
L'Inquisizione romana di età moderna fu un tribunale della fede la cui giurisdizione si estese potenzialmente su tutta la cattolicità. Il suo funzionamento ha affascinato studiosi delle più svariate discipline: nella storia della lotta contro l'eresia s'intrecciano temi di carattere religioso, filosofico, sociologico, politico ed economico. Il volume di Germano Maifreda è dedicato all'esame di quest'ultimo aspetto, attraverso la ricostruzione di alcuni retroscena inattesi. I pontefici, dopo la fondazione della Congregazione del Sant'Officio (1542), predisposero un'organizzazione territoriale largamente autosufficiente, in grado di garantire per oltre due secoli il funzionamento di un esteso sistema giudiziario. Grazie anche alla scoperta di numerosi documenti inediti, tratti dagli Archivi vaticani, l'autore ricostruisce la dinamica di molti processi, dalla denuncia all'irrogazione della pena, svelando come l'analisi degli incentivi economici determinati dal modello stesso dell'apparato inquisitoriale possa oggi rivelarsi essenziale per comprendere le forme di esercizio della giustizia ecclesiastica in età moderna. Coniugando un uso preciso delle fonti storiche e una scrittura che ha il passo dell'investigazione, questo libro apre scenari nuovi nello studio del Sant'Officio e della sua economia intesa, nelle parole di Alfred Marshall, come impegno "negli affari ordinari della vita".
La prima guerra mondiale è stata il tragico atto di nascita del XX secolo. In genere le opere sulla Grande Guerra, perfino quelle che si vogliono "globali", limitano l'indagine al fronte occidentale; questo volume si presenta invece come una storia complessiva del conflitto e delle sue conseguenze, che dà finalmente spazio a ogni teatro di guerra, comprendendo il fronte orientale e balcanico e gli interventi nei mari e in ambito extraeuropeo (in Asia orientale, nel Pacifico, in Africa), ma soprattutto i fronti interni, con l'ampio coinvolgimento delle popolazioni civili dei paesi belligeranti. Al lettore viene così offerto un quadro approfondito, utile alla comprensione di un fenomeno radicale e di lunga durata, e che oltre all'ambito militare, politico e diplomatico esamina le trasformazioni provocate dalla guerra nei comportamenti sociali, nei rapporti di lavoro o tra i sessi, nel commercio e nella finanza internazionale. Un racconto dalle molte sfaccettature, integrato con cronologie, testimonianze, documenti storici, approfondimenti e illustrato con numerose mappe e fotografie.
Filippo Baldinucci, gran conoscitore di pitture e di disegni, come tale fiduciario della corte medicea, in particolare del cardinal Leopoldo, e in relazione con esperti di varie nazioni, fu l'autore del primo libro dedicato a una storia dell'incisione e ai suoi principali protagonisti. Le stampe appartenenti alle arti figurative, e molte firmate da nomi illustri sin dalla fine del Quattrocento, erano oggetto di interesse in tutto il mondo colto, ma due secoli dopo non avevano ancora avuto adeguata trattazione storica e critica, soprattutto era stato trascurato il ruolo e l'importanza di singoli incisori, e non sufficientemente indicati e commentati i protagonisti. Al proemio nel quale traccia i primordi della vicenda dell'incisione, con apertura assai oltre i confini della sua Toscana, Baldinucci fa seguire diciotto biografie di artisti, pittori-incisori, o semplicemente incisori, da Dürer a Callot, da Luca di Leida a Stefano Della Bella, da Marcantonio a Rembrandt, nelle quali, oltre la narrazione delle vicende personali e artistiche dei singoli, analizza la varietà delle tipologie delle stampe, le tecniche incisorie, le tematiche, le finalità, le committenze, dal che ne esce un quadro pressoché completo dello stato di quell'arte nel 1686, e anche, quel che giustifica il titolo del libro, "Cominciamento e progresso", l'idea di uno svolgimento progressivo del linguaggio dell'incisione, nel senso di "una bella gara fra il bulino e il pennello".
"A differenza di quanto generalmente si creda, gli uomini del Medioevo sapevano osservare assai bene la fauna e la flora, ma non pensavano affatto che ciò avesse un rapporto con il sapere, né che potesse condurre alla verità. Quest'ultima non rientra nel campo della fisica, ma della metafisica: il reale è una cosa, il vero un'altra, diversa. Allo stesso modo, artisti e illustratori sarebbero stati perfettamente in grado di raffigurare gli animali in maniera realistica, eppure iniziarono a farlo solo al termine del Medioevo. Dal loro punto di vista, infatti, le rappresentazioni convenzionali - quelle che si vedono nei bestiari miniati - erano più importanti e veritiere di quelle naturalistiche. Per la cultura medievale, preciso non significa vero. Del resto, cos'è una rappresentazione realistica se non una forma di rappresentazione convenzionale come tante altre? Non è radicalmente diversa né costituisce un progresso. Se non si cogliesse questo aspetto, non si capirebbe niente né dell'arte medievale né della storia delle immagini. Nell'immagine tutto è convenzione, compreso il 'realismo'".
Il 18 ottobre 1990 Giulio Andreotti, confermando i sospetti che circolavano da tempo, ammise per la prima volta davanti alla Commissione Stragi l'esistenza di un'organizzazione segreta chiamata Gladio, la cosiddetta Stay Behind italiana. Le parole di Andreotti ebbero un'eco fragorosa nell'opinione pubblica. Per mesi la vicenda di Gladio riempì le pagine dei giornali alimentando innumerevoli dibattiti e veementi scontri politici. Ma Gladio, nata nel 1956, era solo una porzione di un sistema di sicurezza ben più complesso e articolato, una rete anticomunista che operava fin dall'estate del 1945. Oggi, a distanza d'anni dalla rivelazione dell'esistenza della struttura e dalla definitiva archiviazione delle inchieste che coinvolsero alcuni dei suoi membri, l'esaurirsi della polemica politica rende possibile una riflessione ponderata sul caso Gladio, la cui vicenda non può essere letta in un'ottica esclusivamente giudiziaria e senza tener conto del contesto storico e politico nel quale quell'organizzazione venne creata. Giacomo Pacini, a partire dall'analisi di un'enorme mole di documenti in gran parte inediti, ricostruisce con estremo rigore la storia delle strutture paramilitari segrete che hanno operato in Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Novanta del Novecento. Ed è una storia finora mai raccontata, che attraversa alcune delle pagine più oscure della nostra biografia nazionale.
Un libro che riattraversa «con occhi di bambino» le tragiche vicende della persecuzione antiebraica.
La storia della persecuzione antiebraica attuata dal fascismo tra il 1938 e il 1945 ci è ormai ben nota, ma raramente ci si è soffermati a riflettere su cosa abbiano significato quei tragici sette anni per i bambini italiani. Per i bambini «ariani», cresciuti nell'educazione al razzismo e alla guerra, e, soprattutto, per i bambini ebrei, allontanati da scuola, testimoni impotenti della progressiva emarginazione sociale e lavorativa dei genitori, quando non della distruzione e dell'eliminazione fisica della propria famiglia. Da questa prospettiva - peculiare, e tuttavia indispensabile per comprendere l'essenza di una persecuzione razziale, dunque fondata propriamente sulla nascita - la storia che abbiamo alle spalle assume nuovi significati e stratificazioni. Il regime fascista iniziò ad attuare la discriminazione proprio dal mondo della scuola, e i bambini ebrei - prima espulsi, poi separati, esclusi ed infine internati - furono vittime tra le vittime. Una parte di essi fu poi deportata, gli altri dovettero fuggire e nascondersi per molti mesi. Bruno Maida ne ripercorre la storia attraverso i progressivi stadi della persecuzione, attento a cogliere non solo lo sguardo che l'infanzia ebbe di fronte al turbinio dei fatti, ma la portata politica di una ferita impossibile da sanare, se non, forse, in un profondo tentativo di comprensione. Sapientemente in bilico tra due registri - narrativo e storiografico - il libro si colloca in un filone d'indagine che vede crescere a livello internazionale l'interesse verso la storia dell'infanzia nel Novecento.
Definiamo la nostra epoca moderna, ma cosa significa "moderna" e come può una riflessione sulla "modernità" aiutarci a capire il mondo contemporaneo? Ecco le principali domande alle quali Peter Wagner intende rispondere con questo suo sintetico ed esemplare saggio che riconsidera il problema delle origini occidentali della modernità e delle sue pretese di aver inaugurato una nuova e migliore epoca nella storia dell'umanità. Le rivendicazioni e le aspettative tipiche della modernità sono ormai largamente condivise, ma nel corso della loro realizzazione e diffusione hanno subito radicali trasformazioni. Nella sua coinvolgente analisi, Wagner esamina alcune questioni fondamentali: la modernità si è basata sulla speranza della libertà e della ragione, ma ha creato le istituzioni del capitalismo contemporaneo e della democrazia. Che rapporto intercorre tra la libertà del cittadino e la libertà del venditore e del consumatore oggi? Cosa implicano le varie forme di critica al capitalismo e alla democrazia per la sostenibilità della modernità? A prescindere da tutte le sfumature e le ambiguità, il nostro concetto di modernità è comunque inestricabilmente legato alla storia dell'Europa e dell'Occidente. Come possiamo paragonare forme diverse di modernità in modo "simmetrico", imparziale e non eurocentrico? Come possiamo sviluppare una sociologia-mondo della modernità?
Achille, Agamennone, Diomede, Patroclo, Odisseo, Ettore... nell'Iliade e nell'Odissea, gli eroi leggendari che hanno combattuto le battaglie più dure e vinto i nemici più agguerriti non temono di mostrarsi in lacrime. Per disperazione, dolore, rabbia, amore, nostalgia, essi piangono a viso aperto. Senza risparmiarsi. Senza mai provare vergogna. Singhiozzano, gridano, tremano, piangono fino a soffrire la fame, piangono per saziarsi del pianto. Perché in quelle lacrime, come racconta Matteo Nucci in un libro che è viaggio, studio e romanzo, risiede il germe di una passione indomabile. Soltanto gli uomini che hanno la forza di non nascondere le proprie debolezze possono vincere il nemico più odioso: la paura della propria mortalità.
È il settembre del 1938, a Praga l'esercito si mobilita per far fronte all'incombente minaccia nazista. Helga è una bambina e non sa cosa tutto ciò significhi, ma ogni giorno la Storia entra nella sua vita con la violenza di uno scarpone che sfonda una porta: il padre perde il lavoro, lei viene allontanata da scuola, la obbligano a portare sui vestiti una stella gialla pesante come una colpa. Helga non sa, però sente: sente i boati dei bombardamenti, sente i discorsi politici alla radio, sente le voci che gridano di correre al rifugio. E lei corre, e intanto scrive, disegna, racconta gli obblighi e i divieti, la gente che sparisce. Finché tocca anche a lei e alla sua famiglia. Prima a Terezìn, poi ad Auschwitz-Birkenau, a Freiberg e infine a Mauthausen. La bambina adesso impara: impara cos'è un campo di concentramento, cos'è un campo di sterminio, le conseguenze ultime dell'essere ebrea sotto il Reich di Hitler. Impara cosa può diventare un essere umano. Anche mentre la sua infanzia si strappa per sempre, Helga non smette di osservare e raccontare: il diario della prigionia che oggi ci consegna è insieme un documento straordinario e un colpo al cuore. Perché nel tratto lieve dei disegni, nell'essenzialità delle parole, ci accorgiamo che neppure l'innocenza e la fantasia di una bambina possono nascondere l'orrore. Eppure, in un modo straziante e misterioso, il suo sguardo ferito non si fa piegare e riesce a illuminare la tenebra.
Un libro popolato dai protagonisti che nel corso dei secoli, da Vasari ai nostri giorni, in Europa come negli Stati Uniti, hanno contribuito alla costruzione di una nuova disciplina: la storiografia artistica nei suoi molteplici indirizzi di ricerca. Emergono i profili dei tanti metodi messi in campo per analizzare e interpretare le opere, dall'attribuzione all'iconografia e all'iconologia, dalla critica formalista alla storia sociale dell'arte, dalla ricerca ancorata ai documenti a quella ispirata alla storia delle idee, delle religioni, della cultura, fino all'assunzione di modelli attenti all'antropologia come alle scienze naturali. Un volume che mancava ma di cui si avvertiva la necessità perché, tenendo presente che il mestiere dello storico dell'arte è differente da quello del filosofo di estetica e del teorico, sono stati riannodati gli aspetti del lavoro più squisitamente storiografico con tutte quelle sollecitazioni attivate dagli stessi oggetti di studio. Le autrici hanno ricostruito infatti la proficua simbiosi tra la scrittura e il lavoro sul campo nei musei, nei territori, nel mercato, nelle collezioni private, nelle esposizioni, nelle scelte di tutela e di restauro. Tutte attività che hanno concorso a valorizzare, conservare e trasmettere alle generazioni a venire la ricchezza di un patrimonio identitario.
Nell'immaginario occidentale, il Tibet è associato al volto sorridente del Dalai Lama, a film come "Sette anni in Tibet", o alla tragedia dell'occupazione cinese consumatasi a partire dalla metà del XX secolo. Questo paese remoto e misterioso viene spesso percepito come il luogo per antonomasia della pace e dell'introspezione, della ricerca interiore. Tuttavia, talune di queste visioni, dove la storia si intreccia saldamente al mito, possono diventare una gabbia per i tibetani, e rischiano di nuocere alla conoscenza sia della loro cultura, e alla sua divulgazione, sia del loro travagliato passato, segnato da numerose invasioni, guerre e dominazioni straniere. Questo volume ricostruisce i processi storici, politici e sociali che hanno modellato nel corso dei secoli la complessa e affascinante cultura tibetana, e si rivolge soprattutto a un pubblico non specialista ma curioso di conoscere una delle civiltà più suggestive dell'Asia.
Quando Colombe Schneck aspetta il suo primo bambino, la madre Hélène le chiede di chiamarlo Salomé, in ricordo di sua cugina morta durante l'Olocausto. Colombe non sa nulla di questa bambina, il cui nome non è mai stato evocato prima di allora. Ma il figlio che nasce è un maschio, e la questione viene dimenticata. Quando qualche anno più tardi Colombe è di nuovo incinta, un'amica le suggerisce il nome di Salomé e in quel momento le torna alla memoria la strana richiesta di sua madre, che nel frattempo è morta. Inizia cosi una ricerca delle proprie origini che porterà l'autrice dalla Francia in Lituania, negli Stati Uniti e in Israele, e un'inchiesta attraverso segreti e dolorosi non detti famigliari. Mary, la bisnonna dell'autrice, aveva quattro figli: Ginda, Raya, Masa e Nahum. La famiglia era originaria di un piccolo borgo lituano, Panèvezys. Quando Mary e tre dei suoi figli vengono deportati nel ghetto di Kaunas, Ginda, la nonna di Colombe Scneck, si salva perché negli anni Venti aveva deciso di emigrare in Francia. Il fratello e le sorelle di Ginda sopravvivono alla selezione e alla deportazione mentre Mary, i cognati e i loro figli muoiono. Raya e Masa dopo la guerra si risposeranno con altri sopravvissuti all'Olocausto, che avevano a propria volta perso le mogli e i figli. E altri bambini nasceranno. La domanda che nessuno osa porsi è questa: com'è possibile che Salomé, la figlia di sette anni di Raya, e Kalman, il bambino di soli tre anni figlio di Masa, siano morti e le loro madri no?