
Questa è la storia di Titan Paul,
il ragazzo dal ginocchio bionico.
Ha avuto paura, in questi mesi:
paura di non farcela. Ma ha imparato
a tener duro. Ha capito che deve
continuare a ridere sfrontatamente
di fronte alle sfighe della vita e a
sognare come ha sempre fatto.
Un giorno farà lo chef
sulle navi da crociera.
NON MOLLARE TITAN PAUL!
Paolo ha appena finito la seconda media quando, nell’estate del 2008, mentre è in campeggio con gli amici, si accorge che qualcosa non va, il suo ginocchio sinistro è gonfio. Una volta a casa gli esami lo mettono di fronte all’ultima cosa che si sarebbe aspettato: ha un osteosarcoma… Cento casi all’anno in Italia: “Ma proprio a me?” Da quel momento cambia tutto: niente basket, niente computer (perché in ospedale non ci si può connettere), niente uscite con gli amici. Paolo capisce di dover mettere in campo una risorsa che non gli manca: un po’ di sfrontatezza; il coraggio di affrontare la “sfiga” tra impegni e distrazioni. Una lotta che decide di raccontare prima in un blog e poi in questo libro. Quattordici cicli di chemioterapia, quattro interventi chirurgici, sfilze di esami e terapie di riabilitazione sono narrati, da questo quattordicenne costretto a maturare troppo in fretta, in presa diretta e con incredibile leggerezza di sguardo. La vita d’ospedale (le sveglie all’alba, i deprimenti menù prosciutto-purè), l’antidoto del gioco (le bische clandestine coi compagni di stanza, le sgommate in carrozzina, gli scherzi dei clown). La paura, lo sconforto, e persino il dolore si possono superare grazie all’affetto di chi gli sta vicino e con la caparbia riconquista di spazi di normalità. Paolo rientra in classe dopo mesi di lezioni a domicilio, torna sui campi di basket a tifare per la sua squadra, esce coi compagni per una pizza. L’antidoto più potente, però, è la sua incredibile volontà di non lasciarsi sopraffare dalla malattia e non rinunciare mai ai propri sogni: vuole diventare un grande chef e lavorare sulle navi da crociera. Insieme alla capacità di andare incontro ai giorni con il sorriso sulle labbra.
Parte del ricavato dei diritti d’autore sarà devoluto all’AIRC, Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro.
Al circolo Parioli di via Tiziano era per tutti "Ascenzietto", il figlio del custode. Eppure, nonostante un'infanzia vissuta sui campi da tennis e in mezzo alla banda di "ragazzacci" di Nicola Pietrangeli e Bitti Bergamo, l'incontro di Adriano Panatta con lo sport che avrebbe segnato la sua vita è stato soprattutto un caso, io volevo fare nuoto, ma i corsi erano già chiusi. "Ti ho iscritto al tennis" mi disse mio padre. "Vabbe"' risposi. Lui ebbe un colpo di genio: prese una racchetta dismessa dal circolo e ne tagliò un pezzo con la sega consegnandomi una racchettina, attrezzo che a quei tempi non esisteva. Poi pitturò una rete sul muro e per terra delle righe che tracciavano un campo, io facevo il resto, immaginando grandi partite, nelle quali, non so come, ero sempre io a battere il muro." Adriano Panatta si racconta, e nei suoi ricordi rivivono il jet set di una Roma che oggi non c'è più, sorniona, fresca e godereccia, e quel tennis anni Settanta di cui proprio Adriano fu inventore, capo cordata, locomotiva. Grazie al suo gioco solare e mediterraneo, che rispondeva per la prima volta al bisogno di stupire e divertire il pubblico, gli italiani scoprirono in massa uno sport che in molti, fino ad allora, consideravano un passatempo per pochi. E fu grande amore.
Si spengono le luci.
È il momento di andare in scena.
Sì, questo è il mio mondo.
E quando l’ho capito è stato per sempre.
Eleonora Abbagnato sembra un angelo e nasconde su di sé un angelo: il tatuaggio che si è fatta a suggello di una grande storia d’amore. Un angelo la saluta tutte le mattine dalla cupola del Sacré-Coeur, a Parigi; una collezione di angioletti affolla il suo salotto; angeli d’oro la osservano dal soffitto mentre si allena prima di andare in scena all’Opéra, dove è prima ballerina: l’ultima tappa di un percorso in punta di piedi cominciato quando ancora piccolissima, a Palermo, frequenta la scuola di ballo sopra il negozio di sua madre. La piccola sala col parquet scricchiolante ha quell’odore di pece, l’odore inconfondibile che ritroverà nei grandi teatri del mondo. Ostinata, ribelle, decisa, Eleonora brucia le tappe e vince concorsi. A dodici anni il grande salto, la scuola di Montecarlo; il primo spettacolo importante, la Bella Addormentata di Roland Petit; poi la scuola di Cannes e, finalmente, Parigi. All’inizio all’Opéra è durissima: le ragazzine francesi sono tutte bellissime e bravissime. Ma ancora una volta la sua determinazione vince, riesce a zittire anche la nostalgia di casa. Eleonora cresce, affronta esami, entra nel corpo di ballo del teatro, lavora con grandi coreografi, diventa prima ballerina. L’angelo è arrivato in vetta, la danseuse nota in tutto il mondo conosce altri artisti come Claudio Baglioni ed Eros Ramazzotti, entra nel mondo della moda e dello spettacolo, si innamora.
Spontanea, ironica, intensa, in queste pagine Eleonora Abbagnato ci racconta la sua vita di ieri e di oggi, un percorso straordinario, costruito con passione e perseveranza, che l’ha portata proprio dove voleva essere.
Scriveva in una lettera Giovannino Guareschi: «Posseggo un grosso capitale che nessuna inflazione, nessuna rivoluzione potrà mai portarmi via: il ricordo vivo di una giovinezza intensamente vissuta e mai tradita. E il ricordo di quei cinque, o dieci o quindici giorni che rappresentano nella vita di ogni uomo, anche dell’uomo che campa cent’anni, qualcosa di diverso, d’importante, d’indimenticabile. La vita è breve proprio per questo: anche se si campa un secolo, si “vivono” pochissimi giorni».
I due figli di Guareschi, Alberto e Carlotta – noti in tutto il mondo come “Albertino” e “la Pasionaria” –, che da anni si occupano con intelligenza e grande sensibilità delle opere del padre, sono andati alla ricerca della sua giovinezza e dei pochi, fondamentali giorni della breve ma intensa vita di Giovannino. I loro ricordi, e il loro nutritissimo archivio, creano così una miniera di storie, di personaggi ed episodi inediti per i tanti affezionati lettori del grande autore della Bassa: insieme con loro scopriamo che il “vero” Peppone era il socialista Giovanni Faraboli, che il primo don Camillo era don Lamberto Torricelli, arciprete di Marore, che il paese dove si svolgono le storie del prete e del sindaco più famosi del mondo è Roccabianca, che il «Mondo piccolo» è la Bassa parmense. Scopriamo le vicende dei Lager nazisti nei quali Guareschi fu internato, la «Resistenza bianca» di cui fu tenace protagonista («Non muoio neanche se mi ammazzano!»), la storia del processo De Gasperi in forma di fotoromanzo. Scopriamo infine il rischio corso da generazioni di spettatori: che don Camillo non fosse interpretato da Fernandel ma da Gino Cervi, con Giovannino nei panni di Peppone...
Una serie inesauribile di storie splendidamente illustrate da centinaia di immagini, fotografie, disegni: un eccezionale “album di famiglia” che tuttavia, come scrive Giovanni Lugaresi, uno tra i maggiori conoscitori italiani di Guareschi, «non rappresenta un fatto strettamente privato, perché in quelle immagini che mostrano ambienti, humus, fantasia, intelligenza, sentimenti, princìpi, valori di Giovannino, c’è una fetta di storia del nostro tempo, al di là di un “mondo piccolo” che finisce per dilatarsi ai quattro angoli della Terra, rappresentando un “paese dell’anima” nel quale ciascuno di noi può identificarsi, o comunque trovarsi... È un percorrere – continua Lugaresi –, scorrendo queste pagine, la sua vita, la sua storia personale, che sono anche vita e storia d’Italia...». Mezzo secolo della nostra storia, della nostra vita, attraverso le vicende di un uomo straordinario: Giovannino nostro babbo è uno struggente “come eravamo”, un autentico regalo di Natale per gli innumerevoli appassionati lettori del grande “poeta” della Bassa. I quali, nell’eventuale occasione di una gita alle Roncole, nei pressi di Busseto, potranno ammirare una mostra antologica sul medesimo argomento, di cui il presente volume costituisce un ideale, splendido catalogo.
In un giorno di febbraio degli
anni di piombo, Valerio muore
assassinato in casa sua. Sua
madre cerca ancora la verità.
E` il 22 febbraio 1980. Valerio, diciannove anni, viene ucciso con un colpo di pistola alla nuca nella sua casa di Monte Sacro a Roma. I genitori sono nella stanza accanto, legati e imbavagliati. Dopo svariati tentativi di depistaggio l’assassinio è rivendicato dai Nuclei armati rivoluzionari, un’organizzazione neofascista, ma gli esecutori non saranno mai identificati. Chi era Valerio Verbano? Perché è stato ucciso? Vicino all’area dell’Autonomia operaia, stava raccogliendo un dossier sui collegamenti tra alcuni gruppi dell’estrema destra e settori della malavita cittadina, incluse vicinanze e coperture degli apparati statali. Il materiale, sequestrato durante una perquisizione, scompare dagli archivi alla morte del ragazzo. Ricompare sotto gli occhi del giudice Mario Amato, responsabile dell’indagine, che poche settimane dopo muore in un agguato. Alcune prove smarrite e altre, inspiegabilmente, distrutte; infine l’inchiesta si arena in un fascicolo denominato “atti contro ignoti”. Del dossier Verbano non si è più saputo nulla. Intanto la mamma di Valerio, dallo stesso salotto in cui si svolse la tragedia, continua a chiedere giustizia: non solo per sé, ma per tutte le famiglie devastate dalle raffiche degli anni di piombo. Carla a sessant’anni ha imparato a sparare, a ottanta a navigare in Internet; ha incontrato poliziotti, carcerati, ex terroristi, e non rinuncia a inseguire il colpevole. Oggi racconta quel giorno di trent’anni fa, il fuoco incrociato di un quartiere in preda alla guerra civile, la sua indagine sui retroscena di un delitto impunito: è una storia di dolore e di coraggio, uno sguardo rivelatore sui misteri di un’epoca oscura. E un messaggio per l’assassino che un giorno, lei lo sa, verrà a bussare alla sua porta.
Una biografia illustrata da Allegria a Zapping
“Ripensandoci, fin da bambina avrei
dovuto capire che Enzo Biagi non era
un padre tradizionale.”
Il 6 novembre 2007 una folla si raccoglie in un cortile di via Quadronno a Milano: davanti alla camera ardente di Enzo Biagi parenti e amici sono attorniati da centinaia di persone, venute a porgere l’ultimo saluto a uno dei più grandi giornalisti del Novecento. In quel momento le sorelle Biagi si accorgono di far parte di una famiglia molto più grande, e iniziano un giro dell’Italia – tra tributi di gratitudine, celebrazioni e inaugurazioni – che l’autrice racconta in questo diario, con pagine limpide, accorate, ironiche e lievi. Incontrando con la sorella gli amici del padre, i suoi colleghi di ieri e i giovani di oggi che si ispirano a lui, riaffiorano alla memoria i ricordi d’infanzia, la cura premurosa di un papà “precursore dei tempi”. In viaggio con mio padre è il ritratto inedito di un uomo che per oltre mezzo secolo di lavoro ha considerato il giornalismo come un servizio che si rende al Paese e che ha lasciato in eredità alle sue figlie una passione smisurata per la libertà.
Una vicenda palpitante, generosa
di tinte mediterranee, ricca di eros ed
emblematica dell’Italia del dopoguerra.
—la Repubblica
Nel settembre del 1945 Edda Ciano, figlia prediletta di Mussolini e vedova del ministro degli Esteri fascista Galeazzo Ciano, viene mandata in confino a Lipari. Edda era stata una donna intelligente e irrequieta, figura di rilievo anche politico durante il fascismo nonostante la propria natura ribelle: beveva, fumava, portava i pantaloni e accettava i tradimenti del marito, ricambiandoli; quando giunge sull’isola è fiaccata dal dolore, dalla solitudine e dalla malattia. Qui incontra l’ospitalità prima e l’interesse poi del giovane capo del Pci locale: Leonida Bongiorno, partigiano ed erede di una solida tradizione antifascista. La loro storia è quella di un incontro che sembra impossibile e che pure li legherà per sempre. Marcello Sorgi ricostruisce con finezza un’inedita pagina di storia capace di rappresentare i contrasti ideologici e il desiderio di pacificazione di un’Italia che cerca di dimenticare la guerra. Attraverso le lettere, le numerose testimonianze e le fotografie che ritraggono Edda con gli occhi innamorati di Leonida, Edda Ciano e il comunista racconta una passione che brucia ogni convenzione e che cambierà profondamente la vita di entrambi.
“Guarda qui che cicatrice mi sono fatto. Me lo ricordo ancora.
Il profumo del pane. Mi piaceva da matti. Il problema era che piaceva anche a lui, al cane gigantesco che comincia a rincorrermi.
Ero soltanto un bambino.
Ho iniziato a correre quel giorno e non mi sono fermato più.
Io andavo avanti per quella strada di polvere, scalzo, con il sacchetto del pane in mano e le poche monete di resto.
L’ho seminato, ovvio, il disgraziato. Ma ho colpito in pieno un ferro che spuntava da non so dove.
Le strade di Nkon non sono mica perfette come il Camp Nou.
O San Siro.”
Se deve scegliere una sola immagine dal suo – primo – annus mirabilis con l’Inter, Samuel Eto’o pensa al re Juan Carlos, dopo la finale di Champions al Bernabeu, che gli dice una cosa semplice e bella: «Felicitazioni, hermano». In quel momento gli scorre davanti agli occhi tutta la sua vita, l’infanzia in Africa dove si trova a scegliere tra bicicletta e pallone, i rimproveri della madre che non voleva vederlo perder tempo a giocare, una Mercedes nera del Real che si addentra nel suo quartiere perché qualcuno deve chiedergli: “Vorresti fare un provino da noi?”. Eccolo allora atterrare a Madrid in calzoni corti e con un gran freddo e lì, subito, mettersi a correre come un nero per vivere come un bianco, collezionando completini del Real (e non usandoli praticamente mai). Il resto è storia del calcio, spagnolo, africano e italiano, una cavalcata elettrizzante, senza precedenti, macchiata solo qua e là da quei buuu razzisti di chi non capisce che hermano, fratello, è la parola giusta da usare con qualsiasi uomo, proprio come ha fatto il re.
Samuel Eto’o non è soltanto un calciatore fenomenale, oggi implacabile trascinatore del sogno nerazzurro. È anche l’esempio vivente della stupidità di ogni razzismo e un’icona dell’Africa che cresce in campo e fuori. Veloce di pensiero, non solo di gambe, sorprendente, profondo, spassoso, ammalierà tutti con I piedi in Italia, il cuore in Africa. Come quando è in campo.
Figlia della buona borghesia americana, educata nella stessa scuola di Jackie Kennedy, Mimi Alford ha diciannove anni quando ottiene un lavoro estivo all'ufficio stampa della Casa Bianca: "Tutti sembravano rifulgere della gioia di far parte di qualcosa di speciale. Quella sensazione s'impadronì in fretta anche di me". È il giugno del 1962, nello Studio Ovale siede l'uomo che ha incarnato il mito dell'America liberal, icona dell'eterna giovinezza e celebre seduttore: John Fitzgerald Kennedy. Una nuotata in piscina, un cocktail di troppo, e JFK seduce la sua impiegata, vergine, inesperta e inebriata dalle sue attenzioni. Alla prima volta nella camera di Jackie ne seguono molte altre: anche dopo la fine del suo stage, tornata al college, Mimi comincia una doppia vita fatta di telefonate clandestine e improvvise convocazioni a Washington o richieste di accompagnare l'amante nei suoi viaggi. Non si fa illusioni ma avverte di essere, in qualche modo, necessaria a quest'uomo difficile, distaccato, potentissimo. Nei diciotto mesi della loro relazione ha la possibilità di conoscerne lati nascosti: la sua dipendenza dal sesso, certo, ma anche l'amore incondizionato per i figli, la paura della solitudine, l'ambizione smisurata. Poi, il 22 novembre 1963, davanti a un televisore, Mimi condivide con la Nazione intera il trauma dell'attentato di Dallas: la favola di Camelot finisce, all'improvviso e per sempre
Amedeo Guillet è uno degli eroi dimenticati del Novecento italiano. Nato a Piacenza nel 1909, allo scoppio della Seconda guerra mondiale si trovava nell’Africa italiana come comandante di un reparto di cavalleria indigeno. Con i suoi uomini si rese protagonista di azioni memorabili: conosciuto come cummundar-as-sheitan, il “comandante diavolo”, affrontò le superiori truppe inglesi meritandosene il rispetto grazie al genio tattico e al coraggio. Per sopravvivere dopo la sconfitta degli alleati e una strenua resistenza privata, cambiò nome e si finse acquaiolo, maniscalco, veterinario, fino a rifugiarsi nello Yemen e diventare consigliere dell’Imam. Tornato clandestinamente in patria nel 1937, combatté per la liberazione dai tedeschi; dopo il referendum del 2 giugno abbandonò la divisa in nome della propria lealtà al re, e si dedicò alla carriera diplomatica nei Paesi arabi. Una vita intensa, al termine della quale si è ritirato nella tranquilla campagna irlandese. Sebastian O’Kelly ci guida alla scoperta del Lawrence d’Arabia italiano, e in un saggio preciso e appassionato ne racconta vita, avventure e amori raccogliendone anche la viva testimonianza. Una vicenda umana coinvolgente ed esemplare, la storia straordinaria dell’ultimo protagonista di un’epoca e un mondo che sembrano ormai dimenticati.
Non ci pensiamo mai, ma la vita può deragliare improvvisamente. Bastano due parole. È successo il 19 maggio 2009 a Pietro Calabrese, una carriera luminosa nel giornalismo e un’esistenza piena. Nel suo caso le due parole sono state addensamento polmonare, pietoso eufemismo per significare che è entrato di diritto nella costellazione del cancro (quale acutezza nella battuta di Woody Allen: “Oggi le due parole che è più bello sentirsi dire non sono ‘ti amo’ ma ‘è benigno’”). In questo libro tanto lucido quanto toccante Calabrese racconta il suo cammino, giorno per giorno, dopo quel fulmine a ciel sereno. Un cammino che passa per l’altalena dello sconforto e della speranza, per le notti sotto l’assalto molesto dei pensieri e per il ricordo sognante di quando la notte – invece – si parlava d’amore, per il tempo che diventa sospeso e per il calore benefico delle persone care (“già, e adesso chi lo dice agli amici?”). Ed è un cammino che passa inevitabilmente per la brutalità delle cure e per un corpo devastato in cui non ti riconosci più. Eppure, a un certo punto, fa una svolta radicale e diventa un cammino di crescita e di consapevolezza nuova. Raggiunta durante una chiacchierata con un amico sotto un baobab africano, il monumentale albero dei mille anni. Da lì Pietro, scoprendo una verità semplice e rivoluzionaria ma nascosta, lancia a tutti un messaggio salvifico, scritto con la penna del grande giornalista ma pensato con la mente e con il cuore dell’uomo.
Pietro Calabrese, nato nel 1944 a Roma da genitori siciliani e scomparso il 12 settembre 2010, a pochi giorni dall’uscita di questo libro, è stato una delle firme più note del giornalismo italiano. Ha diretto “Il Messaggero”, “Capital”, “La Gazzetta dello Sport” e “Panorama”. Ha firmato alcune rubriche fisse su periodici, fra cui Moleskine su “Sette”. Proprio da questa rubrica, subito dopo che nel maggio 2009 gli era stato diagnosticato un tumore al polmone, ha cominciato a raccontare la sua storia attribuendola all’amico Gino. I lettori lo hanno sommerso di mail e lettere comunicandogli una “vicinanza amorosa” che gli ha dato forza e conforto. Grazie, popolo di Gino!

