
Le vite degli uomini e delle donne medievali erano per molti versi simili alle nostre, ma allo stesso tempo erano colme di esperienze miracolose e metaforiche radicalmente diverse. Si viveva in un'epoca in cui le ferite mortali potevano essere guarite durante la notte per opera di un intervento divino, oppure il cuore di un re, estratto dal cadavere, veniva utilizzato come efficace emblema del potere politico. Grondante sangue e oro, feticizzato e torturato, porta d'accesso alle delizie terrene e punto di contatto con il divino, fatto a pezzi ma potente persino oltre la morte: nel mondo medievale non esisteva terreno più fecondo e simbolico di quello del corpo. In "Corpi medievali", lo storico dell'arte Jack Hartnell svela i modi complessi e affascinanti attraverso i quali la gente del Medioevo pensava, esplorava e sperimentava la propria fisicità. Nei dipinti e nei reliquiari che celebravano i martiri dei santi, sovente bizzarri, la dimensione sacra del corpo lasciava un segno tangibile. Nella letteratura e nella politica, i cuori e le teste divennero potenti metafore che modellavano i sistemi di governo e la società in modi che perdurano ancor oggi. I medici e i filosofi naturali incrociavano secoli di sofisticate conoscenze mediche, mettendo spesso in pratica un'ignoranza della fisiologia tanto profonda quanto macabra nei suoi risultati.
Questo libro segue lo svolgersi dell'amicizia tra David Hume e Adam Smith, dal loro primo incontro nel 1749 fino alla morte del primo nel 1776. Descrive come i due si leggessero l'un l'altro, si aiutassero reciprocamente nella carriera e nelle ambizioni editoriali, spesso consultandosi su questioni personali, in particolare dopo la drammatica lite di Hume con Jean-Jacques Rousseau. Membri della vivacissima scena intellettuale dell'Illuminismo scozzese, Hume e Smith ebbero amici (e nemici) in comune, frequentarono gli stessi club e s'interessarono agli stessi argomenti, e non solo di filosofia ed economia: dalla psicologia alla storia, dalla politica al conflitto britannico nelle colonie americane.
Sergio Luzzatto racconta qui l'avventura di un numero sorprendente di bambini ebrei, scampati alla Soluzione finale e rifugiati nell'Italia della Liberazione: circa settecento giovanissimi polacchi, ungheresi, russi, romeni, profughi dopo il 1945 tra le montagne di Selvino, nella Bergamasca. E racconta l'avventura di Moshe Zeiri, il formidabile ebreo galiziano che, ponendosi alla guida dei bambini salvati, consentirà loro di rinascere da cittadini del nuovo Israele. Questa è la storia di una redenzione. Tragicamente privati di una famiglia, di una casa, di una lingua, irreparabilmente derubati di ogni loro passato, gli orfani della Shoah vedono dischiudersi, grazie agli emissari sionisti, la prospettiva di un futuro nella Terra promessa: un futuro da costruire tutti insieme, maschi e femmine, come in una grande famiglia riunita in un «kibbutz Selvino». I bambini di Moshe sono orfani della Shoah rinati alla vita nell'Italia della Liberazione. Sono giovanissimi ebrei d'Europa centrale e orientale sfuggiti allo sterminio nazista, che nel 1945 hanno incontrato un uomo come Moshe Zeiri: il militante sionista che fondò e diresse a Selvino, nella Bergamasca, l'orfanotrofio più importante dell'Europa postbellica. Falegname per formazione, teatrante per vocazione, Moshe faceva parte di un piccolo gruppo di ebrei a loro volta originari dell'Europa centro-orientale. Giovani immigrati in Palestina negli anni Trenta, che fra il 1944 e il 1945 hanno risalito l'Italia come soldati volontari nel Genio britannico, per cercare di salvare il salvabile. Se non il loro «mondo di ieri», la civiltà yiddish irrimediabilmente distrutta, almeno gli ultimi resti del popolo sterminato. Dopo il drammatico suo incontro con i bambini sopravvissuti, Moshe Zeiri li organizza a Selvino in una specie di repubblica degli orfani, e attraverso l'educazione sionistica li prepara a una seconda vita. Non più la vita rassegnata delle vittime, «laggiù», nelle terre di sangue della Soluzione finale, ma la vita libera e forte dei coloni di Eretz Israel, nella Terra promessa. D'altra parte, la storia dei bambini di Moshe è anche la storia di un'illusione. Perché dopo la guerra d'indipendenza del 1948, l'utopia del «kibbutz Selvino» avrebbe finito per scontrarsi, nello Stato di Israele, con la realtà di nuovi (e brutali) rapporti di forza.
L'ebraismo ha mantenuto invariata la sua fortissima identità nonostante le innumerevoli forme e credenze che hanno costellato il suo corso millenario. Il libro di Martin Goodman offre la prima storia complessiva della sua nascita, della sua evoluzione e delle sue diverse correnti e tradizioni. Dalle origini della religione ebraica nel mondo politeistico del secondo e primo millennio al culto del tempio d'epoca cristiana, Storia dell'ebraismo racconta le vicende di rabbini, mistici e messia medievali e agli albori dell'età moderna, descrive le varietà religiose contemporanee dall'Europa alle Americhe, dall'Africa all'India e alla Cina, così come le istituzioni e le idee sulle quali si fonda ogni forma di ebraismo. Intrecciando i diversi fili del dibattito filosofico e dottrinario che attraversa tutta la sua storia, questo libro, autorevole e coinvolgente insieme, restituisce la cronaca di una tradizione fondamentale per l'eredità spirituale umana.
Tesi di fondo di questo libro è che nell’antica Roma il pianto è alquanto diffuso e accompagna gli avvenimenti della vita pubblica e privata. Si tratta di esercitare un potere politico e simbolico: per aumentare la loro autorità, senatori, imperatori e brillanti condottieri non esitano a versare lacrime. Esse vengono usate nelle più svariate situazioni: per esprimere la sofferenza del lutto, la volontà di espiazione quando oscuri presagi appaiono minacciosi, la paura di un’esclusione sociale per cui si invoca la tradizione della propria famiglia; per manifestare la propria grandezza d’animo davanti agli sconfitti. L’autrice si sofferma poi sul messaggio politico che le lacrime diffondono, sul momento calibrato in cui compaiono. Esamina con cura testi e tradizioni, sconfessando l’immagine monolitica dei romani come un popolo duro e crudele. Il tema del libro ha un interesse generale, in un momento in cui si recupera lo studio delle emozioni, la loro spontaneità o la loro calcolata esternazione, il loro ruolo nelle traiettorie individuali nelle relazioni interpersonali.
Nel gennaio 2016 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha pianto in pubblico. Sottolineando l’intreccio di forza e debolezza, la stampa si è interrogata: «Obama ha reso accettabile il fatto di piangere in pubblico?» In realtà la novità è meno importante di ciò che lascia intravedere: un’attenzione collettiva verso le lacrime. Il dato che forse colpisce di più è che tale attenzione nasce da una dimenticanza. Le lacrime un tempo erano frequenti, tanto in pubblico quanto in privato. Nella Roma antica fornivano un ausilio imprescindibile al politico, erano l’arma preferita degli oratori e il mezzo con cui distinguersi dal volgo. Contribuivano anche a veicolare i presagi riguardanti la città. Le lacrime, insomma, scorrevano abbondanti tra i romani. Gli imperatori, il popolo, i senatori, i soldati piangono. I dibattiti pubblici, i processi, le ambasciate, tutto è pretesto per riversare emozioni. Più dei greci, che già piangevano abbastanza, i romani hanno la lacrima facile. Essi vengono spesso dipinti come conquistatori spietati (e lo erano). Ma se ne mostrano troppo poco i momenti di fragilità. Così la (cattiva) reputazione dei romani ha scoraggiato finora qualunque ricerca generale sulle lacrime, mentre i lamenti degli eroi greci hanno fatto versare fiumi d’inchiostro. In questa storia della forza romana al rovescio bisogna accettare di non riconoscersi, di rimanere spaesati. I comportamenti sociali dei romani, tanto spesso punteggiati di lacrime, ci disorientano. Ma fare un passo di lato permette di vedere più chiaro.
Affermatasi a partire dal secondo dopoguerra fra le principali potenze industriali, l'Italia rappresenta un caso a sé stante nel quadro delle economie occidentali. Tanto differenti, rispetto a quelle di altri paesi europei, sono state, oltre alle matrici del capitalismo italiano, le risorse materiali, le condizioni strutturali e le caratteristiche sociali della nostra esperienza economica. Ed evidenti sono tuttora alcune sue rilevanti asimmetrie. Sullo sfondo delle vicende della finanza e del mercato internazionale, Castronovo ricostruisce il complesso itinerario dell'economia italiana, intrecciandolo sia agli eventi politici e agli orientamenti culturali sia alle trasformazioni di natura sociale. Vengono così rievocate, insieme all'opera dei principali attori della vita economica e delle diverse componenti del mondo del lavoro, le fasi più significative di un processo di sviluppo e di modernizzazione che non fu né univoco né lineare, ma molto difforme dal punto di vista del territorio ed estremamente accidentato. Dopo aver compiuto rilevanti progressi economici, anche grazie al dinamismo di una miriade di piccole e medie imprese, senza colmare tuttavia il divario fra il Centro-Nord e il Mezzogiorno, l'Italia è oggi di fronte al problema del risanamento di un ingente debito pubblico nell'ambito dell'Unione monetaria europea, e a quello della crescente competitività di grandi paesi emergenti. Nell'epoca della globalizzazione, il nostro Paese si trova dunque a percorrere un tornante cruciale per il suo futuro. Questa edizione ripensa radicalmente gli eventi degli ultimi decenni aggiornando la trattazione alle sfide del 2020.
Dalla fine dell'Età del bronzo all'inizio del Medioevo, da Uruk ad Alessandria, da Persepoli ad Atene e Sparta, e da Cartagine a Roma, la suggestiva epopea dell'ascesa, il declino e la scomparsa delle città antiche le cui rovine non hanno mai smesso di affascinarci. Una storia naturale di guerre e politica, pestilenze e carestie, ingegno e crudeltà, trionfi e tragedie, a volte leggendaria a volte miserevole. Al suo centro il Mediterraneo, che non solo gli antichi Greci e Romani, ma anche Fenici, Etruschi, Persiani, Galli ed Egizi solcarono e popolarono instancabilmente. L'antico Mediterraneo era un ambiente difficile da urbanizzare. Come è stato possibile creare e poi tenere in vita delle città per così tanto tempo, in contesti apparentemente così poco favorevoli? Come si nutrivano i loro abitanti, dove trovavano l'acqua o i materiali da costruzione e come si comportavano con i loro rifiuti e i loro morti? E perché infine i sovrani decidevano di abbandonarle? E come si abitava in mondi urbani così diversi dal nostro? Città immerse nell'oscurità ogni notte, città dominate dai templi degli dèi, città di contadini, di schiavi, di soldati. Alla fine, i protagonisti della storia sono le città stesse. Atene e Sparta, Persepoli e Cartagine, Roma e Alessandria: città che formavano delle grandi famiglie. La loro storia racchiude quella delle generazioni che le hanno costruite e abitate, lasciando in eredità monumenti che da allora hanno ispirato i successivi costruttori di città, e le cui rovine ci rammentano i pericoli e le potenziali soddisfazioni e ricompense di un'esistenza urbana.
La civiltà islamica è stata per molto tempo invidiata dal resto del mondo. Grazie a un susseguirsi di capitali scintillanti e cosmopolite, gli imperi islamici hanno dominato in Medio Oriente, in Nord Africa, nell'Asia centrale e nelle fasce del subcontinente indiano, mentre l'Europa indietreggiava ai margini. Per secoli il califfato era al tempo stesso vittorioso sul campo di battaglia e trionfante in quello delle idee, le sue città erano ineguagliabili per bellezze artistiche, potenza commerciale, spiritualità e raffinata cultura. Justin Marozzi si sofferma sulle dinastie più importanti alla guida del mondo musulmano - gli Abbasidi di Baghdad, gli Omayyadi di Damasco e Córdoba, i Merinidi di Fez, gli Ottomani di Istanbul, i Moghul dell'India e i Safavidi di Isfahan - e su alcuni dei più carismatici leader della storia musulmana, dal Saladino del Cairo e il potente Tamerlano di Samarcanda al poeta-principe Babur nel regno montano di Kabul e l'irrefrenabile dinastia Maktum di Dubai. L'autore descrive in modo brillante tutte queste grandi dinastie e le loro capitali, inquadrandole all'interno dei momenti decisivi della storia islamica: dalla rivelazione a Maometto alla Mecca e la prima crociata (1096-99) alla conquista di Costantinopoli nel 1453 e la repubblica mercantile di Beirut nell'Ottocento, per toccare infine i paradossi della Dubai contemporanea.
«Perché mai la civiltà moderna dovette costruirsi a fatica come qualcosa di nuovo sulle rovine dell'antica, invece di essere la sua diretta continuazione?». "La storia spezzata" è interamente costruita intorno a questa domanda cruciale, formulata da Michail Rostovzev nelle ultime pagine del suo gran libro sull'impero romano. La risposta di Schiavone è entrata nelle cronache dell'antichistica di questi decenni. Ed è un racconto avvincente, che unisce storia economica, sociale, intellettuale in un continuo contrappunto fra antico e moderno, fra passati lontani ed epoche a noi molto più vicine.
Un nomade globale, che vive tra Asia e America, sonda le radici culturali del binomio Oriente-Occidente. Accompagnandoci in un viaggio nella storia indispensabile per capire l’oggi con tutte le sue contraddizioni. E anche per interpretare le diverse risposte di fronte all’emergenza coronavirus.
È dai tempi di Alessandro Magno che l’incontro-scontro fra Est e Ovest ispira la nostra visione del mondo. «Noi» siamo concentrati sui valori e sui diritti del singolo, «loro» abitano un universo comunitario. Il dispotismo orientale, teorizzato da Marx e da altri pensatori dell’Ottocento, lo ritroviamo al multiplo nelle sue reincarnazioni contemporanee, da Erdogan a Xi Jinping. C’è poi il «loro» spiritualismo contro il «nostro» materialismo: un mito che si complica sempre piú nella modernità. Siamo passati attraverso le fasi dell’emulazione, talvolta dell’omologazione, del rifiuto, della rincorsa e del sorpasso, della riscoperta delle radici. È probabile che un punto di equilibrio non lo troveremo mai.
Ora che la pandemia ci ha abbattuti entrambi, resta da scoprire chi si risolleverà per primo, quale modello risulterà vincitore.
Obbligato per decenni ai margini del dibattito politico per il suo apparente anacronismo, il neofascismo, nelle sue diverse declinazioni storiche, ha invece riassunto oggi le vesti di uno scomodo convitato. Non è il ritorno a vecchie organizzazioni che si erano incaricate di raccogliere, in età repubblicana, il lascito mussoliniano. Men che meno degli spettri, mai del tutto dissoltisi, di quest'ultimo. Semmai assistiamo a una riformulazione culturale e antropologica della sua attualità in quanto sistema di rapporti e relazioni politiche per i tempi a venire. L'asticella non è rivolta al passato bensì al futuro. Se le società europee si trasformano dinanzi all'incalzare della globalizzazione, così come nella secca riconfigurazione della stratificazione sociale, il neofascismo del presente è in grigio: si propone come il soggetto che intende difendere la «differenza»: nazionale, etnica, in prospettiva razziale. Tanto più in età pandemica, nella crisi delle democrazie sociali.