
Omero, Aristotele, Eliano e molti altri autori dimostrano che nel mondo antico era diffusa la credenza nella fecondazione degli animali attraverso il vento. Può sembrare eccessivo stabilire una relazione fra questa forma di concepimento in grado di transitare per bocca, naso, pelle bagnata o apparato digerente e la gravidanza di Maria per opera dello Spirito Santo, ma molti padri della Chiesa non la pensavano così e non hanno esitato a fare questo collegamento. Essi, infatti, ritenevano che l'antica credenza nella fecondazione attraverso il vento conferisse credibilità alla gravidanza di Maria per opera dello Spirito santo o del «vento santo» e la usarono per difendere la nascita verginale di Gesù. L'antica concezione forniva infatti un contesto plausibile e accettabile a un auditorio greco-romano già orientato a credere alla capacità fecondante del vento.
Nella primavera del 1961 Hannah Arendt viene inviata dal settimanale «New Yorker» a seguire il processo ad Adolf Eichmann, il gerarca nazista rifugiato nel 1945 in Argentina, rapito dal Mossad nel 1960, processato per genocidio l'anno successivo e condannato a morte per impiccagione nel 1962. In quella circostanza Arendt diviene amica di Leni Yahil, storica di origine tedesca e studiosa della Shoah. Inizia così una corrispondenza che alterna questioni personali, filosofiche e politiche. Nel 1963, dopo la pubblicazione degli articoli sul processo Eichmann, riuniti poi nel volume «La banalità del male», il rapporto tra le due donne si interrompe bruscamente. Nella più controversa delle sue opere, Arendt sostiene che il male perpetrato da Eichmann sia da attribuire a una completa inconsapevolezza sul significato delle proprie azioni e solleva il tema della responsabilità dei capi delle comunità ebraiche nell'aver agevolato la politica di sterminio nazista. Il tentativo di Yahil di far rivivere la corrispondenza con Hannah Arendt otto anni più tardi è destinato a fallire. L'amicizia tra le due donne non riesce a reggere la polemica suscitata dal processo e dal libro.
Questo libro ricostruisce la campagna d'Italia della Seconda guerra mondiale avvalendosi di un registro duplice: il piano dei fatti ufficiali si alterna costantemente con quello della guerra segreta nelle retrovie, le vicende belliche assumono nell'insieme la coloritura del ricordo personale, brillante e minuzioso, di un giovanissimo ufficiale dell'OSS (Office of Strategic Services). Max Corvo fu scelto per questa missione data la sua familiarità con la terra d'origine, l'Italia, la sua lingua ed i suoi dialetti, con la sua cultura, la sua gente, il suo territorio tormentato e, infine, con la sua ricca storia. Grazie a queste conoscenze, e al suo talento personale, Corvo poté proporre ed attuare una serie di operazioni di spionaggio sul campo a sostegno della guerra contro i tedeschi ed i fascisti, fino alla loro sconfitta definitiva. lIl testo risponde, fra ammissioni e omissioni, a molte domande riguardanti l'invasione della Sicilia del 1943, l'accusa di collaborazione fra mafia e forze armate americane, il trattamento riservato dalle forze di occupazione tedesche e dai fascisti alla popolazione italiana, il sistematico smantellamento della macchina da guerra germanica sul territorio italiano fino alla caduta del fascismo ed alla morte di Mussolini.
La decima e l'undicesima battaglia dell'Isonzo, le ultime due "spallate" di Cadorna narrate da due testimoni diretti di quei drammatici episodi, da essi seguìti in qualità di ufficiali di Stato Maggiore all'interno di due osservatori privilegiati: il Comando della XXVII Divisione del Generale Badoglio e quello della Isonzo-Armee di Boroevic´. La professionalità dei loro ruoli si riverbera in una prosa asciutta, da "relazione ufficiale": in quella del Baj-Macario, in particolare, percorsa a tratti da valutazioni personali e spunti polemici su fatti e protagonisti, ispirati - non è difficile immaginare - dallo stesso Badoglio, già superiore diretto dell'Autore. L'essenziale narrazione del von Pitreich è arricchita nel finale da pagine cariche di pathos, tratte dal diario di un soldato austriaco che descrive gli estremi, inani sforzi italiani per aver ragione del San Gabriele, il "Monte della Morte", l'ultimo baluardo che sbarrava loro il passo sulla soglia di Gorizia. La sofferta conquista italiana della Bainsizza segnò lo sforzo massimo profuso dai combattenti e dalla Nazione, ormai stanchi della guerra, ma anche gli austro-ungarici, ormai consapevoli che non sarebbero più stati in grado di sostenere da soli una dodicesima spallata, rivolsero un'accorata richiesta di aiuto all'alleato tedesco. Due opposti stati di prostrazione che, come indica il titolo della presente opera, recano in sé i germi di Caporetto.
Dal 1615 al 1617 l'esercito della Repubblica di Venezia e quello dell'arciduca Ferdinando d'Austria si affrontarono sul territorio che dalla Val Canale giungeva a Monfalcone, sull'Adriatico, insistendo per un lungo tratto lungo il fiume Isonzo. Trecento anni dopo, sui medesimi luoghi, si sarebbero scontrati nel corso della Prima guerra mondiale Italiani ed Austriaci. Combattuta anche in Istria e Dalmazia, nel corso di questa guerra Venezia lottò per mantenere il dominio del Golfo e per riconquistare i territori perduti durante la guerra contro la lega di Cambrai, gli Arciducali per difendere il Südland isontino ed affermare le proprie aspirazioni sull'Adriatico. In questo aspro conflitto, caratterizzato da scorrerie, assedi, combattimenti e colpi di mano, più che da vere e proprie battaglie campali, si distinsero alcuni tra i più brillanti condottieri del secolo, tra i quali Wallenstein; gli stessi Generali comandanti le contrapposte armate, Pompeo Giustiniani ed Adamo di Trautmannsdorf, trovarono una gloriosa morte sul campo. Dopo le cronache di pochi autori seicenteschi ed alcuni successivi contributi, per lo più ispirati ai loro scritti, questo lavoro basato su ricerche d'archivio traccia per la prima volta un chiaro, equilibrato ed esaustivo quadro degli eventi, ponendo altresì all'attenzione del lettore aspetti rimasti sino ad oggi ignoti.
Voci diverse, in questo libro, narrano un'unica storia: la storia dell'Impero ottomano che si frammenta in entità minori, gli stati-nazione, polemicamente votati a rompere con il passato e a "fare come l'Europa". Ironicamente, il processo culminerà nella proclamazione della repubblica turca. Nella loro tensione alla modernità, certo, gli stati post-ottomani devono mettere nel conto l'eventuale disfunzione dei modelli importati; ma intanto puntano ai livelli alti della coeva esperienza europea: si pensi al costituzionalismo, all'elitismo politico in parallelo all'espansione del suffragio, all'elaborazione di storiografie "nazionali e scientifiche", all'integrazione delle masse rurali nella nazione (come i peasants into Frencbmen di E.Weber). Per non dire del loro rapporto con il sistema degli stati europei, su cui non solo si misurano i margini della loro limitata sovranità, ma si giocano anche partite complesse fra le grandi Potenze. Letti come capitoli di una storia, dunque, gli otto brevi saggi qui raccolti mostrano che il filo rosso di tanto agitarsi per la secessione, l'autogoverno, l'omologazione europea, è lo sforzo costante sui determinismi del retaggio storico: per superarli, o più probabilmente aggirarli.

