
La scommessa del volume di Tomaso Montanari è quella di non rinunciare ai vantaggi, e al fascino, della sintesi interpretativa che tale categoria porta con sé (con la sua pretesa di definire tanto un'epoca quanto un'estetica e una sensibilità) senza per questo sacrificare la conoscenza puntuale delle singole opere d'arte. Il secolo di Caravaggio e Rubens, di Bernini e Borromini, di Poussin e Velázquez viene così percorso per intero, tenendo come chiavi interpretative la centralità dello spettatore, il rapporto con l'arte antica e con quella rinascimentale, la diffusione geografica del nuovo stile, la tensione tra funzione religiosa e libertà dell'artista, il peso degli equilibri politici e il ruolo dei grandi mecenati. Mettere in evidenza la varietà e la contraddittorietà che segnano ciò che chiamiamo arte barocca significa mettere ancor più in evidenza le tante ragioni che ci spingono a vedere proprio in quel periodo le radici della nostra modernità.
A tredici anni il desiderio di esplorare e conoscere il mondo ti fa spalancare gli occhi, stupiti e avidi, sulla realtà che ti circonda: ma cosa succede quando il tuo unico, insuperabile orizzonte è quello dell'Olocausto, dell'umiliazione quotidiana e sistematica? Come si diventa uomini quando nulla intorno a te è degno di un uomo?
«Sono nato nel 1929 e nel 1933 i nazisti prendono il potere: l'unico mio ricordo è la persecuzione». Thomas Geve ha tredici anni quando, nel 1943, viene deportato ad Auschwitz. Solo perché ha l'aria di essere un po' più grande della sua età, Thomas viene assegnato ai lavori forzati: nella logica folle e rovesciata del campo è una fortuna perché «i bambini al di sotto dei quindici anni vengono mandati direttamente alle camere a gas». Nonostante le quotidiane violenze, un lavoro che è solo tortura, la scientifica e continua offesa alla dignità umana, Thomas sopravvive: l'11 aprile 1945 le truppe alleate irrompono nel campo e liberano i prigionieri. Allora fa qualcosa di unico nella storia delle testimonianze dei sopravvissuti. Per conservare la memoria dell'inferno e raccontare ai genitori ciò che ha visto (non sapendo ancora che la madre, internata come lui, non è sopravvissuta), sceglie di fare quello che ogni bambino ha sempre fatto: inizia a disegnare. Si procura delle matite colorate, un bene prezioso e inarrivabile durante i giorni della prigionia, e trasforma il retro dei moduli e dei formulari delle SS nei 79 disegni che compongono questa raccolta (e solo più tardi, anni dopo, aggiungerà qualche, essenziale, parola di commento).
Ogni cosa, ogni episodio, ogni traccia, per quanto flebile, di vita, ogni manifestazione, per quanto spaventosa, dell'orrore, viene registrata dai disegni di Thomas. Con il tratto semplice e stilizzato della sua età ma con l'attenzione per il dettaglio del futuro ingegnere, Geve dà vita a un documento di una bellezza straziante nel suo tentativo di sfidare l'abisso con lo sguardo, e le matite, di un bambino.
Gian Lorenzo Bernini non ha un posto nella genealogia dell'arte moderna: quella che parte dalla rivoluzione di Caravaggio, e attraverso Velázquez, Goya e Manet, conduce agli Impressionisti, e dunque alle avanguardie. L'artista più potente, ricco e realizzato dell'Italia secentesca, "il dittatore artistico di Roma", è sempre stato considerato troppo organico alla propaganda dei papi e dei gesuiti per poter aver parte in questa storia di libertà. Basandosi su oltre vent'anni di ricerca, e ribaltando la lettura corrente di opere, fonti e documenti, questo libro dimostra il contrario: a modo suo, Bernini ha seguito Caravaggio sulla via del conflitto, arrivando a sacrificare una parte del proprio successo pur di difendere la sovranità sulla propria arte. Ed è anche grazie a questa tensione che le opere di Gian Lorenzo ci appaiono ancora così terribilmente vive. Bernini seppe uscire dalle regole, pagandone tutte le conseguenze e facendo leva sul giudizio di un'embrionale opinione pubblica europea per affrancarsi dall'arbitrio dei principi. Le sue mani e la sua testa divennero l'unica misura che accettava, e il suo atelier fu insieme luogo della creazione e teatro della libertà. Ma come dimostrare questa tesi? Nelle sue biografie "ufficiali" affiorano cospicue smagliature, fra loro coerenti, che questo libro individua e allarga, una per una. Costruendo così per le opere di Bernini una nuova chiave di lettura.
Nell'estate del 1914 furono in tanti a salutare con gioia l'inizio della Prima guerra mondiale; si pensava che non sarebbe durata a lungo, che sarebbe stata simile ai tanti altri conflitti che avevano coinvolto in passato il continente europeo, che avrebbe anzi avuto un effetto salvifico sulle coscienze: come non ricordare Marinetti che solo qualche anno prima aveva definito la guerra la "sola igiene del mondo"? Nessuno immaginava che alla fine avrebbe coinvolto quasi quaranta paesi, e pochi intuirono che i tempi erano ormai cambiati, che il conflitto sarebbe stato dominato dalla tecnica, da un impiego di mezzi mai visto prima. L'esaltazione fu però di breve durata, seguita ben presto dall'apatia, dall'insofferenza per la noia di lunghe giornate trascorse in trincea senza che nulla accadesse, dalla frustrazione per la "scoperta del vero volto della guerra" ma anche di se stessi. Ed è la parabola che seguono anche i diciannove protagonisti, tutti realmente esistiti, di questo affresco costruito sulla scorta di lettere, diari, articoli di giornale: alcuni di loro sono direttamente coinvolti nel conflitto, la morte li sorprende a Verdun, a Ypres, sulla Somme (è qui che fanno la loro prima apparizione i carri armati), in Russia, nei Dardanelli, sull'Altopiano di Asiago, oppure nell'Atlantico dove ad attenderli sono i micidiali sottomarini tedeschi. Altri invece - come il funzionario ministeriale francese o la giovane studentessa nella Prussia orientale - vivono lontano dalle carneficine ma non sono risparmiati
Questo libro stabilisce un collegamento costante tra la storia della famiglia e la più ampia e drammatica storia della prima metà del Novecento. Finora nessuna storia del XX secolo aveva posto al centro della propria analisi la famiglia né aveva esaminato i momenti chiave della rivoluzione e della dittatura attraverso le lenti della vita familiare. Ginsborg attinge a un repertorio sterminato di fonti e letture per mettere insieme immagini e storie che fotografano le dinamiche familiari e il loro contesto sociale e politico. Coniugando storia sociale, narrazione biografica e storia della cultura, Ginsborg concentra la sua indagine comparativa su cinque paesi: la Russia, nel passaggio dall'Impero allo Stato sovietico; la Turchia, dall'Impero ottomano alla Repubblica; l'Italia fascista; la Spagna della rivoluzione civile; e la Germania, da Weimar allo Stato nazista. Costruendo ogni capitolo come una piccola biografia di un personaggio emblematico - da Halide Edib e Margarita Nelken, ad Aleksandra Kollontaj; dal gerarca nazista Goebbels al futurista Marinetti e al comunista Gramsci - lascia intravedere sullo sfondo la vita familiare degli stessi grandi dittatori - Stalin e Hitler ma anche Atatürk, Franco e Mussolini. Emerge un quadro in cui le risorse delle famiglie affetti, rete, solidarietà, segreti e lealtà - si fanno sentire anche quando il loro mondo sembra totalmente schiacciato dai regimi dittatoriali.
L'opera, di lettura affascinante, ha innovato profondamente la nostra visione della vita europea e mediterranea nel Cinquecento: allo schema tradizionale della crisi sopraggiunta come conseguenza delle nuove vie di navigazione atlantica, Braudel contrapponeva - con la forza di convinzione che derivava da una conoscenza precisa di fonti sterminate - la visione di un mondo ancora pieno di traffici e di contrasti, di tensioni e scambi, di cui erano partecipi, direttamente o indirettamente, non solo i paesi rivieraschi, ma anche Stati lontani. In altre parole, la vitalità dell'area mediterranea risultava dirompente ed essenziale, per le civiltà del vecchio mondo, ancora per tutto il XVI secolo. Lo studio della storia visto come connessione di tre momenti diversi - la storia di lento svolgimento e di lente trasformazioni, secolari o addirittura millenarie, la storia ritmata in cicli piú brevi, ma pur sempre pluridecennali, e infine la storia «secondo la dimensione dell'individuo» - mostrava, attraverso questa indagine, la sua efficacia e il suo valore di strumento per l'analisi delle grandi età del passato.
Sono dieci anni ormai che Adriano Prosperi, uno dei piú importanti storici italiani, interviene sul quotidiano «la Repubblica»; e, se al principio si è mantenuto vicino alla sua area di competenza, ben presto il suo sguardo lucido e la sua passione civile lo hanno fatto diventare un editorialista vero e proprio, capace di affrontare in prima pagina l'attualità, i fatti di cronaca, gli spunti della politica. In questi dieci anni la voce di Adriano Prosperi ha assunto una precisa fisionomia: non più solo lo storico, ma anche il testimone critico di molti, troppi, momenti di difficoltà per l'etica pubblica del nostro Paese, per la laicità del nostro Stato, per i valori civici su cui si dovrebbe fondare la nostra convivenza. I suoi articoli si leggono, quindi, come le pagine di un diario civile, raccolto qui per la prima volta da Michele Battini e Michele Olivari, in cui la competenza storica fornisce la materia per l'argomentazione, il rigore del metodo tempera il calore dell'indignazione e il passo misurato dello studioso esalta la qualità etica della denuncia dell'intellettuale.
Che cosa è stato il sacco di Roma compiuto nel 1527 dai lanzichenecchi e dalle altre truppe dell'imperatore Carlo V? La storiografia lo ha spesso descritto come un evento traumatico per la storia di Roma e della penisola italiana, ma non come una vera e propria frattura, in diversi casi un semplice riferimento cronologico utile, al piú, a scandire i tempi della periodizzazione storica. Con questo libro Chastel si contrappose polemicamente a tale orientamento e riaffermò con forza, arricchendola di nuovi contenuti, l'interpretazione del sacco come frattura, data dai grandi storici del passato: da Guicciardini a Burckhardt. Una frattura che non risparmiò gli equilibri politici e sociali di Roma, ma si ripercosse soprattutto sulle tradizioni, sui costumi, sull'immagine e sulla spiritualità della capitale del mondo cristiano, spezzando letteralmente in due il corso della vita romana.
«Testimone del vissuto»: cosí si presenta Primo Levi in questa importante intervista del 1983 (tradotta in molti paesi tra cui Francia, Grecia, Argentina). In un intenso dialogo con Anna Bravo e Federico Cereja, Levi racconta il retromondo minuto dei gesti quotidiani ad Auschwitz, i volti e le storie dei personaggi dei suoi libri. Al centro della conversazione, aperta e variegata, è ciò che egli definisce «il galateo del Lager», i rapporti tra i prigionieri, l'«ottusità» che li aiuta a vivere in quel mondo spaccato in due («noi» e «loro») e dove la morale - quella del prima - non vale piú.
«La storia è come un tessuto variopinto, con figurazioni e ornati irregolari: a volerlo tagliare secondo linee nette, se ne guastano i disegni, se ne scompongono i motivi, col rischio di renderli illeggibili. Cosí, scrivere una storia dell'arte in Europa dal 1300 al 1399 sarebbe un'impresa artificiale, che spezzerebbe assurdamente le carriere di molti artisti (...)».
Michele Tomasi, L'arte del Trecento in Europa
Il Trecento fu un secolo di notevoli cambiamenti nell'arte europea, molti dei quali destinati a un grande avvenire: se il ritratto inteso in senso moderno è in fase embrionale, un nuovo interesse per la natura prepara il terreno alla rappresentazione del paesaggio. La progettazione urbana acquista un'importanza fino ad allora sconosciuta, mentre si fa strada un concetto diverso del mestiere d'artista, da cui scaturirà la nostra idea di genio creatore. Nuovi committenti e acquirenti avanzano sulla scena, richiedendo la realizzazione tanto di oggetti originali quanto di temi inediti. Nuovi centri artistici s'impongono, come Avignone, Barcellona, Praga, Vienna.
Abbracciando in uno sguardo unitario buona parte del continente europeo, questo volume offre alcune chiavi di lettura per decifrare i capolavori di un'epoca di sfolgorante varietà, prestando particolare attenzione agli uomini e alle donne che hanno fabbricato, usato, osservato le opere d'arte. Artisti ancor oggi celebri, come Giotto o Giovanni Pisano, o straordinari maestri ormai anonimi, sovrani o suore, vescovi o mercanti vollero gli edifici, le sculture, i dipinti, ma anche gli oggetti preziosi - arazzi e ricami, avori e oreficerie - che ancora ci parlano dei loro bisogni, desideri, paure e convincimenti, continuando a suscitare la nostra ammirazione.
Nascosta dalla città antica e dalle volute dell'età barocca, la Roma medievale soffre da troppo tempo di un immeritato discredito. A partire dal Rinascimento l'immagine più diffusa era quella di una città in abbandono, disseminata di rovine. In molti si compiacevano nel sottolineare l'avidità, la meschinità e l'ignoranza dei romani del Medioevo, opponendo i loro vizi alle eroiche virtù dei loro più lontani antenati. La Città eterna e i suoi abitanti, invece, meritano ben altro approccio. La loro storia deve essere ristudiata, per mettersi alla pari con quella dei principali centri urbani dell'Italia comunale: Firenze, Milano o Venezia. E questa la scommessa che Jean-Claude Maire Vigueur ha raccolto scrivendo questo volume, che ci restituisce la Roma, largamente sconosciuta, dei secoli XII XIII e XIV. In questa sintesi, non priva di spirito, si snoda il racconto dell'intera esperienza comunale romana. Racconto in cui appaiono, fianco a fianco, baroni e capipopolo, grandi proprietari terrieri e semplici braccianti, ricchi mercanti, cardinali e artisti, in uno scenario che alterna antiche vestigia architettoniche e campanili medievali, sontuose cerimonie religiose e sfrenate feste di quartiere.
Due intellettuali, diversi per formazione, studi e storie culturali, ma uniti dalla volontà di capire, in un dialogo sul loro Paese. Ora che l'ondata di celebrazioni per l'anniversario dell'Unità italiana sta per concludersi, si avverte la necessità di un bilancio: dove siamo esattamente, e in che modo e perché ci siamo arrivati? Solo così potremo renderci conto di come sia forte e realistico il rischio di un declino già altre volte sperimentato nella nostra storia, e quanto sia ancora possibile mantenere aperte le porte del nostro futuro.

