
Siamo nel pieno della guerra del Peloponneso. Atene rischia la sconfitta. La tensione è altissima: il partito aristocratico vuole accordarsi a qualunque prezzo con Sparta e adottare il modello politico dei vincitori. I democratici vogliono resistere fino alla fine e salvare la costituzione. Cleofonte è il leader della parte democratica ed è l'uomo da abbattere. In questo tumultuoso quadro politico, un ruolo fondamentale lo giocano i drammaturghi. Alcuni di loro intrattengono un rapporto stretto con i gruppi di pressione decisi a scalzare il regime democratico. La commedia si fa, cosi, interprete della 'maggioranza silenziosa', quella che non va all'assemblea popolare, e la sobilla contro i suoi capi presentandoli come mostruosi demagoghi. Aristofane, il commediografo, si fa agitatore politico. La sua grande abilità consiste nel presentarsi come il difensore del popolo agendo, in realtà, per conto di chi intende distruggere il potere popolare. Nella commedia intitolata "Rane" getta la maschera, chiede e auspica la condanna di Cleofonte, accanito oppositore del potere oligarchico; rompendo la finzione scenica fa un vero e proprio comizio, e parla, questa volta apertamente, della bruciante attualità politica.
Nel momento in cui forze politiche oscurantiste prendono il sopravvento in Italia e in larga parte d’Europa, giova interrogarsi sul ‘moto storico’. Il suo andamento può sprofondarci in deprimenti bassure o innalzarci verso affrettate illusioni. Tra il cupo fatalismo persuaso dell’eterno ritorno e il pervicace ottimismo degli assertori di inarrestabili ‘sorti progressive’, la lezione che ci viene dalla storia è che, dopo l’esaurirsi di una ‘rivoluzione’, maturano immancabilmente le condizioni per una nuova scossa: di quelle che a don Abbondio apparivano salutari colpi di scopa.
«Sul letto di morte Mao avrebbe detto una parola che riassume il suo pensiero: “Raccomandate ai giovani cinesi di ricordarsi di Yu Kung”. È il protagonista di una favola contadina. Narra di un vecchio contadino che voleva spianare una montagna a colpi di zappa, lui e i figli. A chi vedendolo all’opera gli disse che sciocchezze state facendo, il vecchio rispose: “Io morirò ma rimarranno i miei figli. Moriranno i miei figli, ma resteranno i miei nipoti e così le generazioni si susseguiranno all’infinito. Le montagne sono alte, ma non possono diventare ancora più alte. A ogni colpo di zappa esse diventeranno più basse”. La logica di Mao si attaglia a quella del contadino. Le iniquità sociali sono alte e potenti, ma non è detto che non possano essere abbattute. E in effetti lo sono state anche se altre ingiustizie nel corso dei secoli, ed anche in quelli nostri, ne hanno occupato il posto. Ma anche queste cadranno sotto i colpi di zappa di una rivoluzione che per essere vera ha da essere permanente.» (Dal Diario di Pietro Nenni)
Con questa biografia Luciano Canfora si libera da ogni operazione agiografica e indaga quel complesso personaggio che fu Concetto Marchesi, un grande intellettuale italiano, libertario e socialista. L’agiografia su Marchesi ha voluto fare di lui una sorta di sito geologico attraverso la cui stratigrafia ripercorrere l’intera vicenda del movimento socialistico italiano: dai fasci siciliani al PCI resistenziale e poi togliattiano. Marchesi, in altre parole, ha avuto due vite: quella vera di uomo di genio, con la sua grandezza, le sue debolezze, le sue zone d’ombra, il suo fiuto politico talora lungimirante, il suo caratteriale individualismo; e quella del mito postumo – alla cui costruzione, per certi versi, egli stesso non fu estraneo – creato dal ‘Partito’. Uomo complesso, nella sua lunga militanza in tempi di ferro e fuoco, si convinse della necessità di un forte potere personale come unica soluzione del problema politico. L’esperienza che segnò tutta la sua vita fu la resa e poi l’adesione della maggioranza degli Italiani al fascismo. Unico esponente dell’alta cultura italiana legato notoriamente al disciolto, ma mai domato, Partito comunista, Marchesi convisse infatti col fascismo nella difficile posizione dell’oppositore ‘dormiente’ e probabilmente entrista – e cioè, infiltrato nel partito fascista con l’obiettivo di modificarlo dall’interno. Intanto maturava in lui – antifascista comunista – l’opzione, verso cui si orientò anche Antonio Gramsci, per il «cesarismo progressivo», incarnato ai suoi occhi dal potere staliniano. Il continuo rifacimento della sua Letteratura latina è lo specchio di questo suo cammino politico. A sciogliere ogni suo dubbio valse la vicenda della riscossa della Russia contro l’invasione hitleriana. Con la caduta di Mussolini, ogni entrismo sembrava ormai da archiviare, ma così non fu. Per lui, Rettore a Padova sotto il tallone tedesco, ben presto ci furono la fuga e l’esilio. Dalla Svizzera, crocevia dei servizi segreti delle potenze in guerra, egli costituì il perno della rete che aiutava militarmente la lotta partigiana. Fu la sua stagione più esaltante, la «poesia della sua vita», come egli stesso scrisse. Alla prospettiva espressa nel suo celebre scritto Stalin liberatore, rimase ancorato fino al 1956, allorché, nella crisi generale del movimento comunista, si schierò con durezza contro gli apostati e i fuggiaschi. Ma intuì la crisi del sistema. E si decise a optare per il ritiro dalla vita politica: non poté praticarlo perché improvvisamente morì.
A cento anni dalla nascita del Pci, Canfora si interroga sulla metamorfosi progressiva di quel grande partito. Una metamorfosi che ha al centro il 'partito nuovo' di Togliatti. Quella fu, nel 1944, una seconda fondazione. Fu la non facile nascita di un altro e diverso partito: diverso rispetto alla formazione 'rivoluzionaria' sorta vent'anni prima. La nuova nascita era una necessità storica, nella situazione mondiale del tutto nuova determinata dalla sconfitta dei fascismi. Ma le potenzialità insite in tale nuovo inizio non furono sviluppate con la necessaria audacia da chi venne dopo: Berlinguer incluso. Riannodando i fili di questa storia, Canfora cerca le ragioni del mancato riconoscimento dell'approdo socialdemocratico che il mutato contesto storico determinava. Una timidezza che ha contribuito alla successiva debolezza progettuale e 'svogliatezza' pratica. E alla progressiva perdita di contatto con i gruppi sociali il cui consenso veniva dato ottimisticamente per scontato.
Questo libro racconta come finì, in antico, l'indipendenza dello Stato ebraico. Ciò avvenne, nel più generale contesto della conquista del Medio Oriente e in particolare dell'area siro-palestinese, ad opera delle legioni romane (63 a.C.). La figura dominante dell'aggressione e della spoliazione del 'tesoro di Stato' degli Ebrei fu Gneo Pompeo Magno, in quell'anno (l'anno terribile della congiura di Catilina) potente personaggio pubblico della repubblica imperiale romana. Una fonte ebraica coeva dei fatti, i cosiddetti Salmi di Salomone, fornisce un quadro veridico della vicenda. E svela il ruolo decisivo della voracità dell'aggressore. Voracità che si appagò finalmente, dopo oltre un secolo di violenze e apparente riconciliazione, nell'anno 70 d.C. Allora l'imperatore Tito, «delizia del genere umano» secondo la vulgata adulatrice, distrusse il Tempio di Gerusalemme e lasciò depredare il tesoro lì conservato, frutto del contributo corale di tutte le comunità ebraiche. Il movente economico e l'odio per un popolo atavicamente considerato con avversione furono, allora, alla base del primo genocidio degli Ebrei. È una storia che ci riguarda ancora. Il revisionismo storiografico riuscì a prevalere e la tradizione si prestò a fare da sponda alla menzogna di Stato, voluta dai vincitori e avallata dai loro clienti.
«La causa degli oppressi può difenderla soltanto uno che sia anche lui un oppresso». Pare che Lucio Sergio Catilina, di nascita nobile e dalla carriera torbida, temprato nella ferocia delle guerre civili, sia approdato a questa convinzione, proclamata in una riunione segreta di suoi seguaci, quando ormai si accingeva, nell'anno 63 a.C., all'ultima, celebre, perdente battaglia contro l'oligarchia. Infiltrati vi erano anche nella sua cerchia. Così, il servizio di spionaggio agli ordini del console a lui più avverso, Marco Tullio Cicerone, prontamente divulgò quel proclama, subito giudicato come una minaccia. Fu instaurato lo 'stato d'assedio' e in tale clima si svolsero le elezioni. E Catilina fu battuto nelle urne: intreccio perfetto di strategia della tensione e gestione dei pentiti. Cicerone era giunto al vertice del potere mettendosi agli ordini dell'oligarchia. Fu perciò, come spesso i transfughi, il più implacabile avversario della 'rivoluzione'. Al culmine dello scontro non esitò a varcare i confini della legalità, illudendosi, per un tempo non breve, di poter rimanere, grazie a tale 'benemerenza', al vertice della Repubblica. Non aveva capito di essere soltanto una pedina, non un capo: gli mancava un esercito. Era suonata l'ora dei capi carismatici e delle loro legioni.
La democrazia imperiale ateniese mirava al dominio commerciale nel Mediterraneo: donde la catena di conflitti in cui si impegnò contro i 'barbari', contro i Greci, contro i suoi stessi alleati. L'oligarchia spartana non accettava di vedere scosso il proprio tradizionale predominio. Gli Ateniesi pretendevano di esportare la democrazia imponendola con la forza innanzi tutto ai propri alleati. Gli Spartani proclamavano di portare la libertà ai Greci oppressi da Atene. La guerra - scrisse Tucidide - era inevitabile. Tutto era incominciato con la sfida ateniese a sostegno della rivolta antipersiana dei Greci d'Asia e con la risposta, vent'anni dopo e in grande stile, da parte del Gran Re volta a sottomettere, oltre ai Balcani, la penisola greca. E tutto sembrerà concludersi circa un secolo dopo con la «pace del Re». Una pace imposta ai Greci dalla Persia per il tramite della potenza militare spartana, cui l'aiuto del Gran Re aveva consentito di sconfiggere Atene. Il Gran Re lasciava intendere che solo il suo predominio avrebbe portato la pace ai Greci. E i Greci, finché non affiorò alla storia il regno macedone, la accettarono. Non a torto Arnold Toynbee definì la guerra tra Sparta e Atene «suicidio della Grecia classica». Una vicenda esemplare.
Nel 70 d.C. il Tempio di Gerusalemme cadeva sotto i colpi delle fameliche legioni romane al comando dell'imperatore Tito, 'delizia del genere umano'. Tre anni di guerra e di assedio che costarono oltre un milione di morti, la fine dei sogni d'indipendenza della Giudea e l'inizio della grande diaspora ebraica. Questo libro ne racconta la storia partendo da un secolo prima, il 63 a.C., quando le truppe di un altro generale 'santissimo', Gneo Pompeo Magno, si accorsero che proprio nel Tempio era raccolto il tesoro dello Stato. «Finché sarà in piedi il Tempio, si ribelleranno.» Profezia di un capo militare romano all'assedio di Gerusalemme nel 70 d.C.
"Del buon uso del tradimento" è il titolo di un celebre libro di Pierre Vidal-Naquet sulla figura e sulla straripante opera del comandante militare, sacerdote, storico Giuseppe Flavio (nato nel 37 d.C. e vissuto fin sotto il regno di Traiano). Straripante e giunta a noi intatta. Come è avvenuta la straordinaria salvazione, caso unico in tutta la storiografia di lingua greca dei quattro secoli che intercorrono tra Polibio e Cassio Dione? Chi prese in carico l'opera e perché? Quale ruolo ebbe in questo prodigioso fenomeno storico-letterario il cosiddetto Testimonium sulla vita e morte di Gesú, inserito nelle Antichità giudaiche di Giuseppe? E cosa intendeva davvero essere quella sottile e tormentata testimonianza? L'interpolazione - se tale è - più controversa della storia dei testi greci racchiude la chiave che può avviare alla soluzione di queste domande. Con qualche sorpresa.
Il fascismo sta al centro della riflessione, oltre che della azione politica, di Antonio Gramsci: dagli anni della lotta agli anni del carcere. Questo libro affronta il tema sotto diversi aspetti: lo sforzo di comprensione storica da parte di Gramsci, tanto più profonda quanto più svincolata dallo scontro immediato; l'infiltrazione fascista nelle file del Partito comunista; la persecuzione postuma da parte di Mussolini intesa ad annientare la memoria di Gramsci col supporto di stampa anarchica. Nel corso di questa indagine vengono sottoposti a verifica scenari che sembravano assodati, riconsiderate fonti (come la "famigerata" lettera di Grieco) già ampiamente esplorate, ricostruito il faticoso cammino attraverso cui il Partito comunista italiano ha fatto i conti con la propria storia.
Una rilettura della rivalità tra due potenze del mondo antico che, nel corso dei secoli, sono diventate punti di riferimento per filosofi, politici, sociologi e rivoluzionari. Due città che, ancora oggi, rappresentano modelli di Stato ideali e contrapposti. Da un lato un ordinamento democratico, innovativo, aperto agli scambi e al commercio; dall'altro un mondo chiuso, conservatore, ispirato a valori di tipo militare in nome dei quali i cittadini accettavano con orgoglio le restrizioni delle libertà individuali. È così che sono sempre state descritte Sparta e Atene, ma come distinguere la realtà dalla rappresentazione? Dopotutto le due poleis erano nate dalla stessa cultura, parlavano la stessa lingua, onoravano gli stessi dei. Avevano combattuto fianco a fianco contro un comune nemico, i Persiani, prima di trasformarsi da alleate in nemiche. Partendo dal racconto di questo antagonismo, con un'attenzione speciale alle istituzioni sociali oltre che politiche - in particolare alla formazione del cittadino e alla condizione femminile -, Eva Cantarella approda al «riuso», operato da parte della cultura occidentale, di due sistemi che, di volta in volta, sono stati invocati tanto da chi aspirava a fondare uno Stato democratico, tanto da chi voleva dar vita a uno Stato autoritario, totalitario, tirannico.