
I saggi raccolti in questo volume delineano il percorso intellettuale attraverso il quale Rosario Villari ha contribuito, con opere fondamentali come La rivolta antispagnola a Napoli e Elogio della dissimulazione, a una nuova ricostruzione della storia d'Italia tra XVI e XVII secolo.
Il filo conduttore è la convinzione che, nel confronto con la maggiore potenza del mondo, il popolo italiano non fu allora passivo, come un diffuso luogo comune sostiene, e che la collaborazione critica e i movimenti di opposizione e di riforma coinvolsero ampi strati della società.
L'influenza dell'opera di Rosario Villari sulla visione generale della storia europea è ampiamente riconosciuta. Lo studioso americano Eric Cochrane ha paragonato il suo racconto di alcuni momenti storici alle più belle pagine di Guicciardini.
«Da più di mezzo secolo – ha scritto John H. Elliott, professore emerito di Storia moderna a Oxford – Rosario Villari è un'importante presenza nel rinnovamento della storia europea della prima età moderna e merita la nostra gratitudine».
«I patrioti italiani, che un paio di secoli fa cominciarono a sognare di trasformare una penisola attraversata da nettissime linee di divisione politiche e culturali in uno Stato unitario, sapevano che si sarebbe trattato di un compito enormemente difficile. Che si riuscisse a realizzare questo Stato nel 1861, appena quattordici anni dopo che il principe di Metternich aveva sprezzantemente parlato dell'Italia come di una mera 'espressione geografica', apparve agli occhi di molti contemporanei poco meno di un miracolo.»
Da quando è nata tra alti clamori – mandando all'aria l'equilibrio geopolitico europeo – la più giovane delle grandi nazioni occidentali è una fucina di ambizioni e frustrazioni, slanci e sconfitte, un amalgama esplosivo che la rende, ancora oggi, un autentico vaso di Pandora.
Christopher Duggan segue la lunga scia tracciata dall'idea di 'nazione' dall'Unità di Mazzini, Garibaldi e Cavour fino al principio del nuovo millennio e rintraccia quel filo rosso del destino italico che ha spinto verso l'unificazione un paese segnato da contraddizioni apparentemente insormontabili.
La lettura di queste pagine, dense e scorrevolissime, è illuminante per la sagacia con la quale l'autore sa individuare e isolare alcune insistenti linee di tendenza che, dai primi moti risorgimentali, arrivano fino ai giorni nostri.
Corrado Augias, "il Venerdì di Repubblica"
Un bel libro da cui esce il profilo storico di un'Italia con un senso precario della nazione e dello Stato.
Guido Gentili, "Il Sole 24 Ore"
La storia firmata da Christopher Duggan dà sicuramente da pensare e da penare. Un libro di fascinosa leggibilità, che diventa racconto dell'idea di Italia.
Alessio Altichieri, "Corriere della Sera"
Christopher Duggan ha uno stile brillante e colto e l'occhio dell'osservatore esterno, non velato dalla diatriba ideologica che da sempre condiziona ogni sforzo di elaborare una narrazione unitaria del paese più diviso d'Europa.
Mauro Calise, "Il Mattino"
Un saggio brillante, che spiega sia il successo ottenuto dal movimento nazionale nel costruire l'Italia, sia la lunga serie di smacchi politici che è seguita.
David Gilmour, "The Spectator"
Un'indagine esaustiva che abbraccia due secoli di storia italiana. Un vero piacere per la lettura.
"The Daily Telegraph"
La nazione non è un dato di natura. Non emerge dalle più lontane profondità dei secoli. Né accompagna da sempre la storia d'Italia, dal Medioevo a oggi. È necessario un discorso straordinariamente seducente per dare corpo alla nazione. Per questo «le narrative nazionali sanno emozionare. Sanno comunicare. Sanno toccare il cuore di un numero crescente di persone. Sanno trasformare l'originario assunto discorsivo (l'esistenza di una nazione) da remota astrazione in qualcosa che sembra avere lo spessore di un'effettiva realtà. Il discorso nazionale si impone in forza di un suo eccezionale potere comunicativo». Sono tre le 'figure profonde' che hanno attratto e sedotto le donne e gli uomini che fecero l'Italia e hanno accompagnato il discorso nazionale dal Risorgimento al fascismo: la nazione come parentela/famiglia; la nazione come comunità sacrificale; la nazione come comunità sessuata, funzionalmente distinta in due generi diversi per ruoli, profili e rapporto gerarchico. Sono questi i pilastri simbolici che il Risorgimento lascia in eredità all'epoca liberale e fascista.
Cambieranno i contesti e le forme di governo, ma la struttura del discorso nazionale resterà identica, nonostante diversi siano gli obiettivi politici che su di essa si fondano.
1° ottobre 1943, l'esercito anglo-americano entra a Napoli. Inizia una lunga convivenza con i militari stranieri che si rivela difficile e controversa. Soprattutto per le donne. Considerate, di volta in volta, traditrici o eroine, oggetti di violenze o degne di sostegno, indotte alla prostituzione o salvate da felici matrimoni. La vicinanza «con lo straniero, con il 'diverso', creò un clima particolarmente favorevole alla 'promiscuità', all'innamoramento che coinvolse le donne di tutti gli strati sociali. Mentre molti uomini erano stati catapultati dalla guerra oltre i confini delle proprie città, dei propri Paesi, sperimentando abitudini, costumi, fisionomie differenti, la diversità s'impose alle donne nelle proprie case, nei contesti di sempre, seppur profondamente stravolti dalla guerra».
Maria Porzio interpreta le relazioni tra 'occupanti' e 'occupati' e rilegge quegli anni nelle città centro-meridionali attraverso i rapporti tra donne e uomini.
Negli anni compresi fra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale, dominati dalla personalità politica di Giovanni Giolitti, l'Italia acquistò i caratteri essenziali di una nazione moderna. Un progresso accompagnato da ostacoli, carenze e insidie, che esplosero dopo la prima guerra mondiale e prepararono le condizioni per la nascita e il successo del fascismo. Il giolittismo favorì la modernizzazione e la democratizzazione del paese ma lasciò anche molti problemi irrisolti e si esaurì alla vigilia della Grande Guerra senza aver conseguito il suo scopo più ambizioso: conciliare le masse con lo Stato liberale.
Emilio Gentile delinea in questo volume, divenuto un classico e aggiornato con nuovi riferimenti bibliografici, un quadro sintetico di quel complesso e ambivalente periodo storico e, con un'interpretazione originale, fornisce al lettore una guida chiara ed equilibrata alla comprensione delle origini dell'Italia contemporanea.
Il colonialismo italiano in Somalia terminò nel febbraio 1941. Nove anni dopo la nuova Italia democratica ritornò nella più periferica delle ex colonie a guidare l'Amministrazione fiduciaria italiana per conto dell'Onu. Sullo sfondo della contesa tra l'Italia e l'Egitto di Nasser per l'influenza in Somalia, l'esperimento di un colonialismo democratico fu inteso dall'ex potenza coloniale come una prova di recupero per il passato. La formazione di una classe dirigente italofona, il trapianto di istituzioni moderne ritagliate sull'esempio italiano e un collegamento stretto della fragile economia somala agli aiuti finanziari e tecnici provenienti da Roma sembrarono poter garantire alla nuova Italia una posizione di rilievo nella neonata Repubblica di Somalia.
La ricerca inedita di Antonio M. Morone, che unisce letteratura e documenti d'archivio in lingua italiana, inglese e araba, dimostra invece come le aspirazioni italiane si rivelarono incapaci di elaborare soluzioni politiche e istituzionali durevoli per il futuro Stato somalo.
"Triste missione per noi venuti a combattere per la libertà!". Parla Nino Bixio, il più intransigente comandante di Garibaldi. Ha appena assistito all'esecuzione dei cinque uomini considerati colpevoli dell'efferata rivolta di Bronte: nei primi giorni dell'agosto 1860, migliaia di contadini, bande di uomini e di donne, avevano saccheggiato, distrutto, rubato. In mezzo al fumo degli incendi, i proprietari terrieri e i loro funzionari trascinati fuori dalle loro case, torturati, uccisi, gettati nel fuoco. Bixio proclama lo stato d'assedio e ordina un generale disarmo. Il suo compito è di fare in modo che i processi a carico degli insorti comincino velocemente, ricorrendo ai decreti che consentivano ai tribunali militari di applicare procedure sommarie per reati contro l'ordine pubblico. Alla rivolta feroce si risponde con una repressione brutale. Ma Garibaldi non era un liberatore? Allora, perché i plotoni di esecuzione? Perché sono proprio i garibaldini a opporsi alle speranze contadine di ottenere terra e migliore qualità di vita? La rivolta di Bronte dura non più di sei giorni ma la sua fama è sopravvissuta a lungo. Le è stato attribuito un grande valore simbolico. Eppure ancora non la si conosce veramente. "Se consideriamo quanto profondamente Bronte sia collegata ai miti e ai contromiti di Giuseppe Garibaldi e dell'ammiraglio Nelson, al Risorgimento italiano, alla questione meridionale e all'Impero britannico, stupisce che la sua storia non sia stata oggetto di analisi più approfondite."
Pubblicato una prima volta nel 1955 in occasione del decennale della Liberazione, "Uomini e città del Resistenza" è il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Questa edizione riproduce l'originale anche nell'immagine di copertina. La disegnò Carlo Levi per l'occasione, in ricordo di un episodio che più di qualunque altro sembrava evocare lo spirito della Resistenza. Un attimo prima di soccombere ai nazisti nel rogo di Sant'Anna di Stazzema, una giovane donna, Genny Marsili, aveva scagliato contro gli aguzzini uno zoccolo: il simbolo, insieme, della sua fierezza e della loro abiezione. Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi.
Gilda Zazzara ricostruisce il profilo di una leva di studiosi di storia che, nel secondo dopoguerra, ha introdotto in ambito universitario nuovi settori di ricerca di argomento otto-novecentesco, in particolare la storia del movimento operaio e della Resistenza. Lavorando tra università, mercato culturale e centri di ricerca 'militanti' (sostenuti da partiti e circuiti politici socialisti, comunisti e azionisti) questa generazione di storici è stata mossa da una parte dallo sforzo di legittimare la storia contemporanea come disciplina scientifica a pieno titolo e dall'altra dalla convinzione che la conoscenza del passato prossimo fosse un elemento imprescindibile della rialfabetizzazione democratica degli italiani. Il libro presenta gli storici di quella generazione - giovani intellettuali cresciuti sotto il Regime, spesso allievi prediletti dei più prestigiosi accademici degli anni Trenta per poi passare a esaminare alcuni centri di ricerca (Biblioteca Feltrinelli e Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione di Milano; Fondazione Granisci di Roma) dove era possibile avere un costante confronto con dirigenti politici e testimoni degli eventi recenti e soprattutto era possibile accedere alle prime raccolte documentarie. Dopo l'analisi di decenni importanti per la ricerca e il consolidamento istituzionale e di rinnovamento metodologico della disciplina, si arriva agli anni Settanta quando gli intellettuali italiani devono confrontarsi con la contestazione giovanile.
Divenuto strumento centrale, sebbene non unico, della repressione politica nell'Italia fascista, il confino di polizia, basato sulla pratica del detenere senza imputare, contribuì considerevolmente a distruggere le basi dello Stato di diritto nel nostro paese. Per la sua procedura, più veloce e agile rispetto a quella di un processo penale ordinario, questa misura fu facilmente applicabile: per essere assegnati al confino era sufficiente un mero sospetto di pericolosità. Camilla Poesio esamina, oltre agli aspetti tecnici della misura punitiva, anche il rapporto pubblico/privato individuato nello studio di documenti ufficiali e di testimonianze, diari e memorie. La vita di coloro che conobbero quest'esperienza fu infatti segnata dalle dure condizioni alimentari, abitative, sanitarie, dalle violenze fisiche e psicologiche commesse dalle guardie e dalla sostanziale indifferenza della popolazione locale. Essere diventati cittadini senza diritti, non potere disporre di alcuna garanzia, non potere rispondere e controbattere alle accuse era l'aspetto più duro da sostenere per i confinati. L'analisi dell'intreccio fra sfera individuale e contesto generale restituisce uno spaccato chiaro della repressione fascista e demolisce il persistente giudizio sul confino come uno strumento blando e con poche conseguenze sulla vita dei detenuti.
"La guerra, pur essendo matrice riconosciuta del peggior male possibile, è tuttavia stata ed è tuttora il motore o volano di ricerche, sperimentazioni, applicazioni e pratiche medico-sanitarie che, trasferite dal campo militare a quello civile, hanno avuto ricadute vantaggiose anche in quest'ultimo campo, contribuendo spesso in modo determinante allo sviluppo e al progresso della medicina e della sanità": è la tesi di Giorgio Cosmacini, argomentata alla luce di un excursus storico-filosofico dagli antichi greci ai giorni nostri. Dal mondo romano, che ha creato un abbozzo di organizzazione medica con una specie di infermeria creata prima per l'assistenza ai legionari feriti e poi adibita alla cura dei traumi del lavoro agricolo ed edile, al Medioevo e Rinascimento in cui i chirurghi di guerra hanno fatto conquiste poi largamente utilizzate in tempi di pace; dall'invenzione del 'pronto soccorso' da parte della sanità militare napoleonica alla fondazione dell'attività professionale infermieristica durante la guerra di Crimea; dall'idea di Croce Rossa Internazionale concepita all'indomani della battaglia di Solferino all'estensione dell'antisepsi, nella prima guerra mondiale: il rapporto tra guerra e medicina è un rapporto bi-direzionale, a sfavore e a favore. Per un verso la guerra è l'infausta matrice di traumi e malattie che richiedono una vastità d'interventi riparatori, esigenti a loro volta un'altrettanto vasta organizzazione sanitaria.
Nel 700 d.C. l'Italia è divisa in due regni, quello longobardo e quello bizantino. Dopo decenni di lotta, nel 680, regna un accordo di pace. Tra le due aree, quella sottoposta a maggiori tensioni è quella bizantina a sud dove le élites italiche si sono più volte poste in posizione di fronda rispetto al centro imperiale. Al nord, invece, il regno longobardo è al suo apice, la società è saldamente inquadrata dalle gerarchie laiche, guidate da duchi e ufficiali pubblici, e ha le potenzialità per governare tutta la penisola. Non sarà così e la sua sconfitta cancellerà anche la sua lunga storia. Stefano Gasparri recupera la memoria dei Longobardi in Italia e presenta la loro società senza trascurare neppure i contatti e i rapporti avuti con la stessa Chiesa romana. Sarà, infatti, quest'ultima ad avere la meglio, fra Longobardi e bizantini, e sarà proprio il papato con la sua azione a impedire il passaggio dell'intera Italia nelle mani dei re "barbari". Con tre conseguenze importanti: la conquista franca dell'Italia, la creazione del primo impero medievale e l'impianto di una dominazione territoriale da parte della Chiesa di Roma. Per arrivare a questo, come indaga Gasparri, è stata fondamentale la forte operazione di propaganda intorno ai due grandi progetti, franco e papale. Il loro proselitismo ha dominato la scena dell'occidente europeo nella seconda metà dell'VIII secolo e costruito un pregiudizio negativo nei confronti dei Longobardi dal quale val la pena liberarsi.