
Se oggi possediamo raffinate capacità di analisi delle turbe infantili il merito è sicuramente di Melanie Klein, fra le prime a indirizzare la psicoanalisi verso lo studio del bambino. Sono qui descritte l'angoscia, il senso di colpa e le influenze delle pulsioni nello sviluppo dell'io e dell'Es nello sviluppo infantile. Le sue descrizioni delle fantasie della primissima infanzia hanno squarciato un velo e contribuito a fondare una vera e propria scuola. Come Ernest Jones afferma non è azzardato dire che "la Klein è andata più in là di Freud".
Fondato su ricerche d'avanguardia, questo libro si propone come un manuale di science-help, che è cosa ben diversa dal self-help. Negli ultimi anni gli studi cognitivi, le ricerche di psicologia sperimentale e le neuroscienze hanno accumulato una grande quantità di dati sul cervello umano, svelando meccanismi che ci erano completamente oscuri e ridisegnando le nostre conoscenze in questo campo. Così, a mano a mano che ci si addentra nei meandri del nostro cervello e dei suoi comportamenti, avviene che le bizzarre ricette dei guru del benessere psichico o dei sedicenti maestri del successo personale ci appaiano sempre meno plausibili. Con l'avanzare degli studi siamo in effetti sempre più in grado di fornire un altro tipo di "ricette", empiricamente fondate, che ci aiutano a tenere sotto controllo certe evidenti deviazioni di quel prodigioso organo del pensiero che non ha cessato di evolversi da milioni di anni. Per tutto questo, e altro ancora, siamo ora in grado di capire perché spesso ci comportiamo in modo avventato, per non dire apertamente autolesionista, senza un motivo apparente. Il cervello agisce secondo schemi adattativi complessi ma prevedibili, e in molte occasioni specie nella vita dell'uomo moderno - con pessimi risultati. Per dirla con David DiSalvo: "Il nostro cervello è una macchina per prevedere e rilevare schemi ricorrenti, che ama la stabilità, la chiarezza e la coerenza: tutto meraviglioso, tranne quando non lo è".
"Bugiardi nati" è un viaggio nel mondo della menzogna. La menzogna dei bambini, quella degli adulti, quella dei politici o quella particolare categoria di menzogna che è rivolta a noi stessi e che chiamiamo autoinganno. Scritto con umorismo, ricco di aneddoti e di dettagli fulminanti, questo libro è allo stesso tempo un saggio informato, che usa le conoscenze più recenti nel campo della psicologia, delle neuroscienze e della filosofia per fare il punto su ciò che sappiamo in merito a menzogne, bugie, mezze verità, inganni e autoinganni. Siamo stati abituati a pensare alle bugie come a qualcosa di malvagio; la menzogna è per molti la principale responsabile dell'abiezione umana, l'opposto della verità, nella cui luce bisognerebbe camminare. Eppure tutti mentiamo, senza eccezione, continuamente, e più spesso che mai mentiamo a noi stessi, rendendo le nostre bugie più difficili da scoprire, poiché nascoste ai nostri stessi occhi, Ian Leslie rovescia dunque la prospettiva, appoggiandosi sulle spalle di Darwin, di Freud e dei molti psicologi che si sono occupati di questo tema negli ultimi anni: lungi dall'essere un "baco" della nostra psiche, la menzogna è necessaria, vitale, formativa e inevitabile per definire ciò che davvero siamo. Di fatto, non possiamo conoscere noi stessi se prima non conosciamo la sottile dinamica della bugia e dell'autoinganno.
Passiamo più tempo immersi in un universo di finzione che nel mondo reale. "L'isola che non c'è" è la nostra vera nicchia ecologica, il nostro habitat. Nessun altro animale dipende dalla narrazione quanto l'essere umano, lo "storytelling animal". Questo strano comportamento, che ci porta a mettere al centro della nostra esistenza cose che non esistono, è innato e antichissimo; ci sono segni di finzione fin dai primordi dell'umanità e basta osservare un bambino nel suo quotidiano gioco del "facciamo finta che" per capire che si tratta di un istinto primordiale, che ha già dentro di sé quando viene al mondo. Ma a che scopo? Jonathan Gottschall studia la narrazione da molti punti di vista e ha un'idea originale e affascinante per spiegare come si sia sviluppata questa strana abilità. Appoggiandosi, da letterato, alle ricerche più avanzate della biologia e delle neuroscienze, Gottschall evoca i ben tangibili vantaggi del mondo fantastico, e lo fa con il piglio del grande narratore. Raccontando storie, ad esempio, i bambini imparano a gestire i rapporti sociali; con le fantasie a occhi aperti esploriamo mondi alternativi che sarebbe troppo rischioso vivere in prima persona, ma che risulteranno utilissimi nella vita reale; nei romanzi e nei film cementiamo una morale comune che permette alla società di funzionare col minimo possibile di contrasti; e poi è provato che la letteratura ci cambia, fisicamente e in meglio.
Respiro affannoso, battito accelerato, tremito, intensa sudorazione, occhi sgranati, tensione muscolare, secchezza delle fauci, alterazione della voce, adrenalina in circolo: chiunque riconosce subito i segnali corporei della paura. Ma mimica facciale e neurofisiologia non esauriscono certo l'identikit di questa emozione primaria più veloce del pensiero, inscritta nel nostro patrimonio genetico e potente al punto da dominare le civiltà umane. Nella nuova, aggiornatissima edizione di un saggio ormai classico sull'argomento Anna Oliverio Ferraris ricompone tratto a tratto - attraverso dati clinici e osservazionali, indagini di antropologia storica e rilievi sociologici attuali - l'intero profilo della paura, la sua centralità evolutiva, le sue diverse valenze psicologiche, i suoi inneschi e disinneschi collettivi. Temuta e malfamata, la paura in realtà è necessaria alla sopravvivenza, perché induce le risposte adattative di allarme di fronte all'incombere di un pericolo. Dissestanti per l'equilibrio della psiche sono piuttosto le ansie croniche, o i pericoli immaginari che alimentano condotte fobiche, oppure gli esiti estremi come il panico, tanto più drammatici in quanto generati in condizioni di solitudine emotiva. Se socializzate, le paure appaiono infatti meno incontrollabili. Solo così i fattori di protezione, affettivi e rituali, possono continuare con esse il dialogo iniziato con la storia dell'uomo.
Nel 1914 - esattamente un secolo fa - Pierre Janet pubblicò nel "Journal de Psychologie Normale et Pathologique" lo scritto che costituisce il testo di questo libro, qui per la prima volta tradotto in italiano. Si tratta dell'intervento tenuto al Congresso di Medicina di Londra del 1913, nel quale Janet aveva rivendicato la primogenitura di una parte delle idee che Freud andava ascrivendo esclusivamente a se stesso. Lo psicologo francese lancia con prosa graffiante anche un monito contro un certo modo di gestire la "nuova scienza della psicoanalisi", considerata un dogma intoccabile, tanto da indurre i suoi adepti a sferrare anatemi contro gli "eretici". Dopo questo intervento, Janet diventerà a sua volta un "eretico" e resterà tale per molti anni, fino a quando, in condizioni scientifiche mutate, il suo pensiero verrà riscoperto da più parti e il valore dei suoi studi sul trauma sarà riconosciuto nella sua originalità ed efficacia interpretativa, anche alla luce delle moderne neuroscienze.
C'è una caratteristica che accomuna il delicato assetto dell'essere umano ai materiali studiati in ingegneria: l'uno e gli altri sono in grado di resistere a sollecitazioni traumatiche, deformanti ed estreme, riacquistando la propria forma. Questa capacità si chiama "resilienza". Mutuata dal dominio lontanissimo della scienza dei materiali, la nozione ha aperto una nuova frontiera di ricerca in psicologia clinica, disciplina troppo a lungo concentrata solo sugli effetti dissestanti di lutti, maltrattamenti, stress prolungati, malattie, carenze affettive. Al dissesto psichico indotto da esperienze dolorose si può reagire se si attivano e si potenziano i fattori di protezione, di compenso e di recupero di cui ciascuno in qualche misura dispone. Anna Oliverio Ferraris e Alberto Oliverio esplorano con gli strumenti della psicodinamica e delle neuroscienze le tipologie di resilienza che soccorrono nelle diverse stagioni della vita, dalla prima infanzia alla terza età, i rapporti tra comportamenti resilienti e funzioni cerebrali, e gli ambiti - individuale, familiare, scolastico e lavorativo - dove è cruciale saper recuperare l'equilibrio dopo aver vacillato. Nel modo di affrontare le avversità intervengono componenti genetiche, disposizioni temperamentali e relazioni precoci con figure di attaccamento, ma altrettanto decisive si rivelano un'attitudine proattiva e un'atmosfera responsiva e supportante da parte della collettività.
"Fuori contesto". Si chiama così la terra di nessuno delle astrazioni indimostrate in cui vagolano da tempo i fantasmi della psicologia, ossia della disciplina che più di altre dovrebbe invece indagare gli esseri umani nella loro viva, singolare concretezza. A cacciare i fantasmi con intrepido fervore è proprio uno psicologo. Pochi come Jerome Kagan conoscono dall'interno le dinamiche dei progetti di ricerca e sono in grado di additare autorevolmente i preconcetti che ne viziano i risultati. Una miriade di studi empirici iperfinanziati e manuali diagnostici a diffusione universale condividono un identico cono d'ombra, perché si ostinano a ignorare la significatività - per gli stati mentali -dell'appartenenza culturale, della collocazione sociale e delle storie di vita degli individui. Esaminare le emozioni, i sentimenti e i comportamenti fidando soltanto nelle dichiarazioni verbali dei soggetti intervistati, misurare le relative attività cerebrali senza tener conto dei setting specifici, o invocare un'origine monocausale, perlopiù genetica, per le patologie psichiatriche sono procedure avventate, che finiscono con l'oscurare evidenze incontrovertibili e alterare i dati. Il benessere soggettivo descritto da una donna povera del Nicaragua non potrà essere calcolato sull'indice di felicità di un avvocato parigino; gli americani depressi di origine cinese non risponderanno a un questionario sulla depressione, ritenuta stigmatizzante.
Molti libri sul cervello ripropongono troppo spesso acriticamente miti del passato, dandoli per scontati e ignorando che nei laboratori più avanzati da molto tempo il vento è cambiato. Uno di questi miti sostiene che il cervello è diviso in "emisfero destro" e "emisfero sinistro", e che le due metà fanno cose differenti: la parte sinistra è analitica e logica, la parte destra è artistica e intuitiva. Pensiamo di saperlo tutti, lo diamo per scontato, ma non è vero. Si tratta in effetti di una semplificazione grossolana, e se per caso avete appena fatto un test per capire quale delle due metà di voi sia la più sviluppata sappiate che avete solo sprecato del tempo. Ecco allora che Stephen Kosslyn, aiutato da Wayne Miller, ci propone invece un cervello "alto" e un cervello "basso". Sembra una provocazione, e in parte lo è. Il cervello in realtà non si lascia dividere tanto facilmente, ma è vero che contiene aree che fanno cose diverse, il cui sviluppo relativo determina molto di ciò che pensiamo e sentiamo. È questa la "teoria delle modalità cognitive", che viene qui divulgata in maniera estremamente comprensibile. A seconda di quali parti del cervello siano più o meno attive in ciascuno di noi, il libro propone quattro modalità principali di pensiero: la "modalità dinamica",la "modalità percettiva", la "modalità stimolativa" e la "modalità adattiva". A quale delle quattro modalità apparteniamo? Il penultimo capitolo del libro offre un test per scoprirlo.
Dopo aver conquistato un largo pubblico con lo stile e la grande capacità comunicativa del suo "Cosa rende felice il tuo cervello (e perché devi fare il contrario)", David DiSalvo ci propone in questo nuovo lavoro un'analisi attenta di come funziona il pensiero e ci fornisce trenta ricette pratiche per vivere meglio. Anche questa volta, infatti, l'autore si basa sulla sua intuizione originale, il science-help, ovvero quell'insieme di nozioni solidamente acquisite dalla ricerca scientifica, sulla base delle quali è effettivamente possibile migliorare se stessi. Non è più tempo di ricette di self-help prive di fondamento, ammonisce DiSalvo, né di guru dal curriculum equivoco: le neuroscienze sono in grado al giorno d'oggi di spiegare davvero come funziona il cervello, e sulla base di quelle conoscenze possiamo agire per migliorarci e, in definitiva, per vivere meglio. Usando esempi tratti dalla vita di ogni giorno, in ogni ambito possibile, dalle relazioni sociali alla carriera, dalla salute fisica allo sviluppo personale, DiSalvo dimostra come l'enorme capacità adattativa del cervello sia il fattore cruciale sul quale si può fare leva; un potente strumento che possiamo tenere sotto controllo per dare una svolta alle nostre vite. Ormai sappiamo che la mente agisce attraverso continui cicli di feedback, generati da un cervello che si è evoluto nel corso di milioni e milioni di anni.
Non possiamo vedere la psiche come vediamo i corpi. Eppure non c'è nulla di più reale della nostra componente immateriale. Sono tangibili le azioni che produce, intense le passioni che smuove, laceranti e distruttive le sofferenze che genera, tenendo in ostaggio la vita. Questo pulsare di energia psichica non avviene nel vuoto, ma nella società e nella storia. Mentre la frattura ossea di un europeo di oggi è simile a quella di un antico egizio o di un indio precolombiano, una lesione della psiche è del tutto diversa. Per larga parte della vicenda umana è prevalsa una condizione partecipativa, fusionale, in cui - con l'aiuto di cerimonie collettive e di convinzioni profonde - i contenuti psichici inconsci venivano proiettati nel mondo circostante. La modernità invece, attraverso l'eclisse del sacro e l'espansione della coscienza, fa tornare lentamente le proiezioni nell'individuo. Uno spostamento titanico, previsto sia da Freud sia da Jung, che esalta la libertà personale, ma crea una nuova fragilità: rende solitarie le emozioni e alimenta le patologie della psiche postsociale. Luigi Zoja, tra i maggiori analisti junghiani, osserva da vicino queste dinamiche, sciogliendo diversi equivoci. A cominciare dallo statuto della psicoanalisi, non assimilabile alle scienze naturali e al modello medico di cura come ripristino di uno stato preesistente.
Il variegato arcipelago della psicoterapia è forse una delle arene più litigiose nel consesso delle scienze umane. In poche discipline come in quella psicoterapeutica si è assistito nel tempo a una progressiva parcellizzazione delle scuole in sottoscuole e varianti di sottoscuole: una polverizzazione di idee e teorie che ha avuto come risultato una specie di anarchia terapeutica, nella quale ogni analista si richiama al proprio micromodello di riferimento e alza steccati nei confronti dei modelli alternativi. Alle due scuole analitiche storiche - la psicoanalisi discendente da Freud e l'analisi psicologica derivante da Jung - si sono aggiunte ormai biblioteche intere di discussioni e scomuniche reciproche, lotte cruente ricche di gelosie e rivalità. In questo contesto sono nate molte visioni alternative, che sono oggi saldamente presenti nell'offerta terapeutica sul territorio. Perché una cosa è senz'altro vera: molti sentono il bisogno di un aiuto psicologico e moltissimi ne hanno assoluta necessità, essendo prigionieri di malesseri e vere e proprie patologie che impediscono loro di vivere una vita normale e di rapportarsi col mondo in modo soddisfacente. C'è gente che soffre: si tratta di capire come fare ad aiutarla. Dall'epoca di Freud e Jung il tempo non è passato invano.