
Una bambina attratta dalla scienza, poi studentessa di veterinaria con la passione della ricerca. Una donna determinata a raggiungere i propri obiettivi personali e professionali che diventa una scienziata di livello internazionale, il cui contributo allo studio dei virus è riconosciuto in Italia e all'estero. Una storia positiva di successo, finalmente, in un Paese come il nostro in cui non si fa che parlare di cervelli in fuga... Purtroppo no. Perché Ilaria Capua, virologa di fama mondiale, pluripremiata e riconosciuta da tutta la comunità scientifica, qualche anno fa scopre dai giornali di essere indagata, lei che ha dedicato la vita a combattere malattie ed epidemie, per un presunto traffico di virus e vaccini. Un'accusa vergognosa, preceduta da una campagna stampa infamante e risolta dopo anni in un proscioglimento. Eppure, scrive la Capua, "ho imparato molte cose da questa vicenda e penso di essere diventata una persona migliore. Se dovessi distillare un pensiero, uno solo, che incarna il mio vissuto, è che per sopravvivere l'essenziale è essere resilienti, e nessuno può farlo al nostro posto". Oggi Ilaria Capua dirige un centro di ricerca di eccellenza dell'Università della Florida. Una scelta sofferta, fatta per proteggere la famiglia e il suo lavoro dopo essere rimasta incagliata nei paradossi della giustizia, e ha deciso di raccontare la sua storia per non perdere la speranza. Perché un Paese come l'Italia deve imparare a investire nel futuro e deve ritrovare il coraggio di salvaguardare i propri talenti.
"'Tutto ciò che resterà della mia vita è quello che ho scritto.' Qualcuno l'ha detto pensando a se stesso, però sono parole che si adattano anche a me. Ho sempre voluto scrivere. Alla fine della scuola media, andavo per i tredici anni, mio padre Ernesto mi regalò una macchina Underwood di seconda mano, dicendo: 'Vedi un po'se la sai usare'. Mia madre Giovanna mi mandò a una scuola di dattilografia. Ma dopo un paio di lezioni, chi la dirigeva le spiegò: 'Giampaolo ha imparato subito quanto gli serve. Non butti via i suoi soldi'. Ho cominciato a scrivere nell'estate del 1948 e da allora non ho più smesso. Nell'ottobre 2015 di anni ne ho compiuti ottanta. E ho deciso che potevo permettermi questo libro. Non oso definirlo un'autobiografia, parola pomposa. Allora dirò che è il racconto personale di un vecchio ragazzo destinato a fare il giornalista. Non venivo da una famiglia di intellettuali. Mio padre era operaio del telegrafo. Mia madre aveva cominciato a lavorare a dieci anni ed era stata così brava da aprire un negozio di mode. La mia nonna paterna, Caterina, era analfabeta. Rimasta vedova con sei bambini da crescere, aveva vissuto nella miseria più nera. Troverete qui le loro storie, insieme a quelle di mio nonno Giovanni Eusebio, un bracciante strapelato, e di uno zio paterno, Paolo, un muratore morto a New York in un cantiere. I miei antenati sono questi. E se esiste un aldilà, guarderanno stupiti questo figlio che si è guadagnato il pane scrivendo.'" (G. P.)
Il 13 dicembre 2010 Walter Pedullà morì per arresto cardiaco; un minuto dopo, i medici del pronto soccorso rimisero il suo cuore in movimento grazie a un potente defibrillatore. Se Pedullà è sempre stato, per indole e poetica, un uomo della commedia più che della tragedia, superata quella soglia non c'era più alternativa: la sua vita ormai poteva raccontarla unicamente dalla prospettiva di chi ha imparato a ridere di tutto e di tutti perché non appartiene più a questo mondo e, senza smettere di amarlo, ha conquistato la distanza necessaria per smascherare le passioni e le illusioni (a cominciare dalle proprie). Dall'estrema povertà del Sud all'insegnamento universitario, dalla militanza socialista nelle campagne ai palazzi della politica romana, dall'impegno per ogni sperimentalismo letterario alla direzione delle massime istituzioni culturali del Paese, Walter Pedullà conduce i suoi lettori alla scoperta dell'Italia del secondo Novecento, cucendo assieme centinaia di aneddoti esemplari che gettano nuova luce sui maggiori protagonisti del secolo scorso. Non solo per ridere.
Un'icona indimenticabile, che questo libro con nuovi capitoli inediti celebra in occasione dei vent'anni dalla morte della principessa Diana. Come sarebbe stato rivelato solo dopo la sua morte, questo libro è stato scritto con la piena collaborazione di Lady D. Andrew Morton, giornalista investigativo, racconta tutta la verità sulla famiglia reale in un ritratto onesto e scevro da pregiudizi di una delle figure femminili più amate, ammirate e influenti del nostro tempo.
Chiunque incontri Bebe, o anche solo la veda in tv, rimane incantato dall'energia positiva che sprigiona a ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo. Come si spiega questo suo modo di essere che le ha permesso non solo di superare difficoltà apparentemente insormontabili, ma anche di raggiungere eccezionali traguardi sportivi? Sembra un mistero.Invece, se si leggono gli spassosissimi racconti dei tanti episodi raccolti in questo libro, si scopre che Bebe affronta ogni genere di ostacolo utilizzando strumenti e risorse che ciascuno di noi ha a disposizione... anche se spesso non se ne accorge nemmeno! Innanzi tutto, Bebe è da sempre consapevole che bisogna trovarsi un sogno da perseguire con la massima passione: per esempio, lei ha iniziato a cinque anni a desiderare con tutte le sue forze di andare alle Olimpiadi. Per raggiungere la propria meta è fondamentale poi imparare a collaborare con gli altri, fare squadra, chiedere aiuto perché «da solo non sei nessuno». Ma ci sono anche tanti altri alleati a portata di mano: l'ironia, la capacità di rimanere "scialli", il saper fare tesoro delle critiche positive stando però attenti a quelle cattive e agli hater. E persino la paura, un'emozione normalissima, può essere gestita: basta sapere come prenderla.Scritto con lo stile spontaneo e frizzante che contraddistingue Bebe, Se sembra impossibile, allora si può fare è una lettura che può ispirare e confortare persone di tutte le età, dai giovanissimi, che possono rispecchiarsi nella sensibilità e nel linguaggio fresco di una ventenne, agli adulti che si trovano a combattere battaglie quotidiane, magari impercettibili agli altri ma ugualmente gravose e impegnative.
Brunhilde Pomsel fu vicina come pochi altri suoi contemporanei a uno dei più grandi criminali della storia: Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda di Hitler. Sempre al suo fianco, sempre ai suoi ordini come segretaria e dattilografa. Brunhilde non si interessava di politica. Per lei venivano prima il lavoro, la sicurezza materiale, il senso del dovere nei confronti dei superiori, il bisogno di sentirsi parte di un sistema. Poco dopo l'ascesa di Adolf Hitler, si iscrive al Partito nazionalsocialista per assicurarsi un posto alla radio. Nel 1942 si trasferisce al ministero per l'Istruzione pubblica e la Propaganda ritrovandosi così accanto all'ufficio di Goebbels e nel centro nevralgico del potere nazista. Vi rimane fino alla capitolazione, nel maggio del 1945. Durante gli ultimi giorni di guerra, quando le truppe sovietiche sono già a Berlino, anziché cogliere l'occasione per fuggire resta nel bunker a battere a macchina i comunicati. Poi, per settant'anni, non racconterà niente a nessuno. Dal cuore di Berlino, l'autrice dipinge un ritratto inconsapevole, eppure inquietantissimo, della Germania prima, durante e dopo il Reich, raccontando una realtà sconcertante che mostra quanto l'indifferenza e la disillusione possano influenzare la democrazia. «Prima che la storia si ripeta» scrive Thore D. Hansen «individuare le analogie tra passato e presente ci offre l'opportunità di calibrare con cura la nostra bussola morale, in modo da renderci conto quando sia giunto il momento di schierarci, di alzarci e di opporci apertamente alla radicalizzazione. Con quanta superficialità prendiamo in considerazione i nostri criteri morali di valutazione? Per quali fini primitivi, immediati, banali e superficiali o per quali successi apparenti siamo pronti a sacrificare la nostra coscienza? Sono domande alle quali la storia di Brunhilde Pomsel non può e non potrà mai dare una risposta universalmente valida. Solo la disponibilità a riflettere di ciascuno di noi potrà produrla.»
Attraversare a nuoto il Canale della Manica è come scalare l’Everest. In quei trenta chilometri infuria incessante la battaglia tra il Mare del Nord e l’Atlantico, e il nuotatore che voglia rischiare l’impresa deve fare i conti con maree imprevedibili, correnti impetuose, acque gelide e condizioni atmosferiche mutevoli e infide.Trudy Ederle è stata la prima donna a compiere la traversata, nell’agosto del 1926, quando solo cinque uomini erano riusciti a vincere quel tratto di oceano. Lo ha fatto anticipando di oltre due ore il primato maschile e portando definitivamente alla ribalta il crawl americano, oggi lo stile libero conosciuto da tutti; lo ha fatto a poco più di vent’anni dal naufragio del General Slocum, la nave in cui centinaia di donne morirono a pochi metri dalla costa di New York, perché nessuna di loro sapeva nuotare; lo ha fatto a dispetto della sordità che l’accompagnava fin da bambina, e che ha sempre ostacolato il rapporto con gli altri. Lo ha fatto, infine, nonostante le sconfitte e le avversità, dimenticando l’insuccesso alle Olimpiadi di Parigi e il tentativo di avvelenamento subito durante la prima traversata.Trudy Ederle è stata una campionessa, una pioniera, un simbolo, un modello: ha demolito record e pregiudizi, sfidando le onde dell’oceano e i più grandi atleti della sua epoca, superando lo scetticismo di chi pensava che lo sport fosse affare da uomini e regalando alle ragazze di tutto il mondo la consapevolezza che tutto era possibile.
Nel 1519 Caterina de' Medici, appena nata, rimane orfana di entrambi i genitori; nel 1527 si ritrova sola, senza alcuna protezione, ostaggio dei nemici della sua famiglia, prigioniera in un convento di monache; nel 1533 sposa Enrico di Valois, uno dei figli del re di Francia, che è innamorato di un'altra donna, molto più anziana di lei; nel 1544, dopo anni di dolorosissima sterilità, riesce a partorire il primo figlio, che viene affidato però all'amante del marito; nel 1545 cade da cavallo e rischia di spezzarsi la schiena; nel 1554 promuove una guerra contro il lontano cugino Cosimo de' Medici che finisce in disastro; nel 1559 rimane vedova. E diventa regina di Francia. Quella della giovane Caterina, racconta Marcello Simonetta, è la storia romanzata del lungo apprendistato di una bambina che tra lutti, pericoli e tradimenti si prepara a diventare regina di Francia. Ma è anche la storia della guerra fratricida che legherà per sempre il destino dei Medici a quello di un'altra potente famiglia fiorentina, gli Strozzi, epigoni falliti della libertà d'Italia: "dei disperati, a loro modo titanici". Per molti secoli, Caterina è stata considerata una regina dispotica e spietata, dedita all'occultismo e alla magia nera. Questo libro ci dipinge invece una donna molto più complessa, capace di attraversare tempi convulsi esercitando semplicemente il potere che le spettava.
Una storia di amore e odio: è il romanzo della vita di Giuliano l'Apostata, l'imperatore romano che, nel IV sec. d.C., cercò di reprimere l'astro nascente del Cristianesimo e quasi vi riuscì. Louis de Wohl - narratore di "vite eccellenti" - illumina i lati più intensi del personaggio accompagnando il lettore in un'avventura unica, tra episodi storici e colpi di scena, lungo tutto l'arco della sua vita. Dall'educazione in un monastero all'ascesa al trono, fino al cuore della sua vicenda, quando Giuliano vide l'"ave Cesare" dei suoi soldati come l'opportunità di sconfiggere il Cristianesimo e rafforzare il suo potere, il talento narrativo di de Wohl non si limita all'imperatore: ci restituisce anche l'uomo Giuliano, con il suo amore per la cugina Elena, insieme tenero e tragico, forza essenziale della sua vita e del libro.
L'infanzia in via Vetulonia, i primi calci al pallone, la timidezza e la paura del buio, la vita di quartiere in una Roma che forse non esiste più. Gli amici che resteranno gli stessi per tutta la vita. Gli allenamenti a cui la mamma lo accompagnava in 126, asciugandogli i capelli con i bocchettoni in inverno. L'esordio in Serie A a 16 anni in un pomeriggio di marzo del 1993 a Brescia, con i pantaloni della tuta che al momento di entrare in campo si impigliano nei tacchetti; il primo derby, il primo gol, il rischio di essere ceduto alla Sampdoria prima ancora che la sua favola in giallorosso possa cominciare. E poi la gloria: caso più unico che raro di profeta in patria, venticinque anni con la stessa maglia, capitano per sempre, un palmares che annovera un epico Scudetto, due Coppe Italia e due Supercoppe Italiane, oltre ovviamente al Mondiale 2006 conquistato da protagonista con la Nazionale. E ancora il matrimonio da sogno con Ilary Blasi, la vita mondana attraversata sempre con leggerezza, con autoironia, con il sorriso grato di chi ha ricevuto in dono un talento straordinario e la possibilità di divertirsi facendo ciò che più ama: giocare a pallone. Con l'espressione eternamente stupita del ragazzo che una città ha eletto a simbolo e condottiero, oggetto di un amore senza uguali. Fino al giorno del ritiro dal calcio giocato, e di un addio che ha emozionato non solo i tifosi romanisti ma gli sportivi italiani tutti. Perché Totti è la Roma, ma è anche un pezzo della vita di ognuno di noi.
Giornalista e scrittore, Luca Goldoni ripercorre in questo volume la vita di Giuseppe Garibaldi, "l'amante dei Due Mondi". Combattente strenuo contro la tirannia e per la libertà degli oppressi, l'eroe risorgimentale, tra i padri della nostra Patria, fu infatti anche un irresistibile tombeur de femmes. Ed è proprio su questo aspetto, sul quale le biografie generalmente sorvolano, che Goldoni vuole puntare il suo sguardo indiscreto.
In "Totò, femmene e malefemmene" si affronta un tema finora mai analizzato in profondità: i turbinosi rapporti che nella sua vita Totò ebbe con l'altra metà del cielo. Scopriamo così un uomo dalla doppia personalità: da un lato geloso custode della sacralità della famiglia, dall'altro seduttore incallito e irresistibile, amante appassionato, libertino dalle mille e mille avventure vissute, però, con disincanto e sapendo che tutto era effimero come il trascorrere di un film o di uno spettacolo teatrale. Un libro ricco di passione, umanità e, naturalmente, anche di battute perché Totò vedeva la vita come una commedia che alla fine si risolve sempre in una battuta che strappava le risa, ma dal sapore, in fondo, amaro.

