
In Italia i grandi movimenti di popolazione avvenuti all'interno dei confini rivestono un'eccezionale importanza per capire il nostro Paese: si pensi solo alla grande migrazione interna degli anni del boom economico del secondo dopoguerra. Stefano Gallo ricostruisce la storia delle migrazioni avvenute in Italia, entrando nel merito di ognuna. Il racconto prende in considerazione i mutamenti economici tra aree forti e aree deboli, così come l'analisi istituzionale dei soggetti e delle norme che hanno riguardato la mobilità. Emergono alcuni fili che si dipanano da questioni classiche della storiografia italiana, come il rapporto tra popolazione rurale e popolazione urbana, i caratteri dell'industrializzazione, la questione settentrionale o quella agraria, ecc. Ma si aprono anche settori nuovi o poco esplorati: l'intervento dei comuni nel limitare l'accesso alla residenza legale per mantenere un controllo sull'erogazione dei servizi assistenziali; i progetti statali per trasferire le famiglie rurali nelle colonie; gli interventi assistenziali diretti alla mobilità rurale stagionale, introdotti in periodo fascista e proseguiti sotto i governi democristiani. Sullo sfondo, una riflessione sui rapporti tra amministrazione, politica e mobilità territoriale, cercando di individuare nelle specificità di determinate epoche e nei meccanismi di fondo gli elementi in comune con i flussi migratori odierni.
Per la sua posizione nel Mediterraneo, l'Italia non è soltanto un passaggio obbligato per gli scambi nord-sud ed est-ovest ma è da sempre un importante crocevia migratorio. I processi di emigrazione e immigrazione sono una costante della vicenda peninsulare, in gran parte a causa della configurazione delle frontiere naturali e della posizione strategica nel contesto geografico europeo. La stessa mobilità interna, troppo spesso ridotta a fenomeno relativo ai soli anni 1950-1980, costituisce un fattore centrale della storia rurale e urbana del paese anche dei secoli precedenti. Lo scopo del volume è mettere a fuoco la continuità e la lunga durata, nonché la convivenza, delle molteplici mobilità che hanno interessato l'Italia. Esistono, infatti, diversi studi e sintesi d'insieme dedicati soprattutto alla grande emigrazione otto-novecentesca e vanno crescendo le analisi sulle immigrazioni attuali, ma sono poche le ricostruzioni del movimenti interni in connessione anche agli arrivi esterni. Paola Corti e Matteo Sanfilippo, alla luce del confronto con gli studi internazionali e con i nuovi paradigmi storico-sociologici sempre più attenti a comprendere i meccanismi e i processi sul quali si costruiscono i movimenti migratori, propongono una analisi del caso italiano che tiene conto delle numerose e recenti indagini settoriali e ne elabora i risultati in modo da ricomporre il complesso quadro della plurimillenaria mobilità in Italia
Quando culture differenti entrano in contatto, l'impatto sul corso della storia può essere sconvolgente e drammatico. Questo volume fa rivivere gli episodi chiave dei contatti culturali nella storia del mondo, dagli albori della civiltà ai tempi odierni. Vengono considerate la divulgazione di religioni come il Buddismo e l'Islam, le migrazioni degli ebrei e degli africani, l'impatto del colonialismo in India e in Africa e la recente diffusione della cultura del "consumismo". Per ognuno di questi esempi, originali cartine delimitano le diverse aree geografiche, rendendo ancora più forte l'impatto col fenomeno dell'interculturalità.
Una "lunga" storia contemporanea che copre un arco di oltre duecento anni, introdotta da un ampio capitolo metodologico che spiega questa periodizzazione alla luce del dibattito storiografico più recente. Il volume parte dalla doppia rivoluzione (francese e industriale) e si conculde con lo scoppio della prima guerra mondiale, secondo cinque grandi sezioni: Inghilterra e Francia: la "duplice rivoluzione", restaurazioni e rivoluzioni, l'età della borghesia, grandi potenze e spartizioni del mondo, la fine della "belle époque".
Tra settembre del 1943 e la primavera del 1945, nei territori della Venezia Giulia occupati dal Movimento Popolare di Liberazione Jugoslavo del maresciallo Tito, migliaia di uomini e donne scomparvero nelle foibe, le cavità naturali che si aprono nel Carso. "Infoibati": in questo termine sono racchiusi la memoria degli scomparsi e l'orrore di una tragedia della quale, a distanza di decenni, è ancora impossibile tracciare un bilancio definitivo, anche se furono più di 5.000 le persone deportate che non fecero ritorno. Con documenti di fonte jugoslava, inglese e italiana, con fotografie e testimonianze dirette di parenti e sopravvissuti, vengono ricomposti i tasselli di questa tragedia nazionale che per decenni è stata dimenticata e rimossa. Il contesto storico, i rapporti tra comunisti italiani e slavi, le uccisioni e gli infoibamenti dal 1943 in poi, i ritrovamenti del periodo bellico e del dopoguerra, i silenzi di Stato: un lavoro di ricerca senza precedenti che ricostruisce una pagina oscura della nostra storia e che, senza pregiudizi ideologici, ridà voce alle vittime delle foibe.
Una testimonianza lunga oltre vent'anni, che attraversa uno dei periodi storici più drammatici del nostro Paese. Enrico Caviglia è un osservatore lucido, attento e un narratore arguto, spesso spassoso, con un gusto che oggi si direbbe del "gossip". Sono resoconti autorevoli che ricostruiscono una grande pagina di Storia, popolata da personaggi ed eventi che segneranno un'epoca: Mussolini e Hitler, gli attacchi a Badoglio, i giudizi su Vittorio Emanuele III e Casa Savoia. E poi le leggi razziali, l'entrata in guerra e i suoi tentativi per convincere Mussolini a restare neutrale. Infine la caduta del fascismo e la sua mancata nomina alla guida del governo. Il re gli preferì Badoglio ma dopo la fuga del sovrano e del Primo ministro, solo Caviglia restò a Roma per cercare di arginare il caos.
Nel secondo dopoguerra si è diffusa e radicata la "leggenda nera", che vede la Chiesa cattolica in primo piano nel sistema di copertura e protezione dei criminali di guerra nazisti in fuga. Nessuno è stato risparmiato: né Papa Pio XII, né i suoi più diretti collaboratori, né gli organismi umanitari, né le diocesi, né le associazioni ecclesiali. Tuttavia, l'apertura di nuovi archivi tedeschi, croati, italiani, argentini, statunitensi ha permesso l'avvio di altre ricerche più approfondite sul fenomeno. È in questo contesto che si colloca l'opera di Pier Luigi Guiducci. Grazie a un lavoro decennale, l'autore è riuscito a differenziare in modo molto chiaro le varie realtà presenti all'interno dell'enorme flusso migratorio dell'epoca, a fare il punto sulle specifiche responsabilità (area pubblica, privata, religiosa, iniziative a titolo personale), a cancellare ogni dato romanzato, a far emergere l'influenza avuta da determinate cabine di regia, sia quelle note e mai evidenziate sia quelle rimaste in ombra per decenni. È riuscito, poi, a far luce su un disegno umanitario della Chiesa che, mentre erano in corso gli accertamenti di responsabilità per crimini di guerra, ha cercato di evitare il prolungarsi di fatti di sangue, ma soprattutto di tutelare le migliaia di persone innocenti colpite dal conflitto e dalle sue conseguenze.
Dalle notti madrilene squarciate dalle bombe della Guerra civile spagnola, nel 1936, alle guerre in America Latina degli anni novanta, percorrendo le paludi del Vietnam e battendo i deserti del Medio Oriente, "I volti della guerra" narra le storie - di ferocia, amore e sofferenza - dei despoti e delle vittime dei conflitti del secolo scorso. Martha Gellhorn - antesignana delle corrispondenti di guerra, tra i primi a testimoniare l'orrore del campo di concentramento di Dachau - ha raccontato, con i suoi reportage, i fronti più caldi del XX secolo. Una scrittura immediata e realistica - sensibile ai suoni, agli odori, alle parole, ai gesti dei luoghi visitati - e un'infallibile capacità di cogliere e custodire l'estrema varietà di esperienze vissute hanno dato forma alla "visione umana del mondo" della grande reporter. Questo libro è ormai un classico del giornalismo moderno. Martha Gellhorn l'ha scritto non perché fosse interessata ai generali e ai politici, ma perché coltivava un forte impegno nei confronti della gente normale che dalle guerre viene schiacciata.
Nel secentenario della morte di Giotto, dal 27 aprile 1937 gli Uffizi ospitarono la Mostra giottesca, la prima retrospettiva dedicata alla pittura italiana delle origini. L’esposizione, in cui erano presentate oltre trecento opere del maestro toscano, dei pre cursori e dei seguaci, sancì il ruolo di Giotto come pater dell’«arte nostra». L’evento fu anche terreno di confronto, e scontro, tra il rigore scientifico dell’intelligencija critica dell’epoca – da Ojetti a Carena, da Offner a Salmi, da Michelucci a Longhi – che si interrogava sul valore della pittura giottesca e l’intento propagandistico dei gerarchi fascisti di nazionalizzare lo spirito della mostra. Testimonianze, lettere e cronache, insieme alle immagini delle opere e le preziose foto d’epoca, ci raccontano la genesi del progetto, le ingerenze governative, le fasi dell’allestimento e l’intenso dibattito critico che ne seguì.
A distanza di settant’anni, Alessio Monciatti sottrae la Giottesca alla dimensione acritica cui era stata relegata e rivendica il ruolo decisivo da essa ricoperto nella storia della critica d’arte, e nel contempo nella storia culturale, sociale e degli allestimenti museali.
La notte fra il 4 e il 5 giugno del 1968 il senatore dello stato di New York Robert F. Kennedy fu colpito a morte nel corridoio delle cucine dell'Hotel Ambassador a Los Angeles. Aveva appena concluso il discorso di ringraziamento per la vittoria delle primarie in California. Era a pochi passi dall'elezione alla presidenza degli Stati Uniti. La parola chiave della sua campagna era stata Hope, speranza. Per curare le ferite di un'America afflitta da tre anni di guerra in Vietnam, da discriminazioni e scontri razziali, da una povertà estrema tenuta nascosta. Speranza in una nuova guida morale per tutto il pianeta. Attorno a Bob Kennedy si erano strette le minoranze etniche e le categorie sociali più povere: chicanos, nativi americani, coltivatori del delta del Mississippi... Per gli afroamericani era la promessa del riscatto. Che cosa aveva fatto Kennedy negli 82 giorni della sua campagna elettorale? Chi era l'uomo a cui l'America guardava con speranza? Che cosa univa quella catena di persone in lutto che, per più di quattrocento chilometri, accompagnò il treno che trasportava la sua salma? Nel rispondere a queste domande, Thurston Clarke ricostruisce le primarie americane del '68, intervista amici, collaboratori, testimoni. Restituisce la figura di un uomo che in quei giorni diede il meglio di sé, che fu riconosciuto dagli elettori come un politico buono e onesto. L'epigono che in sé racchiudeva i destini del fratello John e di Martin Luther King.
La vita di Massimo Mila bruciò di passiono, non solo per la musica, ma anche per l'impegno civile e politico. E per la scrittura, che ripercorre tappe della storia personale e della storia dell'Italia del Novecento. Quella di Mila è una narrazione in prima persona mediata dal ricordo dei maestri, degli amici, dei compagni di strada: Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Augusto Monti, Leone Ginzburg... Gli anni liceali a Torino, la facoltà di Lettere, la clandestinità, il carcere, il confino, la lotta partigiana - "un'esperienza pittoresca e messicana" - sono raccontati in pagine in cui il valore letterario non è minore di quello civile. Sono esperienze che rilette insieme, articolo dopo articolo, quasi si riaccendono, prendono fuoco le une dalle altre, simili ai paesi del fondovalle alpino il giorno del 25 aprile 1945 che bruciavano, scrive Mila, "come tanti fiammiferi ravvicinati". Poi, nel dopoguerra, gli interventi polemici contro l'invadenza clericale, il rifiuto del totalitarismo sovietico e la critica concorde-discorde al Partito comunista italiano. Fino alla polemica esplicita e radicale con Togliatti su Zdanov e sul realismo socialista. Tutta l'opera di Massimo Mila è sotto il segno della libertà, solo così si spiega l'"allegria carceraria" sua e dei suoi compagni. "Avevamo" scrive Mila "l'intima certezza di essere i soli uomini liberi in Italia".
Agli albori del 1915 l'Italia è una nazione ancora da forgiare. Il popolo è diviso da irriducibili differenze: non c'è una lingua, non c'è un sentimento comune. Gli italiani devono temprarsi in una solida unità nazionale. La soluzione è la guerra, la fucina il campo di battaglia. Più alto sarà il sacrificio, più nobili saranno i risultati. A pagarne il prezzo saranno i giovani costretti in un fronte che corre per seicento chilometri, dalle Dolomiti all'Adriatico. Combatteranno in un biancore di pietre e di neve che dura tutto l'anno, saranno uniti nella paura e nell'angoscia, uccideranno. Intorno a loro l'assordante fuoco di sbarramento, l'insostenibile tensione prima dell'"ora zero", l'inferno della terra di nessuno. Luigi Cadorna avrà in pugno le vite dei suoi soldati. Nel 1919 chi alla patria aveva dato tutto si lascia conquistare dalla "trincerocrazia" di Mussolini e dall'idea che la Grande guerra costituisca il fondamento della nazione. Si prepara così la scena per l'avvento del fascismo. Valorizzando fonti come i diari dell'epoca e le interviste ai veterani, lo storico inglese Mark Thompson con "La guerra bianca" restituisce il pathos degli assalti alle trincee, ripercorre con sobrietà e precisione l'epica del fronte italiano, mette a nudo la foga nazionalistica e gli intrighi politici che hanno preceduto il conflitto. Tra le pagine del libro, le esperienze di guerra di una grande generazione di scrittori schierati su fronti opposti: Ungaretti, Hemingway, Kipling e Gadda.