
Nata dalle discussioni emerse durante e dopo il convegno "Seeing beyond in facing death - Vedere oltre dinanzi al morire", la presente raccolta di saggi (curata da Ines Testoni, Guidalberto Bormolini, Enzo Pace e Luigi Vero Tarca) sviluppa il tema del morire, della morte e degli strumenti per vedere oltre questo confine secondo le scienze umane e le diverse tradizioni religiose (ebraica, cristiana, islamica, taoista, induista, buddhista). Sebbene esistano testi approfonditi sull'argomento, la particolarità della raccolta è quella di aver coinvolto studiosi, competenti in materie diverse, che professano anche tali convinzioni religiose. Scelta che avrebbe potuto essere limitativa, ma che invece ci consegna una testimonianza più profonda. Nella prefazione del filosofo Emanuele Severino c'è un pensiero che si impone, un pensiero dal quale non si può prescindere, e nel quale mettono radici i miti e tutte le grandi narrazioni religiose: "Qualcosa come uomo non esiste se non come convinzione di essere una forza che ha la capacità di trasformare il mondo e sé stessa". Ovvero, il senso essenziale che gli esseri umani assegnano al morire è il mutare in altro. Partendo dal filosofo dell'eternità, passando attraverso i punti di vista di eminenti pensatori e studiosi, il ciclo si chiude con la postfazione di Marco Vannini, uno dei massimi esperti di mistica, dalla quale emerge come lo sguardo dell'uomo che cerca di spingersi oltre la morte sia il segno della vita che vuole proseguire oltre.
Le nostre giornate sono piene di impegni, di incontri, di attività, di divertimenti. Ma questo non ci rende felici, e neppure sereni. Lo sappiamo bene, anche se facciamo finta di niente e proseguiamo sulla stessa strada, stressati e sempre più invischiati nella routine quotidiana. Thich Nhat Hanh ha scritto questo libro pensando a noi. Ha condensato la sua filosofia profonda e universale in brevi capitoli, ciascuno dei quali è dedicato a un momento della nostra giornata, a un'incombenza anche minuta e magari involontaria (respirare, ad esempio), a un aspetto del nostro comportamento, a un sentimento: il risveglio mattutino, la pulizia personale, la colazione, il camminare, il lavoro, il mangiare, il tempo libero, la famiglia, la meditazione, l'amore, il pensiero di Dio? Ciascuna di queste azioni o situazioni è ugualmente importante e merita di essere vissuta fino in fondo attraverso la Piena Consapevolezza, e assaporata istante per istante anche grazie alla recitazione dei gathas, brevissime poesie da utilizzare come strumenti di concentrazione. La forza della saggezza distillata in queste pagine è tutta racchiusa nella semplicità delle parole scelte da Thich Nhat Hanh, strumenti formidabili che chiedono soltanto di essere usati giorno dopo giorno, anzi respiro dopo respiro, perché sia possibile sperimentare la pace interiore e la vera felicità.
Il canto delle pietre è il diario immaginario del monaco che nel XII secolo edificò in Provenza l'abbazia di Le Thoronet, un capolavoro di architettura cistercense. La vita di un cantiere medioevale, i problemi tecnici, finanziari e dottrinali che ostacolano i lavori, le soluzioni adottate, di una modernità sorprendente, appaiono ben poco conformi a quell'immagine convenzionale del Medioevo che si è consolidata nel corso dei secoli. Ma ciò che nel racconto "tocca" e coinvolge di più è la lotta che il monaco ingaggia con la fragilità degli uomini e l'inerzia della materia, e, soprattutto, con le proprie contraddizioni interiori. La costruzione dell'abbazia diventa così un viaggio iniziatico nel profondo dell'essere umano. Ma non è tutto. Questa cronaca che per altro si fonda su ricerche storiche originali e su una lunga esperienza di costruttore - è anche una riflessione appassionata sui rapporti fra il bello e il necessario, fra l'uomo e la natura, fra il dovere verso gli altri e quello verso Dio. Ed è una meditazione lirica sull'Ordine nel quale tutti gli ordini trovano spazio, e su quell'arte che riassume tutte le altre: l'architettura.
Amare la vita e desiderare la felicità: sembra ovvio, e tuttavia è proprio quello che accade alla maggioranza di noi? Finché si è bambini è forse più facile, ma poi le cose si complicano e capita di cadere in situazioni che ci portano a odiare la vita e a una profonda infelicità. Le ragioni di questo sono tante e spesso svolgono un ruolo determinante le circostanze esterne, ma molto dipende da noi e dalle nostre scelte. In realtà ogni uomo è naturalmente orientato alla ricerca della felicità, ma, nell'urgenza di trovarla, finisce per soddisfare bisogni effimeri imposti dall'esterno, come il denaro e il successo, o per seguire insegnamenti e perseguire obiettivi che non sono fatti per lui. Sul filo della Regola di san Benedetto, Dom Guillaume ci guida in un percorso attraverso i meccanismi che giorno dopo giorno ci chiudono in una gabbia sempre più soffocante. Perché oggi l'uomo è tutt'altro che libero. La strada per la vera libertà, e dunque per una felicità piena e feconda, passa per una profonda conoscenza di sé: la consapevolezza dei doni ricevuti, dell'importanza del proprio ruolo nella comunità dei viventi, ma anche di questo desiderio di vita e felicità che ci abita e rappresenta il potente motore che, correttamente indirizzato, ci spinge a crescere e a vivere davvero.
Per Thomas Merton "la contemplazione è l'espressione più alta della vita intellettuale e spirituale dell'uomo. È quella vita stessa, pienamente cosciente, pienamente attiva, pienamente consapevole di essere vita. È prodigio spirituale. È timore riverente, spontaneo, di fronte al carattere sacro della vita, dell'essere. È gratitudine per il dono della vita, della consapevolezza, dell'essere. È chiaro intendimento che la vita e l'essere, in noi, derivano da una Fonte invisibile, trascendente e infinitamente ricca. La contemplazione è soprattutto consapevolezza della realtà di questa Fonte. Essa conosce questa Fonte in modo oscuro, inesplicabile, ma con una certezza che trascende sia la ragione sia la semplice fede. La contemplazione infatti è un genere di visione spirituale alla quale aspirano, per la loro stessa natura, la ragione e la fede, poiché senza di essa sono destinate a restare sempre incomplete. Tuttavia la contemplazione non è visione, perché vede 'senza vedere' e conosce 'senza conoscere'. È fede che penetra più in profondità, conoscenza troppo profonda per poter essere afferrata in immagini, in parole, o anche in concetti chiari. Essa può venire suggerita da parole, da simboli; ma nel momento stesso in cui tenta di descrivere ciò che conosce, la mente contemplativa ritratta ciò che ha detto e nega ciò che ha affermato. Perché nella contemplazione noi conosciamo per mezzo della 'non conoscenza', o meglio conosciamo al di là di ogni conoscenza o 'non conoscenza'".
"A Taizé uomini di diverse e talvolta opposte origini confessionali, etniche, culturali, linguistiche pregano e lavorano insieme. Tutto cominciò durante la seconda guerra mondiale, quando alcuni dovettero accontentarsi dell'essenziale. Costoro di fronte all'orrore e alla morte non poterono più mentire né mentirsi, né restare divisi, soprattutto coloro che tentavano di essere cristiani. La fondazione di Taizé si accompagna all'ecumenismo dei campi di prigionia, un ecumenismo vissuto come servizio reciproco, come una speranza inseparabile dalla preghiera e dall'amore. Durante la mia riflessione e la mia ricerca, non ho potuto non incontrare Taizé. Ben presto ho scoperto non soltanto il pensiero ma anche la tranquilla forza creatrice di frère Roger e dei suoi compagni, quella forza magnetica che attira a Taizé ogni anno decine di migliaia di giovani. Flussi che si rinnovano ogni volta e rendono Taizé il luogo di un incontro prodigioso dove si costruisce l'Europa dello Spirito. Frère Roger parla a questi giovani, sempre brevemente, con una totale semplicità, con - si potrebbe dire - un amore disarmato. In un mondo in cui maturano, sì, delle promesse, ma che non vengono che derise, Taizé è un luogo in cui si avverte "qualcos'altro". Non temete, guardiani delle ortodossie! Taizé non si impossessa di nessuno, non pretende di essere la Chiesa, ma soltanto la soglia e il segno della Chiesa, in una prospettiva di riconciliazione."
Nel mondo di oggi, caratterizzato da una mobilità illimitata ma anche da un crescente disorientamento culturale e religioso, avvertiamo sempre più chiaramente la nostalgia della patria, un concetto che sembrava obsoleto. Nella sua indagine Anselm Grun non si limita ai luoghi che ci sono familiari, come quelli dell’infanzia. Il concetto di “patria” non è circoscrivibile in uno spazio fisico: abbraccia la lingua, la musica, i ricordi, la fede nella quale siamo cresciuti. Si arriva fino ai social network, nei quali le persone si “incontrano” e creano comunità di tipo nuovo. La patria è tutto ciò che ci dà sicurezza nella vita, scrive Grun: persone comprensive, luoghi amati, il senso di protezione che possiamo trovare in Dio. Attraverso un percorso guidato, l’autore ci invita a compiere una ricerca personale, aiutandoci a capire, grazie ai pratici suggerimenti collocati al termine di ogni capitolo, come ciascuno di noi può ritrovare la propria vera patria.
Immaginiamo una ruota, con i raggi e, al centro, il mozzo.
I raggi sono le religioni storiche, limitate e influenzate dal contesto culturale e sociale in cui sorgono.
Il mozzo è la fonte da cui esse scaturiscono: la Verità, unica ed eterna.
Le prime sono rivelazioni imperfette e relative della seconda, che, manifestandosi nel mondo, si riflette nella natura finita e molteplice di quest’ultimo.
In Ritorno al Centro, Bede Griffiths mette a confronto le principali tradizioni religiose dell’Occidente e dell’Oriente – l’ebraismo, il cristianesimo, l’induismo, il buddhismo, l’islam –, e ne esamina i contenuti fondamentali con l’obiettivo di segnalarci il mistero ultimo che si cela dietro la dimensione del particolare e del contingente e di indicarci la via per rientrare in contatto con l’Uno.
Questa capacità di trascendere, di andare oltre, è presente in ciascuno di noi. Il nostro essere, come la religione, è duplice: finito e determinato da un lato, eterno e assoluto dall’altro.
Attraverso la pratica del silenzio e dell’ascolto di noi stessi, della preghiera e della meditazione, possiamo accedere a quell’interiorità che è lo spazio nel quale Dio si rivela.
Il 1° febbraio 1954, durante uno degli inverni più freddi del dopoguerra, l'Abbé Pierre rivolge un appello radiofonico ai francesi di buona volontà, dando avvio a quella che fu definita l'«insurrezione della bontà» e alla sua battaglia contro l'emarginazione e la povertà nelle nostre città e nel mondo. Dopo cinquantanni l'Abbé Pierre, ormai novantenne, si rivolge alle giovani generazioni e le invita a una nuova rivoluzione, capace di assicurare all'umanità intera un'autentica prospettiva di futuro. Egli conosce i loro tormenti interiori e il loro desiderio di costruire qualcosa di duraturo e profondo, la loro difficoltà a ribellarsi a un modo omologato di vedere le cose e a trovare altre strade, i problemi concreti che assillano le famiglie, le ingiustizie che dividono il mondo e le società, e indica una rotta diversa. Ognuno di noi, con il suo lavoro e il suo impegno, può costruire un mondo migliore, semplicemente facendo bene ciò che deve. Ma è anche necessario che si instauri un ordine delle cose più equo, che preveda una reale condivisione delle risorse e delle ricchezze. Il futuro dell'Uomo e della Terra dipende in buona misura dalla volontà di costruire giorno dopo giorno una più equilibrata convivenza tra ricchi e poveri, tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. Solo questo ci consentirà di controllare i grandi spostamenti di popolazioni che assillano e mettono in crisi le nostre società ricche e fiorenti e che, senza una decisa sterzata delle politiche economiche mondiali, non potranno che intensificarsi.
Per Thomas Merton la santità non va ricercata nell'isolamento o in complicate pratiche ascetiche. Al contrario, è nelle azioni di ogni giorno, compiendo il proprio dovere quotidiano, che il cristiano può e deve sviluppare la sua unione con Dio. Vita e santità non sono incompatibili, sebbene un buon numero di cristiani - anche di religiosi - sembri crederlo. Il lavoro, ad esempio, in un contesto sano ed equilibrato è di per sé capace di contribuire alla vita spirituale. La nostra attività non deve però essere soltanto onesta e produttiva, ma va intesa come un contributo responsabile alla comunità, per un mondo giusto e in pace. Offrire noi stessi a Dio in uno sforzo di volontà soggettivo non è sufficiente. Occorre integrare il nostro impegno con quello degli altri uomini di buona volontà. «Questo libro vuol essere molto semplice, un'esposizione elementare di alcuni concetti basilari della spiritualità cristiana. [...] Il nostro tempo ha bisogno di ben altro che di gente cosiddetta devota, che evita mali gravi ma che raramente fa qualcosa di costruttivo o di positivamente buono. Non è sufficiente essere rispettabili esteriormente. La santità non consiste nell'essere meno umani, ma più umani degli altri uomini. Ciò implica una maggiore capacità di interesse, di sofferenza, di intendimento, di comprensione, e anche di spirito, letizia, apprezzamento delle cose belle e buone della vita.»
Il tono personale della scrittura, così come la sua tipica combinazione di devozione e ironia, rivelano quanto profondamente si identificasse con i leggendari autori di questi detti e parabole, quei Padri cristiani del IV secolo che vissero in solitudine e contemplazione nei deserti dell'Egitto, della Palestina, della Persia e dell'Arabia. Quei monaci abbandonarono le città perché erano convinti del carattere strettamente individuale della salvezza, in un mondo che ai loro occhi era come una nave sul punto di affondare. Andarono nel deserto per essere sé stessi e per dimenticare le seduzioni e gli inganni che li allontanavano da questo obiettivo. Condussero una vita di fatiche e di digiuno, di carità e di preghiera. Non cercavano il consenso dei loro contemporanei e neppure volevano sfidarne il dissenso, perché le opinioni degli altri avevano smesso di avere importanza per loro. Distillavano per sé una saggezza pratica e senza pretese, al tempo stesso primitiva e senza età, una saggezza di cui la nostra epoca ha un disperato bisogno.
Poco prima del 540 san Benedetto redasse il testo di una Regola per la comunità di monaci raccolti intorno a lui nel monastero di Montecassino. Articolata in un prologo e 73 capitoli, è ancora oggi l'elemento fondativo delle comunità benedettine. Il suo valore e la sua efficacia travalicano però l'ambito rigorosamente monastico e infatti essa è ormai frequentemente invocata come una guida valida per i laici, sia nella vita privata che in quella professionale. Proprio la "Regola" è al cuore di questo libro, in cui Dom Guillaume, forte dell'esperienza maturata come monaco e come abate, traduce in un linguaggio semplice e concreto le sue norme antiche e sempre nuove, permettendo anche a noi, uomini e donne del XXI secolo, di apprezzarne la bellezza e l'attualità. Vivere secondo la "Regola", assimilando la sapienza dei monasteri, ci permetterà di trasformare profondamente la nostra vita e di cambiare il modo in cui guardiamo il mondo, gli altri, noi stessi. Essa ci sprona a considerare l'esistenza come un itinerario di fede e un ritorno alla sorgente di tutte le cose, scendendo nel profondo, dove Dio abita, ci abita, e ci attende amorevole e fiducioso. Questo è, almeno per noi contemporanei, il grande paradosso: una "Regola" ci permette di conseguire la vera libertà e la pace di chi ha trovato la verità.