronti opposti: Ungaretti, Hemingway, Kipling e Gadda.