
"Reinhard Heydrich è forse meno noto al grande pubblico di altri gerarchi nazisti. Ma fu lui il vero architetto del genocidio degli ebrei d'Europa, il progettista principale di una macchina per lo sterminio che continuò a funzionare molto dopo la sua morte, avvenuta nel 1942. Édouard Husson non ha scritto una semplice biografia di Heydrich, ma ha utilizzato la parabola della sua fulminante carriera fino ai vertici delle SS per raccontare un regime intriso di odio razzista e costituito di uomini fanatici, pronti a eseguire e ad anticipare le volontà non sempre esplicite di un capo carismatico. Una ricostruzione magistrale, che affronta in modo innovativo uno dei grandi problemi della storiografia del Novecento: come e quando fu presa la decisione e dato l'ordine che mise in moto l'Olocausto?" Per molto tempo gli storici hanno discusso sui tempi e i modi in cui fu deliberata e organizzata la "soluzione finale". Una scuola di pensiero evidenziava l'antisemitismo violento di Hitler e dei suoi sostenitori fin dagli anni Venti e assegnava un'intenzione genocida al nazismo fin dai suoi inizi. Altri storici mettevano in risalto i cambiamenti della politica nazista nei confronti degli ebrei nel corso degli anni Trenta e poi durante la guerra, sostenendo che alla decisione di mettere in pratica un piano di sterminio totale si arrivò solo nel corso della conferenza di Wannsee, tenutasi nel gennaio del 1942. (Prefazione di Ian Kershaw)
Una delle piú elevate riflessioni sull'affermarsi dei movimenti di massa, sulle classi dirigenti italiane e sulla possibilità della democrazia in Italia.
L'edizione piú ampia e documentata delle «lezioni sul fascismo» che Palmiro Togliatti tenne a Mosca nel 1935.
Il "Corso sugli avversari" è un ciclo di conferenze tenuto da Togliatti a Mosca tra il gennaio e l'aprile 1935, presso una scuola quadri della Terza Internazionale, rivolto soprattutto a giovani comunisti italiani.
Dopo la vittoria nazionalsocialista in Germania, che apriva nuove tensioni nel già fragile equilibrio europeo, e dinanzi alla minaccia di un'ulteriore espansione dei fascismi, il Corso di Togliatti riflette sulle origini italiane del movimento fascista, la crisi liberale, il rapporto tra fascismo e storia d'Italia. In particolare le lezioni si soffermano sull'edificazione del regime mussoliniano in relazione agli sviluppi della società di massa e, allo stesso tempo, sulle opportunità di lotta che, non solo in Italia, si aprivano sulla base delle prospettive antifasciste unitarie che stavano maturando in Europa e che anche l'Internazionale stava facendo proprie.
Questa edizione, la piú completa in base alla documentazione disponibile, comprende anche due lezioni rinvenute negli anni Novanta ed è corredata da apparati di note, da quanto reperito del materiale didattico predisposto dallo stesso Togliatti per il Corso e da un saggio storico-critico del curatore.
"In passato si potevano accusare gli storici di voler conoscere soltanto le gesta dei re. Oggi, certo, non è più così. Sempre più essi si volgono verso ciò che i loro predecessori avevano taciuto, scartato o semplicemente ignorato. "Chi costruì Tebe dalle sette porte?" chiedeva già il "lettore operaio" di Brecht. Le fonti non ci dicono niente di quegli anonimi muratori: ma la domanda conserva tutto il suo peso". Carlo Ginzburg analizza la visione del mondo di un mugnaio friulano mandato al rogo dall'Inquisizione alla fine del Cinquecento: non si tratta di una dissertazione erudita, di un'arida ricerca dell'inedito o del sensazionale. L'irriducibilità a schemi noti di una parte dei discorsi di Menocchio fa intravedere uno strato ancora non scandagliato di credenze popolari, di oscure mitologie contadine. Ma ciò che rende più complicato il caso di Menocchio è il fatto che questi oscuri elementi popolari sono innestati in un complesso di idee estremamente chiaro e conseguente, che vanno dal radicalismo religioso a un naturalismo scientifico, di cui è simbolo indicativo il paragone che il mugnaio istituisce fra la terra abitata e il formaggio pieno di vermi. Una cosmogonia popolare che apre la porta ad aspirazioni utopistiche di rinnovamento sociale, ad attese millenarie di giustizia. Attraverso la sua brillante, paziente ricerca, Ginzburg offre un frammento perduto del passato, capace d'inserirsi "in una sottile, contorta, ma ben netta linea di sviluppo che arriva fino a noi".
Stampato per la prima volta nel 1955 in migliaia di copie e tradotto in moltissime lingue, I miei sette figli è un documento fondamentale dell'epopea partigiana italiana. Mai nella storia di un popolo, neppure nelle sue leggende, si era avuto il sacrificio di sette fratelli caduti nello stesso istante e per la stessa causa.
La vicenda di Alcide Cervi e dei suoi sette figli è quella di una famiglia contadina che guarda avanti, piú avanti degli altri, e comprende come per rendere piú produttiva la terra sia necessario appropriarsi di tecniche piú moderne. Ma è anche la vicenda di una famiglia partigiana che, grazie a una conquistata coscienza culturale e politica, intraprende una tenace lotta contro le ingiustizie sociali e il regime fascista fino alla scelta estrema di imbracciare le armi. Intensa, ma purtroppo troppo breve, la Resistenza dei Cervi si conclude il 28 dicembre 1943, quando i sette fratelli vengono trascinati di fronte al plotone di esecuzione. Sopravvissuto allo sterminio dei figli, il vecchio Alcide torna a coltivare di nuovo la terra con le donne e i nipoti superstiti, e ci lascia, con la saggezza che viene dal dolore e da una grande fede nella vita, un'indimenticabile testimonianza dell'inesauribile forza dei valori della Resistenza.
Questa edizione contiene una introduzione di Luciano Casali che, oltre a contestualizzare la storia della famiglia Cervi, racconta soprattutto le vicende legate alla nascita del libro e agli interventi apportati alla seconda edizione del 1971.
«La storia dell'Iran è piena di violenza e di drammi: invasioni, conquistatori, battaglie e rivoluzioni. Poiché l'Iran ha una storia piú lunga della maggior parte degli altri paesi, ed è piú grande di molti di essi, questa drammaticità è maggiore. Ma la storia dell'Iran è molto di piú: ci sono religioni, influssi, movimenti intellettuali e idee che hanno cambiato le cose all'interno dell'Iran, ma anche al di fuori di esso, e nel mondo intero. Oggi l'Iran attira ancora l'attenzione, e la nuova situazione suscita molte domande: l'Iran è un aggressore o una vittima? L'Iran è tradizionalmente espansionista o passivo e sulla difensiva? Lo sciismo iraniano è quietista, o violento, rivoluzionario, millenarista? Solo la storia può dare risposte a queste domande. Quella iraniana è una delle piú antiche civiltà del mondo, e sin dall'inizio è stata tra le piú profonde e complesse. Ci sono aspetti della civiltà iraniana che, in un modo o nell'altro, hanno influenzato quasi ogni essere umano nel mondo. Ma spesso non si sa o si è dimenticato come questo sia avvenuto, e si ignora il pieno significato di questi influssi».
In un momento in cui l'Iran è tornato a essere oggetto di attenzione politica da parte di tutto il mondo, questo libro costituisce una guida ideale per comprendere un paese di enorme complessità.
L'8 ottobre 1931 Mussolini impone ai professori universitari il giuramento di fedeltà al fascismo. Su un migliaio di ordinari soltanto dodici si rifiutano di piegarsi al duce, perdendo la cattedra e, subendo, nell'Italia massicciamente sottomessa al regime, un raggelante isolamento. Dodici uomini, differenti per origine, carattere, modi di pensare, attitudini sociali; in quell'autunno del 1931 impartiscono la piú magistrale delle lezioni insegnando che dire no è una scelta dovuta prima di tutto a se stessi.
Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra - questi i nomi di coloro che compiono un gesto essenziale in nome di quegli «ideali di libertà, dignità e coerenza interiore» nei quali erano cresciuti.
Preferirei di no è un libro che, con rigore e affetto, ripercorre il tragitto di questi isolati viaggiatori che scelsero la terra del no e attraverso l'intreccio delle loro vite riscopre mondi di umanità e semplicità che sanno ancora oggi parlare con forza e efficacia.
Nel Duecento, il secolo anticipato da Nicolas de Verdun e chiuso dalla maturità celebrata di Giotto, il secolo dell'apogeo gotico e della "maniera greca", l'arte conosce i cambiamenti che collegano il mondo romanico al primo manifestarsi dei principi dell'Umanesimo, ovvero discute e rinnega le forme, le valenze e le gerarchie che erano valse per tutto il Medioevo. L'arte inizia a rappresentare i significati e il mondo sensibile con mezzi propri e autonomi, per nulla ancillari della parola o dei testi; pone l'uomo al centro dei suoi interessi come oggetto della figurazione e quindi si avvale delle sue facoltà di osservatore individuale; diviene uno strumento di conoscenza e di ricerca, unitamente all'affermarsi di una nuova valenza del disegno e all'acquisizione di un inedito statuto intellettuale da parte dell'artista. Nel Duecento l'arte diventa "moderna" per come generalmente la intendiamo. Il libro propone una lettura organica dei fenomeni che determinarono questi rivolgimenti, a partire dall'analisi circostanziata delle opere ed entro una prospettiva spazio-temporale unitaria delle vicende peninsulari ed europee, che rifugge ogni distinzione pregiudiziale o artatamente proiettiva.
Il 150° anniversario della nazione non dovrebbe essere solo l'occasione per sventolare bandiere tricolori o indulgere nella retorica: richiede invece un ripensamento profondo sulla storia d'Italia e sul contributo del Paese al futuro del mondo moderno. A tal fine si rivisitano le grandi figure del Risorgimento (da Cattaneo a Cavour, da Manin a Pisacane, da Mazzini a Garibaldi) cosí che le loro riflessioni si mescolano in presa diretta alle nostre. Per «salvare» l'Italia, Paul Ginsborg fa affidamento su alcuni elementi fragili ma costanti presenti nel nostro passato: l'esperienza dell'autogoverno urbano, l'europeismo, le aspirazioni egualitarie e l'ideale della mitezza. Fondamenti dotati della carica utopica necessaria per creare una patria diversa.
La rivendicazione della Resistenza antifascista si è ridotta per decenni al dibattito politico sulla guerra partigiana. Negli ultimi anni registriamo il recupero di una dimensione più ampia. Contiamo la resistenza contro i tedeschi delle forze armate all'8 settembre. Poi la guerra partigiana e la deportazione politica e razziale nei lager di morte. La partecipazione delle forze armate nazionali alla campagna anglo-americana in Italia. E infine la resistenza degli Imi nei lager tedeschi: le centinaia di migliaia di militari che invece della guerra nazifascista scelsero e pagarono la fedeltà alle stellette della patria. Le stellette a cinque punte sul bavero della divisa (piccoli pezzi di metallo povero o un quadratino di stoffa) sono il simbolo tradizionale dei militari italiani. La fedeltà alle stellette fu la motivazione più comune e diretta della grande maggioranza dei 650000 militari italiani che preferirono la prigionia nei lager tedeschi al passaggio dalla parte nazifascista. Questi 650000 prigionieri erano degli sconfitti che avevano vissuto il fallimento del regime fascista, la misera fine delle guerre di Mussolini, lo sfacelo delle forze armate all'8 settembre. Tutti avevano ragione di sentirsi traditi dal re e da Badoglio, che li avevano abbandonati senza ordini agli attacchi tedeschi. Ciò nonostante, una grande maggioranza di questa massa di sbandati preferì la fedeltà alle stellette e la prigionia nei lager. (Dalla prefazione di Giorgio Rochat)
A mezzo secolo dalla pubblicazione della classica "Storia delle crociate" di Steven Runciman, "Le guerre di Dio" di Christopher Tyerman è oggi, per la meticolosità e l'approccio innovativo, il testo di riferimento sull'argomento. Non solo in quanto prende in considerazione le acquisizioni più recenti della ricerca storica, ma anche perché fa i conti con una mutata sensibilità culturale. L'autore, medievista di Oxford, colloca innanzitutto gli eventi in una cornice più vasta e realistica, che tiene conto di tutte le forze che portarono alle crociate: sia quelle politiche e religiose, sia quelle culturali, economiche, sociali, demografiche. Dalla pressione araba in Spagna, ai movimenti ereticali in Francia, alle sacche di paganesimo nei paesi baltici: per la prima volta in maniera tanto esaustiva, le crociate vengono viste come l'evento globale che furono, un qualcosa che va ben al di là delle campagne militari in Terrasanta. Una vera e propria visione del mondo, che ha definito la mentalità europea tra l'anno Mille e la" scoperta" dell'America. Tyerman porta alla luce l'intreccio di aggressività e paranoia, utopia e miopia che si materializzò nelle guerre (in Medio Oriente o nel "fronte interno", contro i movimenti ereticali), raccontando le storie degli individui che vi presero parte, dai personaggi celebri a quelli che nessuna cronaca riteneva degni di riportare ma che ugualmente contribuiscono a questo grandioso, paradossale affresco storico.
La Cina del ventunesimo secolo porta con sé un bagaglio fatto di successi ma anche di problemi. Già in questo primo decennio le «specificità cinesi» sono spesso emerse con forza, lasciando intravedere prove di futuro che sono - e probabilmente saranno - assai distanti dalla nostra esperienza storica. Ma insieme la potenza cinese si trova a misurarsi con sfide di natura mondiale: lo sviluppo e le sue compatibilità, i nodi sociali, l'unità e la diversità dei territori che la compongono, le risposte - propositive ma anche difensive - rispetto alla globalizzazione. Cosí da prefigurare il disegno contraddittorio e aperto della Cina della «quarta generazione» e oltre.
Il modernismo italiano è stato oggetto di molti studi, ma l'interesse per quel movimento che ha rappresentato, forse, la piú profonda crisi del cattolicesimo contemporaneo non si è mai sopito. L'apertura stabilita nel 1998 degli archivi della Congregazione per la dottrina della fede, il nuovo nome assunto nel 1965 dall'antica Congregazione del Sant'Offizio, è stata di grande importanza per gli studi e ha permesso a Guido Verucci di indagare l'aspetto rimasto forse piú in ombra della storia del modernismo: la sua repressione da parte della Chiesa, perseguita con attenzione e rigore lungo almeno quattro papati e ben piú di un trentennio.
Il deliberato tentativo da parte dell'istituzione ecclesiastica di opporsi alla marea montante delle nuove idee, storiche e scientifiche, si tradusse nel controllo e nella censura di centinaia di sacerdoti e intellettuali cattolici, uno sforzo repressivo in cui non mancarono eccessi e ingiustizie, ma che non fece che rimandare quella resa dei conti con la contemporaneità che contrassegna la storia novecentesca della Chiesa cattolica.
L'Italia e la Francia sono stati i paesi in cui maggiore fu la diffusione del modernismo. Ma forse l'Italia è stato quello in cui lo scontro fu piú aspro. Un grande scontro fra la Chiesa, i papi, il Sant'Offizio da una parte, e qualche migliaio forse di sacerdoti e di laici dall'altra.
Uno scontro impari, perché davanti a una Chiesa enormemente rafforzatasi nel corso dell'Ottocento, dotata di una naturale, sostanziale compattezza, non vi era un compatto movimento modernista, un intento comune di complessiva riforma religiosa, ma essenzialmente, e soltanto, vari e diversi tentativi, alcuni piú moderati, altri piú radicali, di proporre e di realizzare un cristianesimo e un cattolicesimo che tenessero conto di quelli che apparivano a molti i risultati della scienza storica moderna. Uno scontro impari anche per la capacità di ricatto dell'istituzione ecclesiastica, sia sul piano dottrinale e religioso, con avvertimenti, minacce, dimissionamenti, sia sul piano economico, con il controllo della congrua.
Ma, come scriveva Giorgio Levi Della Vida a proposito del modernismo, «se la condanna spietata del 1907 lo abbia distrutto per sempre, oppure, come il seme dell'inno di Prudenzio, sia morto e sia stato sepolto per rinascere, è, ovviamente, un'altra storia».

