Sono il ragionier Ugo Fantozzi, che i miei superiori hanno sempre chiamato con disprezzo «Fantocci», alle volte «Pupazzi» e i miei perfidi colleghi «Scagnozzi» e a Natale «Scagazzi». Sono qui con la mia signora Pina, che poi è mia moglie.
Non bella, ma fedele. Una sola volta ella stessa medesima m'ha confessato d'essersi innamorata di Checco il garzone del fornaio sotto casa. Egli medesimo era un botolo con un culo molto basso infilato in un paio di jeans, due ascelle violacee, perché non si lavava mai e che c'aveva un alito tipo fogna di Calcutta. Alla fine di questa storia io alla mia signora, che poi come avete intuito è anche mia moglie, c'ho domandato:
- Ma tu Pina a me mi ami? - Lei fecette una pausa e poi mi dì:
- Io Ugo... ti stimo moltissimo!...
«A sedici anni, nei versi di Majakovskij, lessi una storia che mi segnò per sempre. La ditta Van Houten, che produceva dell'eccellente cacao, ebbe una trovata macabra e geniale: comprare l'ultimo desiderio di un condannato a morte per pubblicizzare la sua polvere scura. L'uomo davanti alla folla curiosa avrebbe dovuto gridare come ultimo desiderio lo slogan: Bevete cacao Van Houten! In compenso, la sua famiglia avrebbe ricevuto una somma di denaro sufficiente a vivere con tranquillità almeno per un paio d'anni.
L'uomo gridò. La mia anima di sedicenne anche».
Quando si nasce nella «prigione chiamata Albania», esistono solo due modi di orientare lo sguardo. C¿è quello del pittore Petraq, che cammina chino sull¿asfalto e sembra rimpicciolire ogni giorno di più: è lo sguardo basso della colpa, di chi si vergogna della propria vecchiaia, ma anche della propria bellezza, o di un marito che ha troppa voglia di fare l¿amore. E poi ci sono gli occhi puntati dritti verso formidabili orizzonti: è lo sguardo di Gazi che attraversa l¿Adriatico e sogna di portare la sua musica in Italia, in Francia, negli Stati Uniti. Sono gli occhi di Teuta mentre stropiccia il foglietto su cui è segnato l¿indirizzo che dovrebbe accoglierla a Roma, quelli di Sabrina inghiottita dal mare, e di Lumturi che si nutre delle pagine di Proust e Stendhal.
Complice un tempo che sembra eterno, l¿Albania smette di essere prigione per diventare limbo, uno stato transitorio nel quale si sopravvive coltivando «promesse d¿altrove», fino al giorno in cui si parte davvero. Ed eccolo, finalmente, «il paese dei miracoli», un luogo in cui la bellezza femminile non è più dannazione ma fortuna, il pesce non ha le lische e le scatole di tè racchiudono prodigi mai sentiti.
Ma l¿autrice di questi quattordici racconti, che ha lasciato Tirana a ventidue anni e ha scelto di scrivere in italiano, di sguardo ne ha inventato un altro: obliquo, che gioca a ribaltare le ovvietà della lingua e dell¿esistenza.
Coniugando crudeltà e tenerezza, Ornela Vorpsi riesce a ritrarre quell¿essere meraviglioso e fragile che è l¿umano, capace di vendersi al prezzo di un sogno, persino nel momento del respiro ultimo. Una scrittura spietata e intrisa di ironia, animata da una lingua unica, ricca di potenza simbolica, che fa dell¿assenza di radici la sua forza e trasforma lo spaesamento in strumento di conoscenza.
J. M. Coetzee è morto. Un giovane accademico inglese decide di scrivere la biografia del premio Nobel sudafricano: si soffermerà in particolare sulla prima metà degli anni Settanta quando lo scrittore, appena tornato dagli Stati Uniti e ancora ben lontano dalla fama letteraria, viveva al limite dell'indigenza insieme al padre in una modesta villetta. Per farlo, intervista alcune persone che lo conobbero - tra cui due donne che ebbero una relazione con lui - e che gli furono vicine durante quei difficili anni di apprendistato alla vita. Perché, sebbene abbia più di trent'anni, John Coetzee appare un uomo inadatto alla vita adulta, bloccato nella condizione di figlio, incapace di mantenere una relazione con le donne, un solitario chiuso in se stesso, un amante freddo e maldestro («uno stoccafisso»), un insegnante controvoglia, uno scrittore tutt'altro che talentuoso («non aveva una sensibilità speciale, almeno che io potessi individuare, nessuna intuizione originale sulla condizione umana»). Ma la caratteristica che più di tutte emerge dai racconti dei testimoni è la profonda sfiducia che il futuro autore di Aspettando i barbari sembra nutrire verso il linguaggio e la capacità degli uomini di comunicare - e di conoscere se stessi - attraverso le parole.
Per queste sue «memorie d'oltretomba», terzo momento (dopo Infanzia e Gioventù) dell'affresco autobiografico delle Scene di vita di provincia, Coetzee scompagina le carte: non solo perché immagina la propria morte e ne affida il racconto a testimoni forse non così affidabili (veramente Coetzee era scapolo in quegli anni? Veramente la madre era morta?), ma perché spinge fino al punto di non ritorno le categorie stesse di autobiografia e finzione, di identità e realismo.
«E se fossimo tutti fabbricatori di storie, come lei dice di Coetzee? E se tutti continuamente inventassimo la storia della nostra vita?» Solo il romanzo - è la scelta di Coetzee -, con le sue ambiguità e le sue infinite complicazioni, resiste alla tentazione di dare risposte facili a domande complesse.
New England, intorno alla metà del XIX secolo. Cattolico tra i protestanti, orfano accolto appena nato nel convento di Saint Anthony, a undici anni Ren è ancora in attesa di qualcuno che lo adotti, risparmiandogli così l'arruolamento forzato nell'esercito. Ma come sperarci, con quella sua diversità tanto lampante? Ren, in compenso, ha già scoperto di possedere un innegabile talento: quello per il furto. Quando il misterioso Benjamin Nab, sedicente ex soldato e avventuriero dal sorriso irresistibile, viene a reclamarlo sostenendo di essere suo fratello, per Ren avrà inizio una serie di peripezie travolgenti in cui mettere a frutto il suo «dono». Benjamin, in compagnia di Tom, maestro in disgrazia e alcolizzato, lo coinvolgerà in una sfilza di affari loschi infarciti di tonici miracolosi, esibizioni pietose per abbindolare i gonzi, fino ad arrivare all'esumazione di cadaveri da rivendere agli ospedali per le autopsie. Sarà proprio in una di queste sortite che Ren farà amicizia con il gigantesco e «frankesteiniano» Dolly, assassino letteralmente risorto dalla tomba. E il ragazzo avrà bisogno di tutti loro per andare incontro al suo destino, nella città ferita di North Umbrage, sotto l'ombra dell'enorme e tetra ciminiera della fabbrica di trappole per topi del temibile contrabbandiere McGinty e dei suoi scagnozzi in cappello e guanti rossi.
Con una ricostruzione storica vivida e puntuale senza mai essere invasiva, tra echi di Dickens, Mark Twain e Stevenson, la storia di Ren ci porta alla scoperta di un mondo marginale e picaresco, dove ciascun individuo ha una storia inattesa alle spalle e dove un «piccolo ladrone» può davvero aver modo di dimostrare tutto il suo buon cuore. In un alternarsi di episodi commoventi e situazioni esilaranti, Ren andrà alla ricerca della famiglia che ha sempre desiderato e scoprirà - oltre alle storie edificanti delle Vite dei santi e alle avventure del Cacciatore di cervi - nei momenti in cui lui e Benjamin avranno bisogno di trarsi d'impaccio, il potere inarrestabile e il fascino irresistibile di una storia raccontata bene.
«Oscuro e trascinante... Nel Buon ladro il lettore trova un romanzo ricco di virtù tradizionali: struttura solida, estrema lucidità, un impeto viscerale e una totale assenza di manierismi stilistici. Hannah Tinti ambienta in America un racconto dickensiano con tratti di humour e fantasia alla Harry Potter, e un tocco macabro d'inquietante storia del New England».
The New York Times
«Davvero un bel libro... Ti fa ricordare perché ti sei innamorato della lettura tanto tempo fa... L'immaginazione fervida della Tinti... ci fa riscoprire la nostra. È un dono da tenere caro...».
Boston Globe
Dopo il terribile massacro di Fort Vance - in cui il sergente ha involontariamente giocato un ruolo che l'ha reso, agli occhi dei suoi vecchi compagni d'armi, un "rinnegato" - Kirk vive in preda al tormento e al rimorso: non può tornare tra i militari, che lo considerano un traditore, ma neanche restare con gli indiani, sempre in guerra tra loro. Così, nonostante il sostegno dei suoi, fino ad allora, inseparabili amici (il giovane "fratello di sangue" Maha, Il Corto e il dottor Forbes) decide di partire da solo per vivere come un lupo lontano dal suo branco. Ma il legame che lo unisce ai suoi più cari affetti è troppo forte per poter essere reciso e ben presto, complice il destino, i quattro si ritroveranno di nuovo assieme ad affrontare indiani feroci, vendicativi ladri di bestiame, tomahawk maledetti, pericolosi cacciatori di taglie non ultimo, il terribile Corazon Sutton: il killer dalla fama più sinistra di tutto il West.
Appena uscito in Inghilterra il libro di Julie Myerson ha scatenato polemiche e reazioni presso l'opinione pubblica di tutto il mondo per la radicalità della sua scelta di madre e per aver deciso di raccontarla.
Questa è la storia. Mentre Julie Myerson sta lavorando alla biografia di una giovanissima pittrice ottocentesca morta a 21 anni di tubercolosi, la sua famiglia all'improvviso esplode.
Il figlio diciassettenne smette di andare a scuola, non risponde alle telefonate dei genitori, li minaccia e li deruba. Ben presto si capisce che la causa è un grave problema di dipendenza da cannabis, ma la famiglia non si perde d'animo e fa di tutto per aiutare il ragazzo. Quando però la situazione precipita e si passa alle violenze fisiche, la scrittrice e il marito decidono che per salvaguardare la famiglia e i fratelli più piccoli devono mettere il figlio, ancora minorenne, alla porta.
E alla fine la storia della giovanissima artista e quella del proprio figlio sembrano rispecchiarsi in una stessa terribile domanda: cosa accade quando un figlio scompare dalla nostra vita, che cosa sopravvive di noi e di lui nella nostra memoria?
Chi ha scritto queste pagine, raccontando ciò che ha vissuto, non è un cecchino. Ma ha fatto il cecchino per due anni di servizio militare in un gruppo d'assalto dell'esercito russo durante la Seconda campagna cecena. Non sempre si è ciò che si fa. L'uomo dovrebbe essere più di ciò che fa. Ma ciò che fai può essere così orribile da cambiare ciò che sei: un uomo.
La guerra che in queste pagine vedi - perché l'equipaggiamento simbolico di Lilin è soprattutto visivo, come quello della gran parte di noi - non ha orizzonti, né ideologie, né complesse visioni del mondo. Tutto è ravvicinato come attraverso il cannocchiale di un fucile di precisione. Ma è proprio tale assenza di prospettiva a rendere queste pagine terribili più grandi degli eventi che raccontano. Così, la guerra che vedi non è solo quella cecena, ma è la guerra come la si combatte oggi in ogni parte del mondo. Quella senza politica, senza dichiarazioni ufficiali, senza il teatro dei media. Ma con tutta la tecnologia disponibile. E ogni tecnologia - se togli l'uomo come accade in guerra, se togli non solo la pietà ma anche l'etica - si riduce a strumento bellico.
Il gruppo di sabotatori raccontato da Lilin con un aurorale talento di narratore non si trova su un fronte, ma nel caos dell'azione in prima linea o dietro le linee nemiche. Gli uomini sono per lo più arruolati contro la propria volontà e combattono per la propria sopravvivenza contro il nemico e contro i traffici del proprio Comando. Fra le case, nei cortili, sul fianco di una collina, nelle fogne o all'interno di una moschea.
I nemici sono semplicemente gli «arabi» - come vengono chiamati senza distinzioni e in un assurdo guazzabuglio «ceceni, musulmani, afghani, talebani, terroristi o combattenti di qualunque fede politica» - che bisogna annientare senza pietà ma soprattutto senza esitare, pena la vita. L'unica lealtà possibile è quella primitiva verso il compagno nel gruppo assediato dal mondo di fuori. Si uccide con armi ad alto potenziale o di precisione, ma anche con il pugnale o con una pistola appoggiata alla nuca. E il corpo del nemico fatto a pezzi diventa manichino. Chi lo guarda, per poter sparare meglio si è appena trasformato in una pietra senza respiro e senza vita e ora posa su di esso uno sguardo estetico. E tu capisci che l'uomo non c'è più. Provi orrore quando Lilin non confessa, ma semplicemente dice di aver provato piacere a uccidere, la «gioia» dell'assassino addirittura, ma ti rendi conto di essere di fronte a un frammento di verità.
Ogni guerra, qualsiasi guerra se la vedi senza i filtri dei princìpi o delle ideologie, è come questa. Ed è così per le vittime come per i carnefici. Porta l'uomo oltre l'uomo, sì, al di là del bene e del male. Tutto il resto è letteratura.
Nell'afa della Città eterna, le stanze della Biblioteca Vaticana sembrano coprire delitti ben piú torbidi del furto di un disegno di Michelangelo. La mano ferma e ironica di Fred Vargas tesse qui un giallo raffinato e potente.
Con un vescovo un po' eccentrico sul punto di diventare cardinale, diplomatici, esperti e mercanti d'arte, una bellissima parigina che fa troppi viaggi a Roma, e tre studenti francesi che l'adorano.
E dove il segreto piú oscuro, come sempre, è nascosto nelle profondità del cuore.
Durante una festa notturna a piazza Farnese viene assassinato Henri Valhubert, editore ed esperto d'arte, che si era appena precipitato a Roma per indagare sulla dubbia provenienza di un disegno di Michelangelo apparso sul mercato francese.
A essere sospettato è il figlio Claude, che a Roma studia da anni assieme agli inseparabili Tiberio e Nerone, scanzonati compagni di sbornie e passioni. Ma accade qualcosa che sconcerta ancor di piú il silenzioso e impulsivo Valence e il loquace ispettore Ruggieri, i due detective che si ritrovano, fianco a fianco, a dover risolvere l'enigma.
Mentre l'intrigo coinvolge una bibliotecaria di inossidabile virtú, l'incantevole Laura, affascinante matrigna di Claude,e il vescovo Lorenzo Vitelli, che fra le tante altre cose è anche il protettore designato di Claude, e amico dei tre ragazzi...
«- È uno scarabocchio di Michelangelo, - continuò Valhubert, - un frammento di torso e una coscia, che se ne vanno a spasso in piena Parigi.
- Uno scarabocchio?
- Esattamente. Uno schizzo estemporaneo, e vale milioni perché non proviene da nessuna collezione nota, pubblica o privata. È un inedito, qualcosa che nessuno ha mai visto. Una coscia buttata giú che se ne va a spasso in piena Parigi. Lo comperi e farà un magnifico affare. A meno che, ovviamente, non sia rubato.
- Non si può rubare un Michelangelo, oggigiorno. Non sbucano fuori dalle soffitte.
- E invece sí, alla Vaticana... Gli immensi fondi d'archivio della Biblioteca Vaticana¿ Questo foglio sa di Vaticana».
Massaua, 1896.
Nel catino rovente di una cittá sensuale e cosmopolita tutti i destini si intrecciano. Mentre un detective non autorizzato è ossessionato dalla ricerca di un assassino di bambini, uomini, donne e soldati precipitano, senza saperlo, verso il proprio destino. Verso la piú colossale disfatta che il colonialismo europeo abbia subito. La battaglia di Adua.
Altre edizioni:
L'ottava vibrazione. 2008. Stile libero BIG
Un grande romanzo di guerra e d'amore. E di delitti.
Una storia epica rinasce dall'ombra del passato e irrompe in una luce cupa e visionaria, splendida e dannata. Tutte le voci, i dialetti e le lingue, sono il tessuto di un romanzo corale dove inferno e salvezza abitano insieme. Gli amori i tradimenti i deliri e le perversioni piú folli si intrecciano all'innocenza piú pura, l'arroganza dei potenti vive accanto alla comunità degli umili, la magia e il quotidiano si fondono. Lo scrittore che ha rinnovato il noir italiano porta la propria indagine della «metà oscura» dell'anima in un nuovo, inesplorato terreno.
Dove una pagina oscura della nostra storia diventa leggenda.
«Era la metà di agosto e Myers era sospeso a metà tra una vita e l'altra». Comincia così Legna da ardere, la storia di un uomo che, sobrio da ventotto giorni e in fuga da un matrimonio fallito, decide di andare a vivere in una camera in affitto a casa di due sconosciuti. Myers, si intuisce, è anche uno scrittore, uno di quelli che non riescono più a scrivere. Il nuovo inquilino si aggira per le stanze di Sol e Bonnie, i padroni di casa, silenzioso e tormentato come un fantasma. Fino a che, un giorno, non avviene qualcosa: un gesto minimo e l'improvvisa, dolorosa presa di coscienza di fare finalmente la cosa giusta nel modo giusto. Una conquista. È il racconto che apre il volume, questo, e, fin dalle prime pagine, conferma al lettore di essere a casa.
Se hai bisogno, chiama raccoglie - per la prima volta in Italia e fedele all'edizione originale - tanto i racconti postumi, quelli su cui Carver stava lavorando poco prima di morire, quanto quelli giovanili, pubblicati su piccole riviste all'inizio degli anni Sessanta e a volte addirittura sotto pseudonimo. Si scoprono così due Carver ugualmente inediti e sorprendenti, rinvenendo nel contempo le tracce di quei momenti «sospesi a metà tra una vita e l'altra» che sempre accompagnano la carriera di uno scrittore.
C'è quindi il Carver poco più che ventenne, un autentico «Carver prima di Carver», prima di Vuoi star zitta, per favore? e Principianti, prima di Gordon Lish e Cattedrale: uno scrittore ancora in lotta con i maestri - Joyce, Faulkner e, soprattutto, Hemingway - ombre dalle quali non è ancora riuscito a liberarsi. E poi c'è il Carver maturo, sicuro di sé e dei suoi mezzi espressivi, padrone di una lingua che controlla con la stessa concentrata serenità di un uomo che taglia della legna da ardere come se da quell'unico gesto dipendesse tutta la sua vita.
Eppure, per quanto diseguali negli esiti e lontani nel tempo, tutti questi racconti possiedono una medesima luce: quella in grado di illuminare, per usare le parole di Carver, «ciò che ci rende e ci mantiene, spesso a dispetto di grosse difficoltà, riconoscibilmente umani».