
Nell'ultimo ventennio, soprattutto in seguito all'opera di Edward Said e al suo libro "Orientalismo", gli studiosi dell'Oriente sono stati accusati di lavorare, più o meno consapevolmente, a sostegno della causa imperialista e del colonialismo occidentale. Una visione che ha appiattito su una dimensione geopolitica la ricchezza di un campo di ricerca animato sin dall'antichità greca, da una sete di conoscenza e da una attrazione verso popoli e civiltà percepiti come "altri" e capaci di una forza di seduzione irresistibile. Robert Irwin riscrive, la storia dell'attrazione verso Oriente, passando da Erodoto a Euripide, da Platone e Aristotele alla Scolastica al Rinascimento, dal secolo dei Lumi a quello delle industrie, fino ad arrivare alle dispute del presente. E questa nuova storia tocca gli ambiti più diversi del sapere: letteratura, religione, filologia, politica, cultura scientifica. Lontano da ogni preconcetto ideologico, si dipana lungo queste pagine il filo di un'ossessione che ha accomunato una molteplicità di uomini, prima ancora che di studiosi. E in filigrana, compaiono anche le vicende dei tanti nemici che l'orientalismo da sempre fronteggia: coloro che interpretano l'ineludibile alterità di quelle civiltà come ostacolo alla conoscenza e all'incontro, ma anche coloro che più subdolamente impediscono qualsiasi discorso sull'Oriente dicendosene paladini contro le distorsioni dell'Occidente.
Annibale Gilardoni e Luigi Sturzo iniziarono a frequentarsi a Roma dal 1916 Gilardoni era segretario dell'Unione delle province d'Italia, avvocato di successo e libero docente all'Università "La Sapienza", e Sturzo vicepresidente dell'Anci e pro-sindaco di Caltagirone. Fu tale l'impressione della sua competenza in materia di autonomie locali, economia e finanza che nel 1919, pur essendo lui estraneo al mondo cattolico, Sturzo lo volle nel Partito popolare, di cui divenne deputato nel 1924. Piero Gobetti, nel 1925, lo segnalò tra gli "uomini nuovi" di quel partito che avrebbero meritato di guidare l'Italia. Redattore de "II Popolo", durante il fascismo denunciò con la stessa fermezza la riduzione dei redditi dei lavoratori e quella dei bilanci di comuni e province, l'orientamento del governo a favore dei grandi capitalisti e lo scandalo delle concessioni petrolifere attribuite alla Sinclair, condividendo con l'amico Giacomo Matteotti l'attenzione alle autonomie locali, alla politica finanziaria e alla corruzione. Aventiniano e antifascista, Gilardoni fu corrispondente di Sturzo in esilio. Le sue lettere narrano l'inconcludente attività politica dell'Aventino e gli esordi del regime fascista. Si tratta di pagine ricche di umanità e piene di sconforto per la tragedia che sentiva incombente; in esse traspare una profonda fede religiosa, che pure non gli impedisce di condannare il "tradimento" del Concordato del 1929.
Dopo anni di dibattito sulla "fine della storia" e l'affermarsi di un luogo comune che vuole la disciplina svuotata di ogni attrattiva, assistiamo oggi a un'autentica quanto inaspettata "fame di storia" che, cibandosi di fiction o di revisionismo spettacolare, contribuisce a svilire il senso del mestiere dello storico, che è quello di garantire la corretta e inalterata trasmissione del frutto di un'accurata ricerca alla luce di uno spirito di critica. Si assiste in sostanza a un paradosso: da una parte cresce la "domanda" di storia, che induce un autentico boom della produzione di tipo divulgativo, dall'altra si verifica lo strangolamento della produzione scientifica in senso proprio, per la quale non si prospettano fondi, né sbocchi editoriali, né strategie di reclutamento e formazione di giovani studiosi. Esiste una dimensione "regolata" di questi mestieri o bisogna accettare che siano la logica del mercato e la visibilità mediatica a decidere cosa pubblicare, cosa valga la pena studiare, cosa trasmettere al pubblico, a prescindere da falsità, inesattezze, scoop inventati e pericolosità di certe teorie? Il volume chiama a raccolta studiosi ed esperti nel tentativo di rispondere a tali domande.
Sebbene sia interessato a un passato lontano, spesso lo studioso del mondo antico cede alla tentazione di assimilare l'antichità al proprio sistema culturale, con il rischio di deformarla. Luogo di origine della scrittura e del diritto, della democrazia, delle scienze e della bellezza classica, l'antichità è effettivamente, per noi, un costante punto di riferimento e una continua fonte di legittimazione. Come si può rendere dunque percepibile la specificità delle società del passato? È a partire da questo interrogativo (in cui è riassunto il paradosso che caratterizza lo studio della storia antica) che Pierre Cabanes tenta di descrivere la diversità e le peculiarità di un mondo di fronte al quale lo storico si trova spesso in difficoltà a causa della mancanza di fonti documentarie certe, ma soprattutto dell'inadeguatezza dei concetti storiografici tradizionali e della stessa metodologia storica. La sua ricognizione si fonda in primo luogo sull'identificazione delle fonti documentarie, ne descrive le tipologie, le problematiche che ciascuna di esse pone, e il lavoro interpretativo necessario per rendere intelligibili le realtà del passato. Una serie di quadri sintetici, scandita in successione cronologica, ricostruisce poi i grandi temi e le principali vicende della storia antica a partire dai regni del Vicino Oriente per arrivare alla fine dell'Impero romano.
Una vecchia agenda in tela nera rimasta gelosamente celata per 65 anni tra le carte di Bruno Trentin. Talmente ben nascosta che neppure i familiari e gli amici più stretti ne sospettavano l'esistenza. Ora, inaspetttata, quell'agenda torna alla luce e si mostra in tutta la sua forza: un documento destinato a segnare il dibattito storico e la discussione sulla guerra di Liberazione. Quando Bruno Trentin scrisse questo "Journal de guerre" non aveva ancora diciassette anni. Era appena rientrato in Italia col padre Silvio, leader del Partito d'Azione, dalla Francia, dove la famiglia si era rifugiata in seguito alle leggi fascistissime del 1926. E in Francia Bruno era nato e aveva studiato, fino al momento in cui nell'estate del 1943, il padre aveva deciso di tornare a Treviso per impegnarsi nella Resistenza antifascista. Il diario inizia il 22 settembre e termina il 15 novembre 1943. Sono oltre duecento pagine scritte in un francese limpido e ordinato. Bruno trascrive le notizie più rilevanti, ritagliando giornali, raccogliendo volantini, incollando mappe e cartine che illustrano la situazione dei diversi fronti, riportando le informazioni raccolte da Radio Londra o le notizie di cui viene a conoscenza in casa. Ma soprattutto annota, cataloga, sottolinea, esprime impressioni, paure, commenti, giudizi politici. La sua scelta antifascista è già pienamente compiuta. Non a caso si interrompe con una frase in italiano che suggella il passaggio definitivo all'azione: "Tempo perduto. E ora all'opra!".
Quali sono gli elementi portanti del discorso sulla morte per la patria e del culto dei caduti in Italia? Quando e in quale contesto nascono? In quale misura sono prodotti culturali e politici "importati" da altri paesi? Quali sono le fasi principali, quali le cesure e le continuità più significative? Dal Risorgimento a oggi in Italia il culto dei caduti e il morire per la patria hanno rappresentato un fattore essenziale nella sacralizzazione della nazione, la cui apoteosi trovava la sua espressione più marcata nella legittimazione nazionale della morte in guerra, sacrificio del singolo per la comunità politica. Prende il via in questo modo una secolarizzazione del concetto cristiano di vita eterna, plasmato sulla nazione. Gli autori, storici dell'età moderna e contemporanea, attraverso le rappresentazioni simboliche del lutto, analizzano le forme che il tentativo di nazionalizzazione delle masse ha di volta in volta assunto. Dall'esaltazione ottocentesca degli eroi, immortalati nei monumenti, il più vistoso dei quali il Vittoriano, si passa alla commemorazione delle vittime di guerra. L'elogio dell'individuo si trasfigura nella celebrazione del Milite Ignoto. Nel secondo dopoguerra sono pochi gli eroi: si ha piuttosto una massificazione della morte ignota che coinvolge anche i civili. Sopravvive tuttavia una tradizione militare che, attraverso l'encomio solenne della morte eroica, mantiene vivo il legame con il passato risorgimentale.
Cosa significava vivere giorno per giorno nel clima del Grande terrore? Grazie all'apertura di archivi finora inaccessibili, l'autrice esplora il paradosso di un sistema repressivo instaurato attraverso i meccanismi di partecipazione democratica nel partito, nel sindacato e nei luoghi di lavoro: nella psicologia di Stalin e dei suoi sostenitori non esisteva infatti contraddizione fra repressione e democrazia. E fu proprio la sollecitazione all'attivismo di massa a scatenare una scomposta guerra di tutti contro tutti, in cui l'impulso alla denuncia dei "nemici del popolo e della rivoluzione" finì con lo sfuggire al controllo e diede vita a un processo di autodistruzione. Le grandi purghe inaugurate contro gli oppositori dentro il partito si estesero fino a portare agli arresti e alle uccisioni in massa di presunti sabotatori e nemici di classe, accusati di scarsa "vigilanza" rivoluzionaria. Decentrando l'attenzione dalle vicende interne dei gruppi dirigenti e degli organismi di vertice del partito, le centinaia di documenti d'archivio consentono di ripercorrere i tortuosi fenomeni psicologici e organizzativi che all'interno di ogni istituzione e di ogni singolo luogo di lavoro innescarono una catena di conseguenze indesiderate che coinvolsero la vita di milioni di persone e compromisero irrimediabilmente il primo esperimento socialista.
"Naufraghi nella tempesta della pace": un documentario della "Settimana Incom" del 1947 evocava così la tragedia dei profughi dell'Istria. Si aggiungevano a milioni e milioni di altri "naufraghi", frutto degli sconvolgimenti della guerra e del dopoguerra: milioni di persone sradicate dalla propria terra dalle deportazioni operate dalla Germania nazista e dalla Russia staliniana, ex prigionieri, donne e uomini in disperata fuga dall'inferno della Shoah o dalle zone martoriate dagli spostamenti del fronte. E a questa marea di profughi se ne somma un'altra, alimentata da milioni di persone espulse a forza dai paesi dell'Europa centro-orientale. Il dramma delle popolazioni tedesche ha qui un rilievo centrale: già con la fuga disperata davanti all'Armata rossa nell'ultima fase della guerra, e poi con le espulsioni dell'immediato dopoguerra dalla Cecoslovacchia, dalla Polonia, dall'Ungheria, dalla Romania, dalla Jugoslavia, ove il loro dramma si aggiunge a quello degli italiani dell'Istria. Si pensi ai polacchi e agli ucraini vittime di feroci espulsioni reciproche da territori in cui avevano convissuto per secoli, e ad altre sofferenze ancora: si inizieranno allora a intravedere i contorni di una fra le pagine più rimosse della storia europea. Questo studio illumina alcuni squarci di questa vicenda, in cui drammi personali e collettivi si intrecciano, ed evoca le ferite di memoria che quel trauma ha lasciato.
Al compimento dei suoi primi cinquant'anni (1958-2008), la quinta Repubblica francese sembra longeva, se confrontata alla quindicina di regimi politici che l'hanno preceduta, dalla Rivoluzione francese in poi. Si tratta di un sistema politico del tutto singolare nel panorama istituzionale delle democrazie occidentali, imperniato com'è intorno alla figura di un presidente tanto onnipotente quanto irresponsabile di fronte alla rappresentanza nazionale, che trae la sua legittimità dall'elezione popolare diretta, introdotta del resto tardivamente in una costituzione che invece delinea un sistema parlamentare, sia pure con forti poteri del governo. Il libro segue l'evoluzione istituzionale della quinta Repubblica, focalizzando la sua definitiva consacrazione con l'avvento della sinistra al potere, realizzato da Mitterrand nel 1981, ed evidenziando la sua interazione con i processi evolutivi della società, dell'economia, della cultura francesi. Processi che in gran parte si riassumono anche in Francia in un depotenziamento della politica: crisi dello Stato-nazione, dello Stato sociale, della rappresentanza, dei partiti, dei sindacati; incontrollabile spontaneità dei movimenti sociali, spettacolare personalizzazione della competizione, non di rado foriera di scandali e malcostume. Il libro si chiude con l'esame critico del progetto di riforma costituzionale preparato su incarico del presidente Sarkozy dal Comitato Balladur approvato nel luglio del 2008.
Poche dense pagine per affrontare un tema cruciale e scottante della nostra storia: la genesi della Repubblica sociale italiana e la sua breve ma intensa vicenda sotto il Reich nazista. Attraverso lo studio comparato di fonti d'archivio tedesche e italiane, l'autrice mette mano a un'onginalissima ricerca sulle reali motivazioni e le prospettive politiche che indussero Mussolini a porsi a capo del nuovo governo fascista, smentendo la tesi - cara a una certa memorialistica fascista, e poi divulgata dalla pubblicistica e da una distratta storiografia - di una scelta "sacrificale" di Mussolini, per sottrarre l'Italia alla feroce vendetta tedesca. Una tesi in realtà fondata su un vero e proprio falso storico, volto a giustificare la "repubblica necessaria", ma smentito tanto dall'analisi critica e filologica della sua genesi quanto da un rigoroso confronto con le fonti. Mussolini e i suoi seguaci, stretti fra la mera parvenza di un governo e l'assenza di una possibile alternativa, sembrano muoversi in un orizzonte politico avulso dal reale, intriso di accenti irrazionalistici. I rapporti fra Mussolini e Hitler, ma anche fra il gruppo dirigente fascista e quello tedesco, rivelano il radicale contrasto "fattuale" fra un "governo che non può governare", ma che velleitariamente ambisce a un ruolo di potenza nel Nuovo ordine europeo nazista, e la volontà della Fùhrung germanica di impiegare invece ai fini esclusivi del Reich la Repubblica di Salò.
I circa centocinquant'anni che vanno dagli inizi del Settecento all'Unità d'Italia conobbero avvenimenti che mutarono radicalmente le condizioni politiche, sociali, istituzionali del regno meridionale, nonché la produzione artistica, specie nel campo dell'architettura. Trattando dell'arte meridionale del XVIII secolo, occorre innanzitutto registrare l'"internazionalizzazione" della propria cultura artistica; che ha come sfondo il fenomeno decisivo dell'Illuminismo. L'Ottocento si apre invece con i fatti rivoluzionari del 1799 e con la successiva dominazione francese, che segnerà un punto di svolta nella cultura artistica, influenzata fortemente dai modelli d'oltralpe. Dal classicismo di Paolo De Matteis e Francesco Solimena alla grande architettura del periodo borbonico, con il fiorire dei siti reali, primo su tutti la reggia di Caserta progettata da Luigi Vanvitelli, il volume ripercorre l'intero arco di una produzione che ha dato i suoi esiti più alti non solo nelle arti "maggiori" (le sculture di Domenico Antonio e Lorenzo Vaccaro, la prolifica stagione del vedutismo con Giovan Battista Lusieri e Antonio loli), ma anche nelle arti applicate (le grandi dinastie di argentieri, riggiolari e marmorari attivi nella capitale e nelle province del regno).
La fine dell'impero romano d'Oriente si è caricata, nei secoli, delle valenze evocative proprie delle date epocali. Non solo: attorno al declino di Bisanzio si concentrano gli stereotipi storiografici di un "senso comune" che vede nel bizantinismo il male del più esasperato politicismo, la decadenza dello spirito pubblico e della lotta politica nelle spire della logica del tradimento. Una deformazione prospettica diffusasi lungo tutta l'età moderna, che ha proiettato all'indietro i caratteri dell'ultima Bisanzio: un mito a suo modo volgare che il libro di Ivan Djuric consente di tradurre nella ricchezza interpretativa e documentaria di uno studio storico di grande acume, che lucidamente conduce al cuore del mondo politico, religioso e diplomatico della Costantinopoli al suo tramonto: come scrive lo stesso Djuric, è la storia della fine di "un impero che non c'è". Già infatti alla fine del XIV secolo Bisanzio non è più padrona del proprio destino, costretta a fare i conti con il declino del suo prestigio, con la miseria delle città, con l'indebitamento dello Stato e la dipendenza economica dalle potenze mediterranee, con i conflitti interni alla famiglia regnante, con le mutilazioni territoriali e l'inevitabile decentralizzazione. Infine con i turchi: tutto ciò scandisce il tramonto fino alla definitiva caduta nel 1453, e si erge prepotentemente a sfondo storico degli sforzi di Giovanni VIII Paleologo di contrastare un destino forse non del tutto scritto.