
Quando, il 15 ottobre del 1917, la bellissima spia Margaretha Zelle, conosciuta in tutta Europa come la ballerina orientale Mata Hari, cade sotto i colpi del plotone di esecuzione francese, la notizia riecheggia ovunque, dall’Egitto a New York. La sua spettacolare esistenza ha infatti incrociato quella di molte personalità del mondo politico e culturale: Gabriele d’Annunzio e Colette, Lawrence d’Arabia e Claude Debussy, Ernest Hemingway e Filippo Tommaso Marinetti; ma anche ufficiali dell’esercito, ambasciatori e capi di stato. In molti si sono lasciati sedurre da Mata Hari, in molti l’hanno amata o invidiata; tutti ne hanno conservato un’impressione vivida, un ricordo preciso. A partire da testimonianze e documenti del tempo, lo scrittore Giuseppe Scaraffia ripercorre il filo che unisce queste vite e racconta i giorni del processo, della condanna e della fucilazione di Mata Hari: un affresco romanzesco in cui vicende personali e grandi eventi della storia del Novecento si intrecciano. Il ritratto di un’epoca e di una delle sue protagoniste femminili più affascinanti.
Nel luglio 1986 Ian Thomson, un giovane giornalista inglese già autore di interviste a scrittori italiani come Calvino, Moravia o Natalia Ginzburg arriva a Torino per incontrare Primo Levi. L'autore di "Se questo è un uomo" ha quasi sessantotto anni, la barba ben spuntata e gli occhiali con la montatura di metallo. Le maniche della camicia arrotolate rivelano il tatuaggio sull'avambraccio sinistro con il numero 174517 ma nonostante lo spettro di Auschwitz che aleggia per la stanza, Thomson racconta di un uomo serio e dolce allo stesso tempo, che parla con generosità di chimica e alpinismo, editoria e fantascienza, dando vita a una conversazione piena di un'allegria inaspettata. Nove mesi dopo, l'11 aprile 1987, Levi si suicida gettandosi nella tromba delle scale della sua casa di Torino. Un evento tragico in cui si enuclea il più profondo dramma del Novecento. Non solo l'Italia ma il mondo intero è sconvolto dalla perdita di un uomo con "lo spessore morale e l'equilibrio intellettuale di un titano del ventesimo secolo" come lo definisce Philip Roth. Ian Thomson ha passato più di cinque anni inseguendo parenti, amici o semplici testimoni: annota oltre 300 testimonianze, raccoglie immagini, consulta fonti di archivio. Da questo lungo lavoro di scavo esce un ritratto complesso di Levi, che prova a sbrogliare la matassa di una vita trascorsa fra la chimica e la letteratura, la fabbrica e la macchina da scrivere. Thomson, evitando di schiacciarsi sull'autobiografia finzionale costruita da Levi stesso e aggirando la sua nota riservatezza, ricostruisce il suo rapporto con la fami
Leonardo, che ancora nella pancia scalcia così forte da staccare la cartilagine di una costola alla mamma, Chiara («In trent’anni di lavoro non ho mai visto una cosa del genere», dice il radiologo).
Leo, che da neonato piange senza sosta e dorme pochissimo; che appena impara a usare le mani vuole smontare le prese elettriche e appena impara a camminare corre e sbatte dappertutto.
Leo, che al parco giochi spinge e picchia gli altri bambini, e non si capisce perché.
Come mai non si calma, come tutti (nonni, pediatri, maestre d’asilo) assicurano che farà, col tempo? Perché Chiara non riesce in nessun modo a farlo comportare da “bravo bambino”? Forse hanno ragione in paese, dove in tanti reputano Leo un teppistello maleducato e lei una cattiva madre?
Leo non sembra un bambino ma due: uno è ribelle, agitato, non sta fermo un attimo e non ubbidisce, ha reazioni imprevedibili e a volte violente; l’altro è dolce, intelligente, capace di dare attenzioni e ricevere affetto.
Con l’aiuto di una psicologa infantile, Chiara scopre che Leo soffre del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), una sindrome di cui si sa ancora molto poco, nelle famiglie e nelle scuole, nonostante le diagnosi si stiano in questi anni moltiplicando.
Oggi che Leo ha dieci anni, che ha degli amici a scuola e fuori, che suona la batteria e gioca a basket, Chiara ha deciso di raccontare la loro storia, così che sempre meno genitori si ritrovino smarriti di fronte a questi bambini, sempre meno insegnanti li trattino come piccoli delinquenti, sempre meno persone li giudichino, li isolino, non li capiscano.
Dal dolore di una famiglia, la speranza di un riscatto sociale e educativo per i nostri ragazzi. «Questo libro racconta una brutta storia: l'accoltellamento di mio figlio Arturo, lasciato quasi senza vita da quattro ragazzini un pomeriggio di dicembre sotto le luminarie del Natale. Da quell'episodio ho incontrato migliaia di persone. Ho stretto mani istituzionali e mani che odoravano di varechina. Sono stata in televisione e ho visitato territori e incontrato tante comunità, fino a fondare un'associazione per il contrasto alla violenza minorile, che si chiama ARTUR. In queste pagine io racconterò la storia di Arturo per come l'abbiamo vissuta noi, per le cicatrici che ha lasciato e le opportunità che ci ha donato, mentre Nello Trocchia, da esperto giornalista d'inchiesta, si servirà degli atti giudiziari, delle intercettazioni ambientali e delle trascrizioni dei colloqui in carcere per scandagliare la realtà che ha permesso tutto questo, tra piccola criminalità e bullismo. Questo libro prova a ricucire i lembi di una ferita che solo nei fatti ha un luogo e una data, il 18 dicembre 2017 in via Foria, ma che esiste da molto più tempo e si allarga di giorno in giorno nell'indifferenza e nell'ipocrisia degli adulti che preferiscono non guardare, disinteressandosi dei propri figli oppure coinvolgendoli nelle loro vite già criminali. Abbiamo provato a far nostro il dolore di questi ragazzi, tutti quanti, carnefici e vittime. Perché se il dolore di Arturo l'ho conosciuto fin troppo, è difficile da madre e da pedagogista non soffrire di fronte a questi adolescenti disumanizzati, cresciuti all'ombra dell'irresponsabilità delle loro famiglie e della società intorno. Le cicatrici di Arturo hanno dato a lui e a me il coraggio di trasformare una storia personale in una grande occasione collettiva. Ci stiamo provando, insieme.» (Maria Luisa Iavarone)
Si racconta che nel 1899 un giovane Winston Churchill, corrispondente del "Morning Post" durante la seconda guerra boera, abbia incoraggiato un uomo appena ferito di striscio al grido di: «Nervi saldi, ragazzo! Nessuno viene colpito due volte lo stesso giorno». È solo uno degli infiniti aneddoti sul suo conto, ma mette in luce lo strano mix di ironia e cinismo, decisione e combattività che lo portò a essere uno degli uomini più importanti del Novecento. Sono talmente celebri le sue battute, la sua risolutezza, il suo acume, da far venire il dubbio che in qualche modo Churchill abbia sfruttato le sue doti narrative per costruire in vita un monumento a se stesso: è pur sempre l'unico statista ad aver vinto un premio Nobel per la letteratura. Ma è stato davvero l'uomo del destino, che l'Occidente liberale ha contrapposto ai più bui totalitarismi? Reduce da "Napoleone il Grande", lo storico Andrew Roberts accetta questa nuova sfida e attinge a una sterminata documentazione (fra cui i diari privati di re Giorgio VI, usati per la prima volta) per redigere anche di Churchill la biografia definitiva. Ne rievoca l'infanzia all'interno dell'aristocrazia inglese, fino all'apprendistato militare in India, segue poi i primi incarichi politici e i compiti assegnatigli durante la prima guerra mondiale. Qui Churchill impara a risollevarsi dalle sconfitte, facendo tesoro dei suoi stessi errori: come stratega militare fallisce la campagna di Gallipoli, così che all'indomani del conflitto mondiale si trova progressivamente estraniato dal cuore della politica inglese. Eppure, con l'acume e la verve del polemista, è fra i primi a scorgere il pericolo dei totalitarismi. Così, quando il Regno Unito chiama, è pronto a rispondere: torna alla ribalta durante la seconda guerra mondiale, dimostrando di saper trattare alla pari con Unione Sovietica e Stati Uniti, e nell'ora più buia diviene la voce della nazione, l'uomo risoluto ma fiducioso nel futuro della democrazia attorno a cui si stringe un intero popolo e forse l'intero continente. Lontano dall'agiografia ma non immune al fascino del personaggio, "Churchill, la biografia" restituisce tutte le luci dell'intelligenza e le ombre del carattere (tra sospetti di alcolismo, cronica umoralità e crolli depressivi) di un uomo che non fu un predestinato, ma un fabbro del proprio, e del nostro, destino.
Nel 1935 Winston Churchill ha sessant'anni. Dalla casa di campagna di famiglia, scrive all'amata moglie Clementine e le racconta di come stia sperimentando un nuovo modo di parlare in pubblico, più rilassato e colloquiale, che sembra deliziare tutti in parlamento. Nella stessa lettera si lamenta di quanto stia male la barba al figlio, si duole per la loro capra bruna morta accidentalmente, gioisce per quella bianca che invece aspetta dei capretti e, tra una cosa e l'altra, riferisce di come, a quanto pare, la Germania sia velocemente diventata la più grande potenza armata d'Europa. È così, bilanciando le grandi svolte della storia mondiale con i dettagli della vita familiare, che questo libro traccia una minuziosa e sorprendente biografia di Churchill attraverso la corrispondenza più intima che spedì nel corso della sua vita. Come un controcanto alle biografie ufficiali, lo vediamo fuori dal parlamento, lontano dai palcoscenici e dalle vibranti dirette radiofoniche, quando si sedeva al tavolo, in vestaglia da camera, e scriveva ai familiari e agli amici - che, certo, spesso erano del calibro del primo ministro Asquith, del presidente americano Roosevelt, dell'indipendentista irlandese Éamon de Valera o del presidente francese Charles de Gaulle. Ma non solo: troviamo le lettere di un Winston bambino che implora la madre di essere portato al circo, o di un Churchill adolescente che mostra già la sua vena polemica lamentandosi dello stato in cui versano le aule in cui studia. E scopriamo, leggendolo coi nostri occhi, il primo affacciarsi di un pensiero, quello di fare politica: quando il futuro primo ministro ha vent'anni, e scrive che forse più della carriera militare è la politica la sua strada, «un bel gioco da giocare, per cui vale davvero la pena aspettare una buona mano». Attraverso il dramma, l'immediatezza, le tempeste, le depressioni, le passioni e le sfide della sua straordinaria carriera, queste lettere ci portano nella storia del Novecento attraverso la vita di un uomo sì esemplare, ma anche e soprattutto un essere umano con le sue emozioni, le sue fragilità e un ego gigantesco.
La vita di uno dei protagonisti della storia più recente: le vicende che hanno trasformato un ribelle nel più grande leader del suo Paese. Età di lettura: da 7 anni.
Il libro raccoglie i contributi dei relatori ai due convegni organizzati dal Centro Filippo Buonarroti in collaborazione con Ilaria Vinassa de Regny ed il Museo di Storia Naturale di Milano, in occasione del bicentenario della nascita di Darwin (il 28 ottobre 2009) e del 400° anniversario delle prime osservazioni con il cannocchiale di Galileo (il 21 gennaio 2010). Ci sembrava infatti un peccato lasciare che i qualificati interventi degli studiosi intervenuti ai due convegni si perdessero nella labile memoria individuale dei partecipanti; abbiamo così pensato di raccogliere le relazioni, opportunamente ampliate, e di arricchire il libro con materiale di documentazione in modo che fosse utilizzabile non solo dai professori ma anche dagli studenti (segnaliamo in particolare il famoso scritto di Lewontin e Gould sui Pennacchi di San Marco). Il libro è perciò diviso in due parti, la prima dedicata a Galileo e la seconda a Darwin.
La biografia di Pancho Villa, il rivoluzionario messicano entrato nella leggenda, scritta nello stile di Paco Taibo, che in tanti anni di ricerche ha dipanato un groviglio di aneddoti, dicerie, falsità o mitizzazioni. Un affresco della più complessa rivoluzione - la prima del XX secolo - seguendo la vita avventurosa, temeraria e tormentata dell'uomo che si chiamava in realtà Doroteo Arango, bandito per ribellione ai soprusi dei latifondisti divenuto generale della División del Norte, un esercito talmente disciplinato e ben organizzato da suscitare all'epoca l'interesse di osservatori militari europei e statunitensi. Questo libro ricostruisce le peripezie, dai particolari più stravaganti alle imprese memorabili, di un uomo sagace e imprevedibile, illetterato che fondò scuole in tutti i territori conquistati, astemio in un ambiente di forti bevitori, dallo sguardo magnetico.
A cinquantanove anni, trentotto dei quali trascorsi in cella, Renato Vallanzasca rimane nei ricordi di questo paese, nell'immaginario delle vecchie e delle nuove generazioni, il volto del bandito, l'emblema di una vita criminale "al massimo", l'icona violenta di una città e di un'epoca: l'inquieta e brumosa Milano degli anni Settanta. Di lui tanto si è detto e si è scritto, i contorni della cronaca sono presto sfumati nella leggenda, ed è proprio questo uno dei motivi che hanno portato l'uomo a guardarsi allo specchio, a frugare nel secchio della memoria, a incontrare Carlo Bonini per raccontare una volta per tutte la propria versione dei fatti, "la vera storia di Renato Vallanzasca". L'ex boss della Comasina ha rapinato, ha ucciso. "Per pudore" nei confronti delle sue vittime, spiega, non ha mai chiesto perdono. "Per lealtà con se stesso" e con il suo personale codice d'onore, ha sempre rifiutato di vestire i panni del collaboratore di giustizia. E con lo stesso rigore e la stessa lucidità ricostruisce il suo passato, senza cadere in compiacimenti, facili ipocrisie o repentine e sospette conversioni. È una storia di sangue, quella di Renato Vallanzasca, una storia non priva di sorprese, stravaganze e inediti retroscena, una storia che affonda le sue radici in un'infanzia ribelle, in quella che appare come una precoce vocazione al crimine.
Quella di Zdenka Fantlova è una storia vera, che andrebbe raccontata ogni giorno nelle scuole. "Sei campi. Sopravvissuta a Terezin, Auschwitz, Kurzbach, Gross-Roen, Mauthausen e Bergen – Belsen" è il racconto toccante e autentico di una ragazzina di diciassette anni che nel 1939 vive l’occupazione nazista della Boemia e da ebrea, nel 1942, viene deportata insieme alla famiglia e al fidanzato Arno, a Terezin, un campo di concentramento a nord –ovest di Praga. Suo padre era già stato deportato a Buchenwald e nel 1944 lei, la madre e la sorella Lydia vengono mandate ad Auschwitz. Purtroppo la madre non sopravvive mentre Zdenka e Lydia si spostano a Kurzbach e nel terribile campo di Gross – Rosen, una specie di inferno per i malcapitati che ci transitarono. Le ultime tappe del loro terribile giro dei campi di concentramento sono Mauthausen e Bergen – Belsen. Qui Lydia muore e solo Zdenka sopravvive incredibilmente a tutto questo, a sei campi di concentramento, alle torture, alla fame, alla tristezza. Oggi Zdenka Fantlova ha novantacinque anni e continua a raccontare, in giro per il mondo, la sua incredibile storia e lo fa perché nulla di tutto questo venga dimenticato e perché la memoria possa salvare il mondo. In "Sei campi. Sopravvissuta a Terezin, Auschwitz, Kurzbach, Gross-Roen, Mauthausen e Bergen-Belsen", questa donna coraggiosa e fortissima mette finalmente sulla pagina bianca il suo terribile passato e continua a renderlo verità.