
Cosa succede quando la malattia irrompe, improvvisa e devastante, nella vita di un ragazzo di sedici anni? Niccolò (Nicco, per gli amici) vive la sua adolescenza tra le gioie e le preoccupazioni della sua età, tra scuola, amici, fidanzata, sport... È fortunato, Nicco: circondato da una famiglia amorevole e sostenuto dalla complicità di due fratelli gemelli, può guardare con fiducia a un futuro pieno di promesse. All'improvviso però tutto cambia. Sul campo da calcio, la sua passione più grande, Nicco sente un dolore alla gamba, insistente, insidioso. I giorni passano, ma quel dolore no, non passa, anzi, si fa sempre più intenso, finché un giorno la gamba cede e le cose precipitano. Osteosarcoma: questa è la terribile sentenza che colpisce Niccolò come un pugno in pieno viso. È la primavera dei suoi sedici anni e lui ha un cancro. Inizia così una lenta discesa agli inferi tra biopsie, operazioni, ricoveri, terapie e devastanti effetti collaterali. Mentre i suoi coetanei si godono l'estate, Nicco, in una stanza d'ospedale, è costretto a crescere in fretta, solo contro un nemico implacabile e subdolo. E proprio quando la stanchezza sembra prendere il sopravvento, Niccolò scopre il potere del sorriso, di un atteggiamento positivo, della resilienza... In questa lettera accorata che è un incitamento a non darsi mai per vinti, Nicco non nasconde a, non il dolore, non la rabbia, non il senso di sconfitta. Nel labirinto dei suoi pensieri, delle sue altalenanti emozioni, ci prende per mano e ci apre il suo cuore, che ha scoperto essere più forte e coraggioso di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Perché essere coraggiosi non significa non avere paura, ma andare avanti nonostante la paura. I proventi dei diritti d'autore di questo libro saranno devoluti a Busajo Onlus, che si occupa di recuperare, rieducare e reinserire bambine e bambini di strada in Etiopia. www.busajo.org.
Per cinquant'anni un terribile segreto è rimasto nascosto, chiuso dentro a un baule in soffitta: foto, documenti, pagine di diario. È il racconto drammatico e insieme commovente - dell'Olocausto visto attraverso gli occhi di una ragazzina che ha sperimentato sulla propria pelle la deportazione, la morte dei suoi cari, la liberazione dalla prigionia. Una ragazzina che però ha chiuso dentro al suo cuore questa tragica esperienza, senza farne parola con nessuno, nemmeno con il marito, per decenni. Finché, ormai anziana e prossima alla morte, ha deciso che il mondo dovesse conoscere la sua storia. Una voce vera e diretta dell'orrore nazista nelle sue semplici parole di bambina. Una storia di dolore, perdono, amore e perdita. Da non dimenticare, per non dimenticare.
Non aveva nemmeno sedici anni, Andrew Borowiec, quando nel 1944 prese parte alla rivolta di Varsavia, la straordinaria ribellione organizzata dai polacchi di fronte all'insensata violenza nazista. I combattimenti proseguirono senza tregua per più di due mesi, in una carneficina che perfino Heinrich Himmler definì "la peggior guerriglia di strada dalla battaglia di Stalingrado". Questo libro raccoglie l'eccezionale testimonianza di uno degli ultimi sopravvissuti a quel massacro, un vero bambino-soldato che ha dovuto mettere nero su bianco l'orrore cui i suoi giovani occhi avevano assistito - dalle barricate ai cecchini appostati nelle strade, dai combattimenti casa per casa alle fughe nelle fogne della città - al punto di trascrivere le sue prime impressioni già nell'ospedale da campo per prigionieri di guerra dov'era finito alla fine della Rivolta. Un resoconto così doloroso e necessario che ora Borowiec ha sentito il bisogno di condividere con il mondo intero. Un'altra voce che unisce la purezza dei sedici anni al tragico disincanto di chi ha conosciuto sulla propria pelle la brutalità della guerra.
"Il grande silenzio è stato il mio primo compagno di giochi. Un abbraccio affettuoso e terribile che non mi ha mai abbandonato. Nemmeno ora. E che non mi lascerà mai. Quando la gente mi guarda, pensa che io sia come tutti gli altri, perché la sordità non ha segni evidenti, è un handicap invisibile. Così, spesso, una persona sorda viene scambiata per un qualunque udente. Non lo è affatto, però può riuscire a raggiungere gli stessi traguardi. Come ho fatto io. Con tenacia, passione, coraggio, lottando contro un mondo che a volte non mi è stato amico, contro nemici che avevo perfino in casa e cercavano di opporsi alle mie scelte e di impedirmi di inseguire i miei sogni. Ma io ce l'ho fatta. Questa è la mia storia". Roberto Wirth - proprietario dell'Hassler, l'hotel di Roma dove alloggiano celebrities di ogni parte del mondo - ci racconta in prima persona la sua straordinaria parabola esistenziale, la vita complessa di un uomo nato sordo profondo e costretto a misurarsi con i pregiudizi degli altri, a partire da quelli della sua stessa famiglia.
Alan Turing ha dato il più grande contributo alla vittoria degli alleati sulla Germania nazista con la sua macchina per decrittare il famigerato codice enigma, il segreto sistema di crittografia con cui i nazisti comunicavano tra di loro. Ma il mondo è altresì in debito con il genio di Turing per molte delle intuizioni che hanno portato all'invenzione del computer moderno, è infatti considerato da molti il padre della scienza informatica. Figlio di un alto funzionario dell'Indian Civil Service, dato a balia a una rispettabile famiglia ritiratasi nella campagna inglese, fu chiaro fin dalla sua prima infanzia che il piccolo Alan fosse dotato di una mente prodigiosa. Imparò a leggere in appena tre settimane e la preside della scuola elementare che frequentava affermò: "Ho avuto ragazzi intelligenti e laboriosi, ma Alan ha del genio puro". Ma la vita di Turing non fu solo ricca di riconoscimenti per il suo lavoro svolto durante la guerra: a causa della sua omosessualità (considerata ancora un reato nella Gran Bretagna dell'epoca) fu incriminato e sanzionato con la castrazione chimica. Le umiliazioni fisiche e psicologiche che dovette subire lo segnarono profondamente. Il 7 Giugno 1954, a soli quarantuno anni e nel pieno della sua vita accademica, morì mangiando una mela avvelenata con cianuro di potassio. Questa è la sua storia.
Nel giorno del suo quindicesimo compleanno, Eva viene arrestata dai nazisti ad Amsterdam e deportata ad Auschwitz. La sua sopravvivenza dipende solo dal caso, e in parte dalla ferrea determinazione della madre Fritzi, che lotterà con tutte le sue forze per salvare la figlia. Quando finalmente il campo di concentramento viene liberato dall'Armata Rossa, Eva inizia il lungo cammino per tornare a casa insieme alla madre, e intraprende anche la disperata ricerca del padre e del fratello. Purtroppo i due uomini sono morti, come le donne scopriranno tragicamente a mesi di distanza. Ad Amsterdam, però, Eva aveva lasciato anche i suoi amici, fra cui una ragazzina dai capelli neri con cui era solita giocare: Anne Frank. I loro destini - seppur diversissimi - sembrano incrociarsi idealmente ancora una volta: nel 1953 Fritzi, ormai vedova, sposerà Otto Frank, il padre di Anne. La testimonianza di Eva (scritta in collaborazione con Karen Bartlett) è dunque doppiamente sbalorditiva: per la sua esperienza personale di sopravvissuta all'Olocausto e per lo straordinario intreccio del destino, che l'ha unita indissolubilmente a quella ragazzina conosciuta molti anni prima.
Nel 1944 Denis Avey, un soldato britannico che stava combattendo nel Nord Africa, viene catturato dai tedeschi e spedito in un campo di lavoro per prigionieri. Durante il giorno si trova a lavorare insieme ai detenuti del campo vicino chiamato Auschwitz. Inorridito dai racconti che ascolta, Denis è determinato a scoprire qualcosa in più. Così trova il modo di fare uno scambio di persone: consegna la sua uniforme inglese a un prigioniero di Auschwitz e si fa passare per lui. Uno scambio che significa nuova vita per il prigioniero mentre per Denis segna l'ingresso nell'orrore, ma gli concede anche la possibilità di raccogliere testimonianze su ciò che accade nel lager. Quando milioni di persone avrebbero dato qualsiasi cosa per uscirne, lui, coraggiosamente, vi fece ingresso, per testimoniare un giorno la verità. La storia è stata resa pubblica per la prima volta da un giornalista della BBC, Rob Broomby, nel novembre 2009. Grazie a lui Denis ha potuto incontrare la sorella del giovane ebreo che salvò dal campo. Nel marzo del 2010, con una cerimonia presso la residenza del Primo ministro del Regno Unito, è stato insignito della medaglia come "eroe dell'Olocausto".
Sam Pivnik, figlio di un sarto ebreo, nasce a Bedzin in Polonia e trascorre una vita normale fino al primo settembre del 1939 - giorno del suo tredicesimo compleanno - quando i nazisti invadono la Polonia e la guerra spazza via in un attimo ogni possibilità di futuro. Da quel momento la sua vita non sarà più la stessa. Sam conosce il ghetto, i divieti imposti dai nazisti, il coprifuoco, gli stenti, il terrore per le strade. Poi, dopo un rastrellamento, tutta la sua famiglia viene deportata al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Strappato alla sua famiglia, che trova la morte nelle camere a gas, Sam subisce terribili soprusi e atrocità, e ogni giorno, alla famigerata Rampa di arrivo dei treni dei deportati, vede compiersi sotto i suoi occhi la più inenarrabile delle tragedie. Sopravvissuto alla crudeltà delle SS e dei Kapo, ai lavori forzati nella miniera Fürstengrube e alla "marcia della morte" nel rigido inverno polacco, Sam è infine tra i prigionieri sulla nave Cap Arcona, bombardata dalla Royal Air Force perché luogo di esperimenti dei nazisti su donne e bambini da parte delle SS. Ma ancora una volta, miracolosamente, riesce a salvarsi. Questo libro racchiude la sua testimonianza: la storia di un uomo che ha attraversato tutti i gironi dell'inferno nazista, ed è sopravvissuto per portare ai posteri la testimonianza di un orrore indicibile che non dovrà mai più ripetersi.
Che cosa avvenne ad Anne Frank dopo l'arresto? Questo libro racconta per la prima volta la drammatica conclusione della vita di Anne attraverso le commoventi testimonianze di sette donne ebree, sue compagne di prigionia nei lager nazisti. Ognuna di queste donne, tra le quali c'è anche Hannah Pick-Gosiar, la Lies Goosens del Diario, amica d'infanzia di Anne Frank, racconta la sua storia: la vita nei Paesi Bassi prima dell'invasione tedesca, l'arresto, la deportazione, la sopravvivenza nei campi di concentramento di Westerbork, Auschwitz-Birkenau e Bergen-Belsen. Sette storie diverse, che hanno però in comune la tragica esperienza della vita nei lager e l'incontro con una prigioniera che sarebbe diventata più tardi il simbolo stesso dell'Olocausto. Emerge da queste pagine il ritratto di una ragazza coraggiosa, la cui storia privata, scritta per rimanere lo sfogo segreto di una coscienza, s'è trasformata in un terribile atto d'accusa contro il fenomeno più agghiacciante del ventesimo secolo. Le testimonianze di queste donne, dalle quali l'autore ha tratto, oltre al libro, un documentario televisivo, ci raccontano gli ultimi giorni di Anne Frank, svelando una storia che ha inizio dove il diario drammaticamente si interrompe.
«In russo gari significa “brucia!”… Un comando al quale non mi sono mai sottratto, nella mia opera come nella vita. Voglio dunque fare qui la parte del fuoco perché, come si suol dire, in queste pagine il mio “io” vada in fiamme, bruci».
Con questo intento si apre il racconto della vita di Romain Gary, ebreo lituano naturalizzato francese a vent’anni, eroe di guerra, diplomatico, scrittore e, infine, suicida con un colpo di pistola alla testa, sparato non prima di aver indossato una vestaglia rossa, acquistata qualche ora prima in place Vendôme per non far notare troppo il sangue.
Apparso per la prima volta nel 1974 sotto forma di intervista fittizia, della quale Gary scrisse sia le domande sia le risposte, utilizzando come prestanome per le prime l’amico d’infanzia e giornalista svizzero François Bondy, La notte sarà calma è, in effetti, un magnifico libro attorno all’impossibilità stessa dell’identità.
«Io è un altro», l’affermazione di Rimbaud, sembra davvero il fil rouge dell’esistenza di Romain Gary, il motto che lo guida nella scelta degli pseudonimi – Fosco Sinibaldi, Shatan Bogat e soprattutto Emile Ajar, lo pseudonimo col quale scrisse La vita davanti a sé e beffò i giudici del Premio Goncourt vincendolo per la seconda volta – e nelle molteplici vite vissute o, meglio, nelle diverse maschere indossate: aviatore, diplomatico, uomo di mondo, cineasta, seduttore, scrittore.
È certamente vero che, dietro questo incessante moltiplicarsi di identità, Gary celasse «un’angoscia esistenziale» (Tzvetan Todorov). Come anche è vero che egli detestasse la realtà, non trovandola «all’altezza di ciò che la sua immaginazione gli dettava» (Stenio Solinas).
Tuttavia la deliberata volontà di «bruciare» di volta in volta il proprio «io», offrendo volti diversi di sé, nasce in Gary soprattutto da quello che lui stesso definiva la sua «parte Rimbaud»: il suo desiderio di assoluto, la sua ricerca di eternità in questo mondo, nella forza dell’amore e del sesso, nella lotta per la giustizia, anche quando le condizioni concrete gli apparivano avverse e disperate.
Perciò il lettore può scorgere in queste pagine non solo il racconto di una vita avventurosa e nel segno dell’eccesso, ma anche i temi senza tempo della grande letteratura: la morte e il dolore, la dignità e la sopraffazione, il sesso e l’amore.
L’autobiografia di Romain Gary. La vita di un seduttore, scrittore, aviatore, diplomatico, ebreo, patriota, cineasta. La vita di un uomo smisurato e geniale.
«Staccarmi dalle mie fantasie vorrebbe dire togliermi la ragione logica dell’esistenza» confesserà Emilio Salgari (Verona 1862 - Torino 1911), il più grande scrittore italiano di romanzi d’avventura, verso la fine della sua inquieta e tribolata esistenza. Ma quale crudele avversità avrebbe potuto staccarlo dalle sue fantasie, vale a dire dai suoi eroi e dalle loro straordinarie avventure? Non un solo evento ma la concomitanza di più eventi: non la nevrastenia che liquidava come «la solita malattia degli scrittori» di cui dichiarava di essere preda, ma la paura di diventare cieco, una sciagura letale per «un forzato della penna», e le condizioni psichiche della moglie Aida che di lì a poco sarebbe stata rinchiusa in manicomio, lasciandolo da solo a lottare contro una «semi-miseria» che imputava ai suoi editori, a governare una quotidianità fatta di magri, se non disperati, bilanci da far quadrare e di figli difficili ai quali badare: lui che fino a quel momento, più per predestinazione che per scelta, era stato estraneo alla realtà avendo bazzicato, nella malfamata taverna dell’immaginazione, pirati di tutte le risme, rajah, almee, capitani coraggiosi e cavalieri delle praterie. Aida era stata costantemente di guardia alla linea dell’orizzonte affinché il suo «capitano» potesse veleggiarvi oltre, tra tempeste immani ma docili, senza essere disturbato dalle tempeste indomabili dell’esistenza reale; era stata il sipario tirato tra due mondi incomunicabili. La sua malattia ha fatto sì che questi due mondi si scontrassero come violentissimi temporali estivi decretando la fine del più fragile, quello fittizio, fatto di eroi e fantasmi.
Questo libro è il racconto appassionante e documentato del travaglio di uno spirito inquieto e tragico, di uno di quei predestinati all’errare randagio nei territori sconfinati della fantasia, che si proiettava nei suoi eroi fino ad abdicare alla propria identità di piccolo uomo di provincia talora soggetto allo scherno di chi lo apostrofava come visionario e mentitore. Non poteva essere un visionario chi aveva scambiato la fantasia con la realtà, e non poteva essere un bugiardo chi raccontava l’unico mondo in cui sapeva vivere e in cui i suoi falsi gradi di capitano di gran cabotaggio rilucevano come stelle.
"Le Beau Chàteau" è la villa più costosa di tutto il Connecticut. Nove camere da letto, undici caminetti, un ascensore e persino un locale dove asciugare i tendaggi, per un totale di 1300 metri quadrati. A cui si aggiungono 21 ettari di bosco, con tanto di cervi, tacchini selvatici e fiume privato con cascata. Valore: 24 milioni di dollari. Questo paradiso terrestre, però, ha altre due caratteristiche ancora più eccezionali: è disabitato dal 1951 ed è solo una delle numerose dimore di lusso che la proprietaria, Huguette Clark -possiede in giro per gli Stati Uniti. Il giornalista Premio Pulitzer Bill Dedman non può di certo permettersi una casa del genere. Se ha risposto all'annuncio è stato per pura curiosità. Ma quando, dopo aver parlato con il custode del "Beau Chàteau, scopre che Huguette Clark ha quadri di Renoir appesi in salotto, Stradivari originali, e ancora una casa per le vacanze a Santa Barbara a picco sull'oceano Pacifico e ben tre appartamenti al 907 della Quinta Strada di New York ("l'indirizzo più esclusivo nella città più cara d'America"), non può fare a meno di scavare più a fondo in quel mistero. Chi è quella donna che possiede dimore la cui superficie complessiva equivale a quella della Casa Bianca? Come può permettersi di sprecare tanto denaro lasciandole sfitte? È vero, come dicono certe voci, che sia morta a 104 anni, dopo aver trascorso gli ultimi venti in un ospedale, nonostante le sue buone condizioni di salute?