
"La puntuale ricostruzione di Pietro Panzarino si snoda attraverso una serie di vicende apparentemente minori. L'autore segue i discorsi e le scelte di Aldo Moro, ripercorrendo la cronaca politica della cosiddetta Prima Repubblica, dal 1958 al 1968. Il libro di Panzarino costituisce pertanto un'eccezione, in una singolare povertà di saggi storici dedicati alla lunga vicenda dell'Italia repubblicana dal 1948 al 1989. E un'eccezione decisamente positiva, che merita attenzione perché controcorrente rispetto a una 'damnatio memoriae' che rivela anzitutto incapacità di confronto critico con il passato." (dalla presentazione di Agostino Giovagnoli)
Qui si raccontano storie che si sono svolte tra il 1954 e il 1965 nel cuore di Roma, tra piazza Navona e castel Sant'Angelo. Storie di artigiani e "stracciaroli", preti e assistenti sociali, osti e maestri di scuola. E di una famiglia povera come tante: un padre imbianchino, una madre sballottata dagli eventi, una bambina che sogna svezzando i fratellini, la realtà che incombe. Attraverso gli occhi dei fanciulli rivive un paesaggio di edifici cadenti, muri scrostati, vicoli umidi e maleodoranti. Un mondo misero dove la speranza è fede religiosa, l'assistenza è opera di carità. Ma in pochi anni molte cose cambiano: arrivano la Tv, la plastica, l'automobile per (quasi) tutti. A via dei Coronari esplode la febbre dell'antiquariato. Spuntano decine di negozi di mobili antichi, e altrettante botteghe di restauratori. Le chiese cominciano a svuotarsi, i vecchi abitanti emigrano nei quartieri moderni, quelli con l'acqua calda nelle case. È la società dei consumi. Tutto questo è raccontato miscelando storie orali, ricerche sui giornali, documenti originali, frammenti di antiche emozioni. Ne è venuto fuori qualcosa che non è romanzo né saggio né semplice cronaca. È, semplicemente, l'eco della vita di un popolo che non c'è più.
Il Sonderkommando, la squadra speciale di detenuti ebrei obbligati a compiere il loro lavoro all'interno delle camere a gas e dei crematori di Auschwitz-Birkenau, ritrova con Salmen Gradowski il suo maggiore testimone. Scritto molto probabilmente nella primavera del 1944, questo diario è a tutt'oggi l'unico documento che racconta il cuore della terribile esperienza di sterminio degli ebrei all'interno dei Vernichtungslager tedeschi destinati a distruggere l'intero popolo ebraico dell'Europa.
Cosa mangiavano abitualmente i Greci, i Romani, gli Etruschi? Qual era l'alimentazione dei meno abbienti e in cosa differiva da quella dei ricchi? Come si svolgeva un banchetto in una domus romana? A queste e altre domande si troverà risposta in questo catalogo, frutto di un approfondito lavoro di ricerca durato anni. Assieme alle abitudini alimentari, alle ricette e alle leccornie di un tempo vengono considerati aspetti socio-economici, quali l'agricoltura e la coltivazione, la vita di locali pubblici, taverne e altro, l'arte e la musica che allietavano e accompagnavano il pasto, l'arredo di cucine e sale da banchetti.
Perché ancora oggi in Italia stenta ad affermarsi una cultura politica riformista? Per quale motivo persistono, tanto a destra quanto a sinistra, consistenti tracce di populismo e di estremismo? Perché abbiamo avuto il più grande Partito comunista dell'Occidente e non è riuscita a mettere radici una solida socialdemocrazia di tipo europeo? E su quale terreno affonda le radici il terrorismo, da noi così virulento? Il tentativo di rispondere a queste domande, più che mai attuali, non può prescindere da un'analisi della storia del nostro Paese che ponga al centro il mito della rivoluzione. Un mito non soltanto italiano, ma che in Italia si è dimostrato particolarmente vitale e incisivo. Un'idea potente e trasversale, fonte allo stesso tempo di grandi speranze e di luttuose tragedie: la patologia di un secolo, il Novecento, segnato da guerre e totalitarismi. In questo libro Paolo Buchignani traccia un percorso che, dal Risorgimento agli anni di piombo, mostra la fortuna e la longevità della rivoluzione: «tradita», «incompiuta», via via corredata da varie denominazioni, così seducente e popolare da essere stata per tanto tempo, più o meno consapevolmente e strumentalmente, abbracciata anche da coloro che rivoluzionari non erano. Emerge con forza come, al di là della volontà di uomini, partiti, élite intellettuali, spesso mossi da sincere intenzioni di rinnovamento e di giustizia sociale, il richiamo alla rivoluzione abbia avuto esiti deleteri e abbia costituito un ostacolo rispetto all'affermazione di una cultura politica autenticamente democratica e riformista. Una cultura di cui, specialmente in questa fase storica, si avverte la necessità, per affrontare con efficacia le drammatiche sfide del nostro tempo.
Il 1913 è l'anno chiave del ventesimo secolo, dove nulla sembra impossibile, l'anno in cui ha inizio il nostro presente. Tanto la letteratura quanto l'arte e la musica sono ancora estranee alla perdita dell'innocenza che l'umanità avrebbe sperimentato di lì a poco, con lo scoppio della prima guerra mondiale. In questo affresco, Florian Illies rende vivo un anno che racchiude in sé un momento di massima fioritura e il preludio dell'abisso. Così l'incontro con Felice Bauer libera la potenza creativa del trentenne Franz Kafka; Stravinskij e Schönberg danno scandalo con le loro composizioni; a Milano fa la sua comparsa il primo negozio di Prada; Marcel Duchamp avvitando la forcella rovesciata di una ruota di bicicletta su uno sgabello da cucina compie la grande rivoluzione concettuale del Novecento; Sigmund Freud e Rainer Maria Rilke passeggiano per le vie di Monaco; un arguto quindicenne di nome Bertolt Brecht scrive su una rivista studentesca ad Ausburg ed Ernst Ludwig Kirchner dipinge la sua personale visione di Potsdamer Platz a Berlino. E a Monaco, in Baviera, un uomo venuto dall'Austria colora cartoline illustrate cercando di vendere le sue ingenue vedute della città. Si chiama Adolf Hitler.
Ritrovati a Lodz dopo la guerra e conservati dalla sorella per cinquant'anni, i taccuini di Abram Cytryn costituiscono un documento eccezionale e sconvolgente sul ghetto di Lodz, dove Abram ha vissuto dal 1940 al 1944. Vi si descrive la vita quotidiana all'interno dell'universo concentrazionario con una lucidità sorprendente, un forte talento poetico e una frenesia che enfatizza la prossimità della morte. Dimenticati dalla storiografia italiana, nonostante i maggiori studiosi europei della Shoah li considerino un capolavoro della memoria, i "Racconti dal ghetto di Lodz" si inseriscono a pieno titolo nel solco tracciato da "Se questo è un uomo" di Primo Levi, dal "Diario" di Anne Frank e dagli scritti di Elie Wiesel, con i quali condividono un'urgenza drammatica: scrivere per non affondare, "scrivere per lottare contro l'inferno in terra", come sottolinea Frediano Sessi nella Prefazione, "per comporre un' opera letteraria capace di dare voce alle energie vitali di una comunità destinata allo sterminio e alla scomparsa totale; scrivere per ottemperare a un impegno preso con i morti del ghetto o di Auschwitz: innalzare al cielo una targa che obblighi il lettore a ricordare, in ogni tempo e in ogni luogo".
Alberto Mieli dopo settant'anni racconta per la prima volta alla nipote Ester la sua infernale esperienza da deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. "Non c'è ora del giorno o della notte in cui la mia mente non vada a ripensare alla vita nei campi, a quello che i miei occhi sono stati costretti a vedere." Ricorda la vita in una Roma nazifascista, le leggi razziali e il giorno in cui è stato portato via dalle SS, dopo il tragico 16 ottobre 1943. Rivive, ancora con le lacrime agli occhi, l'arrivo nei campi, l'odore acre dei corpi che bruciavano nei forni crematori in funzione tutti i giorni. Parla del lavoro giornaliero e stremante, dei corpi senza vita ammassati gli uni sugli altri, della stanchezza e della fame continua e cieca che pativa, fame che ha portato alla pazzia e poi alla morte migliaia di deportati. Fame di cibo, di vita, di libertà. "Ad Auschwitz ho visto l'apice della cattiveria umana." Con queste parole Alberto Mieli racconta, con dolore, aneddoti e luoghi, parla delle torture subite. Ridisegna volti di gente incontrata e poi persa, spiega come sia riuscito a convivere tutta una vita con questa doppia cicatrice: una alla gamba, causata da una granata lanciata dagli Alleati esplosagli troppo vicino e che a volte ancora sanguina, e una più grande nel cuore.
L'Altipiano dei Sette Comuni è stato l'unico territorio in Italia a vivere in prima linea tutti i 41 mesi del Primo conflitto mondiale. Introdotto dallo storico Alberto Monticone, e arricchito di contributi di altri valenti studiosi, il volume è un'utile guida per capire come scoppiò il conflitto, quali devastanti conseguenze umane, sociali ed economiche ebbe su questa parte del territorio nazionale, e come oggi se ne conservi e tuteli la memoria, nello specifico mediante l'applicazione di quanto previsto dalla legge n. 78 del 7 marzo 2001, "Tutela del patrimonio storico della Prima guerra mondiale", che proprio da una proposta partita dall'Altipiano prese le mosse per essere votata dal Parlamento. La pubblicazione, che presenta una ricerca condotta con un'attenzione speciale al tema del dramma umano, raccoglie insieme i caduti nella Grande Guerra dell'Altipiano così come era organizzato amministrativamente cento anni fa, con le località di Pedescala e San Pietro Valdastico all'interno del Comune di Rotzo. Viene così disegnato nell'insieme il quadro sociale di una peculiare realtà di confine che, sconvolta dalla guerra, non solo perderà il nerbo delle sue forze giovanili, ma vedrà il profugato di tutti gli abitanti e la totale distruzione del territorio, per ritrovare nella memoria a cento anni dal conflitto il significato di un luogo educativo per le giovani generazioni sul dramma della guerra.
Molti anni fa al giuslavorista Gino Giugni, all'epoca borsista negli Usa, venne chiesto se esistesse in Italia una scuola di formazione politica. Senza esitare Giugni rispose: "L'Unione goliardica". L'esperienza appassionata delle associazioni universitarie - laiche e cattoliche - fra la Liberazione e il Sessantotto è stata fondamentale per la formazione della classe dirigente che ha intensamente concorso alla più importante stagione di riforme nel nostro paese. "Cinquantottini" sono i protagonisti di quel periodo: italiane e italiani nati fra il 1925 e il 1940 che hanno partecipato con fervore alla vita degli organismi studenteschi e dei partiti - a cominciare da quelli socialisti e di democrazia laica e cattolica - respirando il clima stimolante dei periodici di allora, fra i primi "Il Mondo" di Mario Pannunzio e "L'Espresso" di Arrigo Benedetti. Così sono cresciuti - fra dibattiti accesi, assemblee interminabili, utopie fantasiose e proposte concrete - i nuovi politici, nazionali e locali, amministratori, alti dirigenti, tecnocrati, imprenditori, docenti di ogni livello. Questo libro ne recupera la memoria e si chiede cosa possano dirci oggi. Se la formazione di una classe dirigente alla prova delle riforme è, ora più che mai, il tema chiave del futuro, rileggere il vissuto di quelle esperienze assume un'importanza cruciale
Nel marzo del 1972, un pomeriggio di sabato, Giuseppe Tavecchio, milanese, sessant'anni, pensionato, se ne esce a fare una commissione. A Milano è una giornata di scontri violentissimi tra i manifestanti dell'ultrasinistra e la polizia, con disordini che si protraggono per ore e devastazioni diffuse, incluso l'incendio di alcuni locali della sede del "Corriere della Sera" in via Solferino. Tavecchio passa dal centro durante una pausa dei tumulti; quando, alle cinque e dieci, insieme ad altri pedoni attraversa piazza della Scala, pare un momento di calma. Se non fosse che all'improvviso, senza alcuna ragione comprensibile, da una camionetta della polizia partono alcuni lacrimogeni verso quel gruppetto di persone inermi. Un candelotto, sparato ad altezza d'uomo, raggiunge al collo Tavecchio, che morirà tre giorni dopo senza aver ripreso conoscenza. È una vicenda tragica, che tutti dovremmo conoscere e ricordare. E invece no; perché uno che muore in questo modo non trova nessuno che abbia interesse a perpetuarne la memoria: ovviamente non lo Stato, che, per averne causato la morte, vuole soprattutto farlo dimenticare; non la politica, perché - se i militanti caduti negli scontri si onorano continuamente nel ricordo - sui passanti ammazzati per sbaglio, inutili alla causa, si sorvola con elegante indifferenza; e non i media, visto che un morto così fa ben poca notizia. Sicché ancora oggi il nome di Tavecchio è pressoché assente nelle cronache di quei giorni, comprese quelle in rete...
Imprenditrice partenopea giramondo che conobbe per la prima volta l'Asia da giovanissima, Stefania Tucci riavvolge la pellicola di un quarto di secolo di viaggi in alcuni dei luoghi più affascinanti della terra. Il suo taccuino tiene meticolosamente traccia dei profondi cambiamenti che hanno attraversato e continuano tuttora a sollecitare questo continente carico di enigmi, dove milioni di individui si sono riscattati dalla condizione di povertà assoluta inseguendo il mito del benessere dischiuso dal capitalismo occidentale. L'occhio dell'autrice indaga curioso l'umanità varia e assortita che incrocia: dall'imprenditore all'autista, dall'artista al bagnino, fino a espatriati europei in cerca di un nuovo Eldorado, sono tutti fili che si intrecciano nella trama sapiente di questo libro.

