
La campagna portata avanti da Cesare Mori, "il prefetto di ferro", tra il 1925 e il 1929, rimane una delle più importanti e controverse operazioni antimafia mai condotte in Sicilia. Basato sulle carte private di Mori e su altre fonti archivistiche, questo libro ci svela alcuni caratteri inediti quanto fondamentali della mafia e dei metodi usati dal governo fascista nello sforzo di imporre l'autorità dello Stato sull'Isola. Il libro pone in maniera fortemente problematica il rapporto tra mezzi e fini nella lotta contro la criminalità e, per questo, non ha mancato di suscitare forti polemiche sin dal suo apparire, quando, nel 1987, venne recensito da Sciascia sul "Corriere della Sera" con un articolo dedicato ai professionisti dell'antimafia che valse allo scrittore siciliano l'accusa di apologià della mafia.
Noi siamo i nemici di quelli che ci hanno colpiti l'11 Settembre. E se noi siamo il nemico, allora vuoi dire che abbiamo un nemico a nostra volta. Questo fatto dovrebbe cambiare tutto riguardo al modo in cui vediamo il mondo. Una volta che qualcuno ci vede come il nemico, siamo costretti a confrontarci con questa categoria dell'esperienza umana: questo è il motivo che rende le società che hanno dei nemici completamente diverse dalle società che non ne hanno. E se il nostro nemico è fatto da uomini che non si fermano davanti a nulla, pronti a morire ed uccidere, allora dobbiamo trovare uomini che combattano al nostro fianco e siano disposti a fare lo stesso. Solo coloro che hanno dominato la spietatezza possono difendere la loro società dalla spietatezza altrui.
Il libro desacralizza l'evento della rivolta studentesca del 1968, riducendone l'aura mitica e andando invece a studiare approfonditamente le dinamiche che lo caratterizzano. Secondo Aron la rivoluzione non è in realtà tale, ma è solo un delirio, uno psicodramma collettivo in cui ognuno recita una parte. Aron rifiuta nel libro di fare profezie e di dire cosa accadrà, ma a distanza di quarant'anni da quegli eventi, ci si può facilmente rendere conto di come molte delle sue analisi portassero a conclusioni che oggi sono facilmente condivisibili da tutti.
Che il conte di Cavour, maestro della tessitura diplomatica, avesse mandato un carico di fucili a Napoli, non lo aveva detto nessuno. Destinatario di quelle armi era stato il ministro di polizia borbonico, don Liborio Romano. Sembra incredibile, ma lo dimostrano i documenti pubblicati in questo libro. Liborio Romano aveva incominciato la sua attività politica in una setta carbonara, era stato per lunghi anni nelle carceri borboniche, in esilio e a domicilio coatto. Ma infine era riuscito a salire al rango di ministro di Francesco II. Per consegnare Napoli a Garibaldi, senza colpo ferire, si era servito dell'aiuto della camorra, ma con questa operazione temeraria aveva sbarrato il passo alla conquista da parte di Cavour. Aveva realizzato insomma un duplice tradimento, nei confronti del suo re e nei confronti di Cavour. Il trasformismo fu la caratteristica politica di don Liborio: alle origini dell'unità, proprio lui ne fu l'inventore nella penisola italiana. La storia di Liborio Romano prosegue con una trionfale elezione al parlamento del Regno d'Italia, ma Cavour, che non lo aveva perdonato, ne decise l'esclusione dal potere politico.
L'Italia unita fu per secoli il sogno retorico-moralistico di letterati e poeti, fu il progetto d'ambizione di Casa Savoia. Ma appena l'Italia venne messa insieme con i pezzi raccolti, il Sud si ribellò e ingaggiò una sanguinosa guerra di secessione. Al Nord i favorevoli all'unità erano poche migliaia, al Sud anche meno. Trent'anni dopo l'unità, l'Italia era già scossa da tentazioni separatiste, sia al Nord che al Sud, e gli argomenti in discussione erano gli stessi di oggi: la corruzione civile, la criminalità organizzata, le clientele politiche, i differenti costumi, l'assistenzialismo. Nel libro si tenta di spiegare, senza omissioni o interpretazioni arbitrarie, le ragioni del Nord e del Sud, senza tacere i torti equamente ripartiti, le bugie e le falsità che si sono dette, da entrambe le parti.
Questo volume ripercorre gli snodi centrali della storia d'Italia dal fascismo agli anni dei primi governi di centro-sinistra tramite il punto di vista e l'attività di Manlio Rossi-Doria (1905-1988). Lo studio - basato su numerosi materiali inediti italiani e stranieri, provenienti dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna - analizza le dinamiche attraverso le quali Rossi-Doria si allontana dal Partito comunista, aderisce al Partito d'azione e poi si dedica alla "politica del mestiere", mentre dialoga insistentemente con i partiti di sinistra per invitarli alla modernizzazione riformatrice e a emanciparsi da una semplicistica visione re-distributiva dell'economia. Quali furono i contenuti di questa proposta, rispetto alla politica delle bonifiche del fascismo e al nuovo Stato democratico in formazione? Quali furono le reazioni dei partiti di sinistra alla proposta riformatrice rossidoriana? Fu il socialismo liberale una prospettiva in grado di incidere sulla difficile realtà del Mezzogiorno? E, più in generale, quale ruolo svolsero i tecnici nel periodo centrale della ricostruzione economica e rispetto alle relazioni internazionali durante la guerra fredda? A questi quesiti il libro risponde focalizzando l'attenzione sui tre fronti principali sui quali Rossi-Doria s'impegnò: il Mezzogiorno, gli Stati Uniti, l'Europa.
Nel periodo compreso tra i due conflitti mondiali i Paesi dell'Europa centro-orientale presentano situazioni particolarmente complesse sul piano politico-religioso: la maggior parte di questi Stati, nati al termine della Grande Guerra, hanno confini politici artificiali e popolazioni non omogenee da un punto di vista etnico. In diversi di questi Paesi le classi politiche di maggioranza adottano programmi intesi alla laicizzazione della società e alla separazione della Chiesa dallo Stato e, non volendo rinunciare al controllo sulla Chiesa stessa, offrono sostegno alle tendenze riformistiche all'interno della Chiesa cattolica o all'idea di una Chiesa nazionale per rafforzare e completare l'edificio del nuovo stato nazionale. Di grande interesse è, in questo contesto, l'analisi delle politiche adottate dalla Santa Sede, dalle gerarchie cattoliche locali e dai fedeli laici nel difficile confronto con il potere statale. Il presente volume intende offrire, nei saggi qui editi - di Roberto de Mattei, Roberto Morozzo della Rocca, Massimo de Leonardis, Matteo Luigi Napolitano, Francesca Romana Lenzi, Katrin Boeckh, Jure Kristo, Massimiliano Valente, Emilia Hrabovec e L'uboslav Hromjàk - un'occasione di riflessione sugli aspetti generali delle problematiche accennate e su alcuni casi specifici, anche sulla base dei documenti conservati negli archivi vaticani relativi al pontificato di Pio XI.
Il saggio si propone di tracciare l'itinerario di un giudizio di Luigi Einaudi, in una sua opera del 1933, sulle ragioni che resero il nostro stato liberale incapace di fronteggiare le difficoltà del primo dopoguerra, sino a consentire la vittoria del fascismo. Poiché le premesse del giudizio di Einaudi si ritrovano nella critica dei liberisti italiani all'indirizzo dei governi, a partire dalla tariffa doganale del 1887, di quella critica il saggio ricostruisce sia il contesto, sia il contenuto specifico, mettendo in luce come non si trattava semplicemente di contrastare una politica economica, quanto di combattere contro una forma di stato fortemente impopolare e a favore di uno stato che fosse liberale non solo di nome ma di fatto. Gradualmente, Einaudi farà sua questa lezione, sino a considerare inscindibile, come sosterrà in una celebre discussione con Benedetto Croce, il binomio liberismo e liberalismo.
L'interpretazione cristiana della storia universale, dalla Creazione alla resurrezione del Cristo e oltre, si sviluppa come sintesi tra la riflessione sulle Sacre Scritture e l'eredità del pensiero storico ellenistico-romano ed ebraico. Sesto Giulio Africano è il primo storico cristiano a noi noto che realizza tale impresa. La sua opera (Chronographiae) è una rappresentazione "sinfonica" della storia umana che concilia diverse tradizioni attraverso sincronismi e conferme incrociate degli eventi. Il volume vuole comprendere l'opera di Africano inserendola nell'atmosfera culturale e spirituale della sua epoca, l'impero dei Severi tra Caracalla e il terzo anno di Elagabalo (221 d.C., anno di pubblicazione dell'opera); e approfondendo l'identità complessa dell'autore, orgoglioso cittadino romano, di cultura greca, cresciuto ad Aelia Capitolina, a contatto con il sostrato ebraicoaramaico, e aderente alla fede cristiana.
Storia di lunga durata. Storie di uomini, e di donne, molto diversi tra loro. Storie di banditi, come venivano chiamati tra il Ciquecento e il Settecento quelli che erano colpiti dal bando, cioè un decreto di espulsione dalla comunità di cui facevano parte, briganti come nell'Ottocento i francesi definivano tutti quelli che s'opponevano alla loro dominazione. Bandito e brigante non sono prodotti solo del Mezzogiorno che in tempi diversi li troviamo in Calabria, Basilicata, Campania, Puglia, Sicilia, Abruzzo, Molise, Lazio, Veneto, monte, Toscana, Emilia-Romagna. Una lunga scia di sangue fatta di atrocità, corpi squartati, teste mozzate esposte ovunque. Crudeltà da tutte le parti. Repressione cieca, crudele, selvaggia pensa di risolvere problemi, che sono sociali e politici, facendo ricorso alle armi, al carcere, alle fucilazioni indiscriminate. Dalla Repubblica di Venezia allo Stato Pontificio, dal Regno di Napoli al neonato Regno d'Italia tutti i regnanti si comportano allo stesso modo. L'altra faccia della repressione è la scelta degli Stati di venire a patti, scendere a compromessi, di fare accordi con i malviventi. briganti c'è un'enorme letteratura. Mancava un libro che contasse il filo che lega e che separa banditi e briganti, che mostrasse le diverse componenti - politica, religiosa, sociale, culturale -, che demistificasse falsi miti come quello che i mafiosi sarebbero i figli naturali o gli eredi legittimi dei briganti.
Il Regno delle due Sicilie terminò la sua esistenza a seguito di un processo di decomposizione interna accelerato dal moto risorgimentale che portò all'unificazione del nostro paese? Oppure a provocare il crollo del regime borbonico fu decisiva la pressione delle grandi "Potenze marittime" (Francia e Inghilterra) che, dalla metà del XIX secolo, tentarono di trasformare il Mezzogiorno in una colonia economica e in un avamposto strategico funzionale alla loro strategia mediterranea? Il volume di Eugenio Di Rienzo risponde a questi interrogativi, alla luce di una documentazione inedita, proveniente dagli archivi diplomatici francesi, inglesi, austriaci, russi, spagnoli, analizzando la lunga agonia del Regno di Napoli in una durata che va dal conflitto commerciale ingaggiato con la Gran Bretagna nel 1840, ai riflessi internazionali della rivoluzione del 1848, alla Guerra di Crimea, alla distruzione del vecchio equilibrio europeo successiva alla presa di potere di Napoleone III. Senza nessuna nostalgia neoborbonica ma con una grande attenzione ai problemi della storia presente, questo saggio suggerisce inoltre che la stessa debolezza geopolitica, che determinò il crollo del "Piccolo Stato" napoletano, avrebbe condizionato, fino ai nostri giorni, il destino della "Media Potenza" italiana nel segno di un passato destinato a non passare.
Il volume è un'analisi dei temi e delle figure letterarie che fondano nei secoli l'unità della nazione in cammino. L'Italia nasce linguisticamente e letterariamente con Dante, battezzata dal poeta come "giardin dell'impero" e fin dal principio trasfigurata in un'allegoria letteraria. In seguito più volte battezzata e visualizzata in figura di donna, il "bel corpo" petrarchesco martoriato dalle "piaghe mortali", di giovane matrona sventurata percorsa e violata dagli eserciti stranieri. Da Petrarca a Bembo a Carducci, l'Italia viene effigiata come un'espressione letteraria, alla quale la rude realpolitik di Metternich opponeva quella sprezzante e politicamente obiettiva di espressione geografica. L'unità linguistico-letteraria, preesiste all'Unità politica, la sostituisce a lungo nel tempo, la prepara, attivandosi allorché il moto politico del Risorgimento innesta anche la marcia della poesia, del racconto e romanzo epico, della letteratura. Anche Mazzini era un letterato. E Garibaldi leggeva e imitava Foscolo e scriveva versi e romanzi non poi così disprezzabili. Raramente la letteratura ha avuto un ruolo così centrale e anche fattivo, pragmatico, di vera e propria utilità, come in quella circostanza storica. Il Risorgimento è anche un evento letterario, ed è al contempo una manifestazione del romanticismo.