
Imprenditore illuminato, "utopista tecnicamente provveduto", sindaco e deputato al Parlamento, Adriano Olivetti (1901-1960) è stato uno degli italiani più originali e lucidi del Novecento. Idealmente inserito nel solco della tradizione di un socialismo consapevole e riformista, ha intuito con anticipo la crisi dei partiti politici e dei sistemi urbani metropolitani.
Uomo intimamente religioso, di padre ebreo e madre valdese, si era convertito al cattolicesimo, leggeva con passione Emmanuel Mounier, Jacques Maritain e Simone Weil e amava costellare i suoi discorsi di citazioni evangeliche. Laureato in Chimica industriale al Politecnico di Torino, Olivetti aveva soggiornato negli Stati Uniti per studiare i metodi produttivi e la struttura organizzativa delle grandi fabbriche americane, un'esperienza che lo aveva portato a rinnovare radicalmente l'azienda paterna di Ivrea - la prima a produrre in Italia macchine per scrivere - trasformandola in una multinazionale. Alla ricerca di un rapporto armonico tra città e campagna, fra industria e comunità - ma senza angustie municipaliste e paternalismi strapaesani - Olivetti aveva rinunciato al sistema a cottimo e aveva modificato la catena di montaggio affinché la sua fabbrica diventasse un modello di socialità e di industrializzazione senza disumanizzazione.
Sommario
Prefazione. L'uomo e le sue idee. Un imprenditore creativo. Politica e comunità. La terza via. Vangelo e rivelazione. Documenti. La Dichiarazione di Ivrea 22 gennaio 1955. L'esperienza sindacale di Ivrea. Il «Fordismo».
Note sull'autore
Franco Ferrarotti, professore emerito di Sociologia all'Università La Sapienza di Roma, direttore della rivista La Critica sociologica, deputato indipendente al Parlamento italiano dal 1958 al 1963, è stato tra il 1948 e il 1960 tra i più stretti collaboratori di Adriano Olivetti. È stato tra i fondatori, a Ginevra, del Consiglio dei Comuni d'Europa nel 1949, responsabile della divisione Facteurs sociaux dell'Ocse a Parigi. Nominato Directeur d'etudes alla Maison des Sciences de l'Homme di Parigi nel 1978, è stato insignito del premio per la carriera dall'Accademia nazionale dei Lincei nel 2001 e nominato Cavaliere di gran croce al merito della Repubblica dal presidente Ciampi nel 2005.
Come scrive Pietro Maria Fragnelli nella Presentazione, leggere questa testimonianza viva di don Vincenzo de Florio (o padre Vicente, come lo chiamano in Brasile) significa imbattersi in un inguaribile innamorato che, a novant’anni suonati, vuole ancora cantare la sua canzone d’amore. Una canzone appassionata, senza rimpianti o tristezze. Non canta “Com’è triste Venezia”, il celebre motivo tornato alla ribalta per la morte del suo cantore e poeta, il novantenne Charles Aznavour, ma viene a dire alle sue lettrici e ai suoi lettori: “Com’è triste la vita” quando si allontana il soffio dello Spirito, il solo che può liberare dalle illusorie sicurezze umane e culturali, il solo che può portare fuori dai confini falsamente rassicuranti dei guadagni e delle strutture. Per don Vincenzo la vita è triste se non ci si innamora dei poveri, siano essi zingari o homeless, detenuti o senzaterra, senza radici o senza fede. È triste la vita se non incontra il Cristo povero, che si identifica con i poveri cristi di ogni latitudine.
Sommario
Mi improvvisai scrittore (P.M. Fragnelli). Mi presento. Premessa. I. Il bambino rubato dagli Zingari. 1. Storia del bambino rubato dagli Zingari. 2. La periferia fa crescere. 3. Bambino com’era, rimase rubato! 4. Da maestro a discepolo. 5. Don Tonino, mio fratello vescovo. 6. Le periferie ti convertono. II. Servo in periferie altre. 7. Rientro imprevisto. 8. In periferia sino alla fine del mondo. 9. Vita condivisa con i prediletti. 10. Brasile: vita semplice, ma in schiavitù. 11. Obbligo di fermata. 12. Servo inutile.
Note sull'autore
Vincenzo De Florio, prete pugliese, è stato parroco in Brasile, cappellano di Sinti e Rom, vicario generale nella Diocesi di Castellaneta e volontario nella casa circondariale e di reclusione di Taranto. Ha pubblicato: Zingaro mio fratello (Paoline 1986), Mi basta che tu mi vuoi bene (Paoline 2012) e Se non diventerete come bambini (Pensa MultiMedia 2016).
Pietro Maria Fragnelli è vescovo di Trapani.
Il saggio ripercorre, alla luce degli studi più recenti, la vita e le opere dello storico Flavio Giuseppe, mettendo a fuoco un tema che ha a lungo appassionato gli studiosi: fu un traditore della sua patria o un eroe? Diversi fattori hanno influenzato la risposta a questa domanda, non ultimo l'uso che in chiave anti-giudaica fecero della sua opera i primi cristiani. Una lettura equilibrata dei suoi scritti consente di giungere a una soluzione per certi versi paradossale: la sua condotta, non sempre trasparente nelle prime fasi della guerra giudaico-romana, rende fondata l'accusa di tradimento verso i suoi connazionali, tuttavia il suo odio contro i ribelli, una volta passato nel campo romano, rivela un amore profondo e incompreso per il suo popolo.
Descrizione dell'opera
Negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, una rete clandestina di soccorso opera in provincia di Modena per aiutare gli ebrei perseguitati dal nazismo. Ne fanno parte uomini di diversa fede politica e religiosa, che non esitano a mettere a repentaglio la loro vita per salvare centinaia di persone altrimenti destinate alla morte nei campi di concentramento.
Odoardo Focherini (1909-1944) è uno di questi: giornalista cattolico, padre di sette figli, viene arrestato, deportato e troverà la morte nel campo di lavoro di Hersbruck. Insignito della medaglia di Giusto fra le nazioni dallo Stato d Israele e della medaglia d oro al merito civile dalla Repubblica italiana, beatificato dalla Chiesa cattolica nel 2013, Focherini viene raccontato in questo libro dalla figlia primogenita Olga, che per anni ha conservato e promosso la memoria paterna. Una testimonianza in presa diretta che intreccia storia e ricordi sullo sfondo di uno dei periodi più bui del ventesimo secolo.
Sommario
Introduzione. ; La mia famiglia. ; Parrocchie e giornali. ; «Questo ascensore è vietato agli ebrei». ; La prigionia e le lettere. ; «Signora, vedrà che torna». ; Cronologia di Olga Focherini. ; Fonti. ; Bibliografia. ; Videografia.
Note sul curatore
Odoardo Semellini, figlio di Olga Focherini, è operatore culturale al Comune di Carpi. Ha curato, in collaborazione con Ulderico Parente e Maria Peri, la riedizione delle Lettere dalla prigionia e dai campi di concentramento (EDB 2013) e si occupa dell'Archivio della Memoria di Odoardo Focherini.
Monique Lévi-Strauss ha aspettato settant'anni prima di scrivere i suoi ricordi. Subito dopo la guerra, nessuno voleva ascoltare e tutti desideravano voltare pagina. Il racconto di un'infanzia "nella bocca del lupo" riepiloga il singolare destino di una ragazza costretta dall'insensatezza del padre a lasciare Parigi per trasferirsi nella Germania nazista con il fratello e la madre ebrea. Uno sguardo originale sulla vita quotidiana ai tempi di Hitler e sull'incomprensibile mondo degli adulti negli anni turbolenti della seconda guerra mondiale.
La guerra e la resistenza, le notti nelle piòle per celebrare la "frase giusta" nelle traduzioni per Einaudi, i consigli e le domande che viaggiano tra Torino e Londra, i discorsi sulla fede. Un'amicizia che si alimenta di ammirazione intellettuale e concretezza, di dialoghi e di silenzi, ma anche di insolite proposte: convincere il regista di "Riso amaro" ad assegnare a Ferrarotti e non a Gassman la parte del "cattivo" nel film con Silvana Mangano.
«Nel giugno del 1945, a Torino, leggo un annuncio sul giornale. Una famiglia facoltosa sta cercando un precettore di lingua inglese a domicilio. Mi precipito, ma nella fretta sbaglio piano. Mi apre un signore distinto, magro, con gli occhi chiari, in vestaglia di seta. Non vuole saperne di lezioni di inglese, ma io sono senza un soldo, ho bisogno di lavorare e digiuno da almeno dieci ore. Lo convinco che l’inglese è la lingua del futuro. Mi fa entrare. Mi dà da mangiare. Parliamo per due giorni e due notti. Lui è Felice Balbo, conte di Vinadio, ancora convalescente a causa di un malanno contratto da ufficiale del Regio Esercito in Albania. È un uomo complesso e profondo. Intuisce che il marxismo, nelle sue molteplici incarnazioni, altro non è che un’eresia del cristianesimo. Nel modo più insolito, inizia un’amicizia profonda che si interromperà solo con la sua morte».
«E' morto da qualche anno. Da quanti? Non lo so. Non voglio saperlo. Per me è ancora qui, si aggira silenzioso fra noi. Il dialogo cominciato settant'anni fa è ancora aperto. Il silenzio dei morti è eloquente. Basta saperlo ascoltare». «Nicola Abbagnano aveva imparato per tempo a rinunciare, in parte almeno, alla vitalità in favore della serenità, all' emotività anche geniale per restare fedele all' imperativo della misura. In questo senso era un greco nell' accezione classica del termine, un greco apollineo e imperturbato, più che dionisiaco». Con questo ritratto del filosofo che fu tra i primi a diffondere in Italia la conoscenza di Heidegger, Jaspers e Sartre, Franco Ferrarotti conclude un'ideale «teatralogia dell'amicizia», inaugurata con la figura di Adriano Olivetti e proseguita con Cesare Pavese e Felice Balbo. Gli incontri all' Università di Torino in anni «che sanno ancora di guerra», il confronto tra le aspirazioni e i metodi della filosofia e della sociologia, le lunghe silenziose passeggiate fianco a fianco che solo una rara e raffinata intesa può spiegare. «E' forse venuto il tempo - scrive Ferrarotti - per una riconsiderazione serena di quel nesso fra esistenza, progetto, ricerca sociale che non ha nulla di artificioso o di occasionale, ma che al contrario si lega necessariamente all' insieme del pensiero di Abbagnano come suo sbocco necessario».
«Nella luce limpida del mattino si disegnava chiaramente il fumo scuro che usciva dai camini dei forni crematori». Con una prosa concisa e stringata, il diario inedito dell’ebreo olandese Jo Koopman giunge direttamente da Auschwitz. Scritto quasi in presa diretta, tra il 1945 e il 1946, questa testimonianza restituisce la vita quotidiana nel campo di sterminio nazista, le paure, le vessazioni, l’incombere della morte. Ma anche la liberazione ad opera dei russi e il lungo viaggio attraverso l’Europa orientale che ricorda quello descritto da Primo Levi nel libro La tregua. «Non fu toccante – scrive Koopman - ma ben deludente, dopo un viaggio così lungo e pieno di emozioni, il nostro arrivo in Olanda», esperienza purtroppo comune a molti dei sopravvissuti alla notte del Novecento.
Nell’estate inquieta del 1988, la mattina del 14 settembre, viene ucciso a Trapani il giudice Alberto Giacomelli, che da più di un anno ha lasciato la toga per andare in pensione. È, a tutti gli effetti, un delitto “senza”: senza clamore, senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni. Un delitto senza memoria, inghiottito da depistaggi, omertà, ignoranza e, sullo sfondo, l’ombra cupa di Totò Riina.
Giacomelli era presidente delle misure di prevenzione del Tribunale, un uomo defilato, silenzioso, sobrio. Uno che dietro il sipario decideva i destini economici di quei “galantuomini” e che aveva messo la firma su un patrimonio che, per volontà e in nome del popolo italiano, non doveva più appartenere alla mafia. Lontana dalle attenzioni dei cronisti e dalle luci degli studi televisivi, la storia di Giacomelli viene ora riconsegnata alla memoria grazie ai ricordi di chi lo ha conosciuto.
Il 29 febbraio del 2016, alle sette del mattino, atterra a Fiumicino il volo Alitalia AZ 827 proveniente da Beirut, Libano. A bordo 93 siriani in fuga dalla guerra, in gran parte bambini. È il primo corridoio umanitario aperto dalla Comunità di Sant'Egidio, dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Tavola Valdese: l'inizio di un'avventura straordinaria, dimostrazione evidente di un'alternativa possibile, sicura e umana, ai viaggi disperati in mare. Su quell'aereo viaggia anche Badheea, che qui racconta con parole semplici e linguaggio asciutto l'odissea della sua vita: l'infanzia nella campagna di Al Dabaa, l'inizio della guerra in Siria, la fuga in Libano per «non essere uccisi e per non dover uccidere». È una storia di disperazione e di speranza insieme, di paura e di amicizia, di violenza e di pazienza. Perché nelle parole di Badheea si riassume il grido di un popolo, quello siriano, che chiede di tornare a casa propria, in pace e sicurezza.
Pubblicato la prima volta nel 1948 dalla tipografia del quotidiano L'Avvenire d'Italia, questo libro racconta in prima persona la vicenda del giornalista Giacomo Lampronti. Di origine ebraica, spontaneamente convertito al cattolicesimo, viene licenziato a causa delle leggi razziali, ma trova lavoro nel giornale cattolico, che aveva sede a Bologna. Qui incontra Odoardo Focherini, che lo ospita di nascosto nella sua casa a Carpi assieme alla famiglia e ne organizza la fuga in Svizzera. Racconto appassionato dei dolorosi anni del fascismo e delle discriminazioni razziali, queste pagine sono anche la testimonianza di una profonda, preziosa amicizia tra due uomini negli anni più bui del Novecento.

