
Da sempre l’umanità ha desiderato la pace, da sempre l’ha considerata lo stato ideale cui aspirare: filosofi e poeti ne hanno cantato le lodi, sovrani e imperatori si sono vantati di aver trasformato le proprie terre in regni prosperi e pacifici. Eppure, se osserviamo la nostra storia, la realtà è stata assai diversa: la violenza ci ha accompagnati fin dal sorgere delle prime civiltà e tutti gli imperi del passato, da Roma alla Cina, hanno combattuto per gran parte della loro esistenza. Nel corso dei secoli ogni società umana, dal più piccolo villaggio al più grande stato nazionale, ha dovuto decidere come considerare i propri vicini: se alleati, potenziali nemici o avversari dichiarati.
Jonathan Holslag ripercorre in un unico, monumentale volume tre millenni di storia, dall’Età del Ferro ai nostri giorni, narrando la nascita delle prime città stato, la trasformazione di piccole entità politiche in grandi potenze, l’ascesa e la caduta degli imperi dal Mediterraneo al Medio Oriente, dal subcontinente indiano all’Asia orientale. Con il respiro delle grandi narrazioni epiche, Holslag rivela la complessa rete di elementi che da sempre hanno influenzato le relazioni internazionali: la posizione geografica, le tratte commerciali, il controllo amministrativo e militare dei territori, la propaganda e l’uso politico della religione, oltre alle arti della diplomazia e della guerra, delle tregue e dei tradimenti.
Storia politica del mondo non è solo l’affascinante racconto della lunga strada che ha condotto l’umanità fino al presente: è il testo essenziale per chiunque voglia capire a fondo l’origine dei conflitti tra i popoli che tuttora insanguinano la nostra convivenza sul pianeta. Un’opera che rivoluziona la nostra prospettiva sul passato e sul presente; una storia che nessuno oggi dovrebbe ignorare
Jonathan Holslag è professore di Politica internazionale all’Université libre di Bruxelles e al Nato Defense College di Roma. Tra le sue opere ricordiamo Trapped Giant: China’s Military Rise (2011) e The Silk Road Trap: How China’s Trade Ambitions Challenge Europe (2019).
"Non le darò istruzioni né le farò raccomandazioni... Dovrà soltanto riferire obiettivamente quello che ha visto, raccontare quello che ha vissuto in prima persona e ripetere ciò che in Polonia le è stato ordinato di dire su coloro che vivono là e negli altri paesi occupati d'Europa": con questo viatico il premier Sikorski mandò Jan Karski a informare gli Alleati di ciò che stava accadendo agli ebrei nel suo paese e di come i polacchi non avessero mai smesso di lottare. Unitosi alla Resistenza nel 1939, il giovane ufficiale della riserva era stato incaricato di tenere i collegamenti fra lo Stato segreto polacco, e gli organi ufficiali del governo in esilio a Londra. Oltre a svolgere temerarie, Karski aveva compiuto un'impresa inaudita: era riuscito a infiltrarsi nel ghetto di Varsavia e nel campo di transito di Belzec e, fatto ancora più inaudito, a uscirne indenne, deciso a denunciare al mondo le atrocità commesse dai nazisti. Porterà in effetti la sua testimonianza diretta ai grandi della terra, incluso il presidente Roosevelt, ma per motivi politico-strategici il suo appello non verrà raccolto né avrà seguito: non gli resterà, nel 1944, che affidarlo a questo libro. Dimenticato nel dopoguerra in ragione dei nuovi assetti politici mondiali, Karski sarà riscoperto e intervistato dal regista Claude Lanzmann per il celeberrimo "Shoah" (1985), che darà l'avvio alla seconda fase della sua missione: ricordare l'indifferenza degli Alleati di fronte al consumarsi del genocidio.
"Sono cose che ancora non si possono dire". Questa affermazione di Cesare Luporini, una delle teste pensanti del PCI nel secondo dopoguerra, risale a un'intervista radiofonica sull'"affaire Gentile" rilasciata nel 1989, a quasi cinquant'anni di distanza dai fatti. Bene, chi vive in Italia è abituato a delitti politici preparati, eseguiti e poi coperti in un'atmosfera acquitrinosa, dove nessuno per certo è innocente, ma un colpevole sicuro non esiste. Eppure, l'assassinio di Giovanni Gentile in quel freddo aprile del 1944 rimane un cold case diverso da tutti gli altri - che l'indagine di Luciano Mecacci, condotta anche su documenti inediti, riapre in modo clamoroso. Tutto, in questa ricostruzione, è perturbante. I moventi, molto meno limpidi - o molto più umani - di quanto fin qui si è tentato di far credere. La scena del delitto, cioè la Firenze cupa e claustrofobica occupata dai tedeschi. E naturalmente gli attori. Qualcuno ha discusso, deciso, agito: ma come, fino a che punto, perché? Le figure che appaiono sul palcoscenico sono numerose, e molto diverse fra loro. Oscuri gappisti. Feroci poliziotti. Informatori. Doppiogiochisti. E al centro di tutto, il meglio dell'intellighenzia italiana di allora: Luporini, certo, ma anche Eugenio Garin, Antonio Banfi, Mario Manlio Rossi, Guido Calogero, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Concetto Marchesi.
Grazie alla scoperta delle rovine di Ninive e Ur, nel XIX secolo, e alla nascita dell'assiriologia, la nostra capacità di comprendere la civiltà mesopotamica è radicalmente mutata: se le fonti greche ed ebraiche si limitavano a tramandare una costellazione di personaggi leggendari quali Semiramide, Sardanapalo, Nino e Nabucodonosor descritti come tiranni feroci, conquistatori spietati e inclini all'eccesso , appare ora evidente che la cultura mesopotamica è stata davvero, nelle parole di Stephanie Dalley, la culla "della nostra civiltà urbana fondata sulla scrittura". Intervenendo in un dibattito ancora aperto, la Dalley analizza scrupolosamente gli innumerevoli lasciti architettonici, linguistici, religiosi e culturali assiro-babilonesi, e ci rivela il fondamentale impatto della civiltà mesopotamica sul mondo antico (mediterraneo e orientale) sino alla diffusione dell'Islam. Basti pensare alle analogie tra testi mesopotamici e brani biblici, spiegabili, secondo la Dalley, sulla scorta delle scuole scribali: "Quando gli ebrei crearono quel prodotto unico e irripetibile della loro cultura che è la Bibbia, nonché le loro caratteristiche istituzioni, essi si basarono sulle venerande tradizioni esportate dai loro vicini d'Oriente, più antichi, più ricchi e più potenti". Con un saggio di David Pingree.
Gli “Assassini” sono noti come una cerchia di fanatici sicari musulmani, responsabili di un numero enorme di delitti efferati e di azioni suicide, che compivano nella convinzione di guadagnarsi così il paradiso – questo almeno era quanto credevano dopo essersi storditi con l’hashish (donde il loro nome arabo Hayiyiyyun, “assassini”). Sin qui la leggenda. Ma la vera storia dei Nizariti (questo il nome della setta) è ben più affascinante. Nati nel 1094 da uno scisma interno all’Ismailismo, a sua volta un ramo dello Sciismo, i Nizariti conquistarono in breve tempo una serie di fortezze tra la Siria, l’Iraq e l’Iran e vi si asserragliarono. Da lì lanciarono una sfida all’intero mondo islamico, che li considerava temibili eretici, e per quasi due secoli seppero tenergli testa sia militarmente sia culturalmente, elaborando una versione dell’assetto sociale, politico e religioso dell’Islam radicalmente alternativa a quella sunnita che si andava allora affermando. E il coronamento di questa visione fu, nel 1164, la proclamazione della Qiyama o “Risurrezione”, cioè l’abrogazione dei vincoli della sari‘a, la legge religiosa, e l’istituzione del Paradiso in terra con la rinascita dei fedeli nizariti a una vita spirituale immortale. In questo libro, divenuto subito un classico, Hodgson non solo traccia per la prima volta la complessa storia dei Nazariti, ma ne ricostruisce la raffinata e stupefacente dottrina, a partire dai testi sacri della setta e dai dotti scritti dei loro strenui oppositori.
Se si eccettuano i repertori e le ricostruzioni a carattere generale, la storia del giornalismo e dell'attività pubblicistica a Roma in età moderna e contemporanea presenta vuoti e lacune che non possono essere spiegati solo con la chiusura o l'arretratezza dell'ambiente. Certo, le condizioni in cui il giornalismo romano opera prima e dopo la caduta del potere temporale non sono delle più favorevoli ai processi di innovazione e alla circolazione delle idee; tuttavia ciò non impedisce che nella città, grazie all'apporto di eruditi, di intellettuali e, più tardi, di militanti politici della più varia origine e provenienza, si sviluppi una rigogliosa attività pubblicistica e prenda corpo una tradizione che giunge sino alle soglie del Novecento.
Nel corso del Diciannovesimo secolo, mentre l’Europa è incendiata dai moti rivoluzionari, Londra offre rifugio a gruppi di esuli provenienti da ogni focolaio di lotta contro la Restaurazione. Patrioti, avventurieri e massoni, propugnatori dell’indipendenza nazionale o di una società utopistica, sono accolti nel grembo di una città che offre libertà e anonimato, ma produce anche isolamento, povertà e spleen. Lungo le sponde del Tamigi, tra taverne fumose e alberghi, salotti aristocratici e quartieri popolari, si dipanano le esistenze in fuga dei protagonisti del Risorgimento italiano e dei costruttori immaginari paradisi socialisti. In particolare è su Giuseppe Mazzini, sconfitto dal mondo eppure mai domato nell’animo, che si appunta lo sguardo del narratore. Con minuziosa ricostruzione storica, Enrico Verdecchia scandaglia una messe di documenti editi e inediti, restituendone gli slanci ideali, i palpiti per una nazione unita e indipendente, ma anche il tormento interiore per un grande amore romantico e per un figlio segreto, morto prematuramente. Sono numerosi però i “cospiratori” che sono protagonisti di queste pagine. C’è Garibaldi che, unificata l’Italia, fa il suo ingresso trionfale a Londra, acclamato dalla folla. Ci sono Marx ed Engels, alle prese con la neonata Internazionale, con problemi filosofici e pratici e piccole miserie domestiche. C’è Bakunin, il gigante sognatore estremo in tutto, nella fame di vita come nella rivolta contro le ingiustizie del mondo. E poi Foscolo, i fratelli Ruffini, Prati, Berchet, i grandi intellettuali come Chateaubriand e Mill, gli esuli francesi e quelli polacchi. Sorretto da un incalzante ritmo narrativo Londra dei cospiratori è il risultato di una febbrile ricerca durata quarant’anni, un testo che inserisce il Risorgimento italiano in un movimento di passioni e ideali organicamente europeo.
Enrico Verdecchia è nato nel 1939 provincia di Ascoli Piceno. Cresciuto a Roma, dopo la laurea in Lettere con indirizzo storico ha intrapreso la carriera del giornalismo, prima nella redazione dell’Avanti! e poi in quella del settimanale Il Punto. Nel 1972 si è trasferito in Inghilterra dove ha esercitato una multiforme attività pubblicistica come giornalista radiofonico e televisivo per la Bbc, la Rai, Rete 4 e Canale 5. Ha lavorato come consulente e traduttore di soggetti cinematografici, doppiatore di documentari e pubblicità commerciali e infine, dal 1973 al 2000, in qualità di corrispondente da Londra per il settimanale Panorama e collaboratore di periodici tra cui Epoca, Grazia, Gente. Nel frattempo, mosso da un’intensa passione per i problemi della storia, ha raccolto nel corso di quarant’anni una biblioteca personale di 6.000 volumi di argomento risorgimentale, per il quale ha svolto indagini e reperito documentazione per diversi anni.
Cosa significava vivere giorno per giorno nel clima del Grande terrore? Grazie all'apertura di archivi finora inaccessibili, l'autrice esplora il paradosso di un sistema repressivo instaurato attraverso i meccanismi di partecipazione democratica nel partito, nel sindacato e nei luoghi di lavoro: nella psicologia di Stalin e dei suoi sostenitori non esisteva infatti contraddizione fra repressione e democrazia. E fu proprio la sollecitazione all'attivismo di massa a scatenare una scomposta guerra di tutti contro tutti, in cui l'impulso alla denuncia dei "nemici del popolo e della rivoluzione" finì con lo sfuggire al controllo e diede vita a un processo di autodistruzione. Le grandi purghe inaugurate contro gli oppositori dentro il partito si estesero fino a portare agli arresti e alle uccisioni in massa di presunti sabotatori e nemici di classe, accusati di scarsa "vigilanza" rivoluzionaria. Decentrando l'attenzione dalle vicende interne dei gruppi dirigenti e degli organismi di vertice del partito, le centinaia di documenti d'archivio consentono di ripercorrere i tortuosi fenomeni psicologici e organizzativi che all'interno di ogni istituzione e di ogni singolo luogo di lavoro innescarono una catena di conseguenze indesiderate che coinvolsero la vita di milioni di persone e compromisero irrimediabilmente il primo esperimento socialista.
Dal periodo immediatamente successivo alla Grande Guerra, sotto le restrizioni imposte dal Trattato di Versailles, attraverso la riforma militare di Hans von Seeckt che portò alla costituzione della Reichswehr, fino agli anni del consolidamento al potere di Hitler e del perfezionamento del Blitzkrieg, la Germania creò gradualmente un'organizzazione militare che non aveva pari agli inizi del Secondo conflitto mondiale. Questa formidabile macchina da guerra ebbe la sua punta di lancia nelle forze di terra agli ordini del Führer, in particolare la Wehrmacht e le unità ad essa collegate. Il volume ne ripercorre l'evoluzione, dai vittoriosi esordi degli anni 1939-40, esaminando le tappe chiave della sua esistenza: la folgorante campagna occidentale, la guerra in Africa settentrionale e l'imponente quanto devastante sforzo bellico profuso nell'invasione dell'Unione Sovietica, fino all'annientamento finale nel 1945. Il libro, con il supporto di un vasto e puntuale apparato iconografico, si propone di dimostrare in che modo esso si guadagnò la propria reputazione.
Dal combattimento dal punto di vista del soldato, fino alle ampie strutture sociali ed economiche che hanno influito sulle campagne e sulle guerre, tutti gli aspetti della guerra nell'antica Grecia sono stati studiati con molta maggiore frequenza, negli ultimi decenni, di quanto non sia mai stato fatto prima. Questo libro spazia dai dettagli concreti sul modo di effettuare un'incursione, ai problemi molto più teorici delle cause, dei costi e delle conseguenze della guerra nella Grecia arcaica e classica. Sostiene che le fonti greche forniscono un quadro molto selettivo e idealizzato, troppo facilmente accettato dalla maggior parte degli studiosi moderni, e che uno studio più critico delle prove porta a conclusioni radicalmente diverse in merito al modo di fare la guerra da parte dei greci.
Sebbene si tenda a pensare all'Impero romano come a un'organizzazione principalmente terrestre, realizzata con la forza delle straordinarie legioni della fanteria, in realtà esso fu anche una potenza marittima, paragonabile all'Impero britannico del XVIII secolo. In termini puramente numerici, la marina di Roma fu la forza navale più imponente che sia mai esistita. Le flotte romane difesero le comunicazioni e i traffici commerciali, senza i quali non vi sarebbe stato sviluppo. Grazie alle sue navi, la "caput mundi" poté sfidare in combattimento nemici irraggiungibili ed espandere il suo potere in terre fino ad allora inaccessibili, diventando una potenza senza uguali nel Mediterraneo: possedeva basi nell'Europa occidentale, nell'Africa settentrionale e nel Medio Oriente, e nel momento di massimo splendore contava decine di migliaia di marinai, fanti e artigiani che lavoravano al servizio di una flotta numericamente superiore a qualsiasi forza navale moderna. Questo saggio segue la cronologia della nascita, della crescita e del declino delle forze navali di Roma e analizza il ruolo della guerra sul mare nella costruzione del primo grande impero europeo.

