
La domanda inaugurale del pensiero moderno è "politica" in senso rigorosamente filosofico: non concerne la genesi storica della società, la sua nascita nel tempo, le strategie del potere, non chiede il racconto della fondazione, ma si applica al punto d'origine, al principio del "plurale" costitutivo della soggettività. A partire dal XVII secolo, mentre per un verso si osserva e calcola il gioco delle forze reali e per un altro si sublima nel tragico l'inseparabile coppia di arbitrio e necessità, balena nuova l'idea che propulsivo della dinamica sociale sia il nesso dialettico, mondano e storico, di libertà e di ordine. Vico coglie appieno la novità, quando nel De iure, del 1720, sostiene che società e diritto non sono effetti né di metafisica necessità né di naturali impulsi utilitari, ma funzioni dell'umano reagire alle occasioni, ossia risposte che dinanzi alle sfide delle contingenti situazioni gli accomunati individui inventano. Nell'attuale momento della vita del mondo, non certo per questa o quella novità tecnica ma, come avverte Jacques Ellul, per l'incombente prospettiva che lo stesso sistema sociale si riduca a "sistema tecnico", si realizzi cioè l'organica e totalitaria "tecnicizzazione" dell'umano, la libertà si trova dinanzi all'occasione cruciale, in cui è di essa che si decide. Una tale sfida non si può ignorare, occorre rispondere. È propriamente un affare di etica: non compete all'esattezza del calcolo, ma al rigore del pensiero.
Nell'affrontare il pensiero dantesco Gilson evita di apporgli una comoda etichetta classificandolo tra le filosofie già costituite del tempo, si impegna piuttosto nel tentativo pienamente riuscito di comprenderlo secondo i tratti che gli sono singolari e unici. Per Gilson collocare storicamente il pensiero dantesco non significa ricondurlo al tomismo o all'averroismo, come si è maldestramente preteso, quanto invece mostrarne l'impianto teoretico originale e solidamente giustificato nei suoi propri principi in un continuo confronto con le principali e tra loro molto varie correnti filosofiche del tempo. Attraverso una penetrante disamina del "Convivio", della "Monarchia" e della "Commedia" viene messa a fuoco l'idea dantesca fondamentale dell'armonia dei tre ordini: politico, filosofico e teologico. Armonia che per Dante si realizza soltanto attraverso il riconoscimento della completa autonomia, pur in una gerarchia di dignità, di ognuno dei tre ordini e del loro specifico ruolo assegnato dalla Provvidenza divina.
La trascrizione di queste lezioni testimonia dell’interesse di Derrida per Marx, attivo già negli anni Settanta, segnati dal clima infuocato della contestazione nell’Università e nella società, soprattutto parigine. Il Marx che viene presentato è un pensatore non accademico, ma rivoluzionario, in grado di trasformare la nozione stessa di teoria, inconcepibile in termini autentici fuori da un’attività di radicale cambiamento sia nel pensiero sia nei gesti. La lettura derridiana si lascia attraversare da quella del suo più anziano collega Louis Althusser, uno dei maestri dell’interpretazione di Marx in chiave scientifica e rivoluzionaria, sia riguardo all’economia che alla lotta politica. La nozione di prassi che ne emerge risulta di estremo, bruciante interesse nel momento della società attuale, rinunciataria fino agli estremi limiti a progetti di trasformazione radicale e soprattutto incredula che l’individuo, soggetto di un desiderio e di un giudizio, possa avere un effettivo spazio e possibilità di azione nella sfera dei rapporti politici. Una nozione di prassi diversa dalle procedure tecnocratiche è la posta in gioco di questo libro.
La tragedia provocata dal neo paganesimo nazista, influenzato da Nietzsche e, dopo la seconda guerra mondiale, l'egemonia del marxismo sovietico su metà dell'Europa, inducono il pensiero cattolico a confrontarsi con il problema dell'ateismo. On Francia e in Italia filosofi e teologi di prima grandezza ne fanno oggetto della propria riflessione: da Il dramma dell'umanesimo ateo (1944) di Henri de Luca a Il significato dell'ateismo moderno (1949) di Jacques Maritain, da Le metamorfosi della città di Dio (1952) di Etienne Gilson alla Introduzione all'ateismo moderno (1964)di Cornelio Fabro, a Il problema dell'ateismo (1964) di Augusto Del Noce. Il volume mette idealmente a confronto queste voci mostrando le diverse letture e, in taluni casi, il conflitto delle interpretazioni. Ne emerge un quadro che, con le sue implicazioni - il valore o il disvalore della modernità -, non ha perso nulla della sua attualità. La lunga introduzione offre una ricostruzione inedita del moderno situando la genesi dell'ateismo a partire dalle guerre di religione che hanno diviso, tragicamente l'Europa dopo la Riforma.
Massimo Borghesi è ordinario di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia, scienze sociali, umane e della formazione dell'Università di Perugia.
Questo testo misura, nella maturità della riflessione teorica di Bachelard, il complicarsi e ristrutturarsi incessante del pensiero scientifico fin dall'inizio del secolo e il progressivo arricchirsi del sapere fisico, in quanto «attività razionalista». Che senso ha oggi riproporre un razionalismo epistemologico? Per Bachelard il razionalismo non è una pretesa della ragione di avere già da sempre la chiave di lettura della realtà, foss'anche nei termini di un metodo; il razionalismo è un movimento della ragione che non si pone prima o al di là dell'esperienza, ma che l'approfondisce smascherandola nel suo presentarsi chiara, immediata e definitiva. Il pensare bachelardiano permette di riattraversare il dibattito sulla formazione della teoria e sulle sue possibilità conoscitive oggi, perché spezza il parlare della filosofia sulla scienza e inaugura un lavoro di produzione del fisico in laboratorio. Questa la risorsa del testo: indicare una strada di militanza per la ragione in quanto difende non i risultati della scienza, ma la dignità dello scienziato nella sua pratica teorica di laboratorio.
Il libro rappresenta la seconda parte del corso di filosofia teoretica tenuto dal prof. Severino all'Università Cà Foscari di Venezia durante l'anno accademico 2000-2001. Se nella prima parte, pubblicata da Rizzoli nel 2007 con il titolo 'L'identità della follia', l'intento era di svelare l'anima dell'Occidente per comprendere a fondo la radice del nostro vivere, in questa seconda parte, che racchiude le ultime 15 lezioni, Severino riflette sul senso del destino.
"L'uomo teme soprattutto la morte. È così da sempre. La paura viene da lontano, dall'inizio. Se la morte è l'estrema minaccia che il Dio veterotestamentario rivolge ad Adamo, ciò significa che Dio sa che la morte è quel che Adamo teme di più." Sin dai suoi primi passi l'uomo ha tentato di difendersi dalla morte e di comprenderne il senso. Così, partendo dai miti, attraverso le religioni sempre si è confrontato con questa sconcertante evidenza del venir meno, dell'assenza di ciò che era presente, delle metamorfosi. Ma è solo con il pensiero filosofico che nel popolo greco è stato messo a fuoco il rapporto delle cose e degli eventi con il nulla. Un nulla, una assenza totale, che ha conferito un carattere tanto più radicale alla morte e alle riflessioni su di essa. Si incomincia a morire — e a nascere — di fronte al nulla e ha così inizio la paura estrema della morte. Per il nichilismo contemporaneo, al quale perviene lo sviluppo estremo — e più coerente — del pensiero filosofico, ogni cosa è destinata ad andare nel nulla. Eppure, discutendo anche con molti suoi interlocutori, Emanuele Severino fa capire i motivi per i quali si deve affermare che l'andare nel nulla delle cose e degli eventi non è qualcosa di "evidente", di "sperimentabile". Un'affermazione che solo apparentemente è paradossale, perché al contrario essa esprime la maggiore fedeltà all'apparire del mondo. Non solo: "Si dice che 'ognuno di noi' sperimenta la morte del prossimo, non la propria. Ma poiché l'esistenza stessa del prossimo non è sperimentata, del prossimo non si può sperimentare nemmeno la morte (o la nascita)". Nelle pagine di questo saggio, Severino si rivolge al lettore con un linguaggio chiaro e suggestivo, guidandolo nel labirinto delle grandi domande, delle questioni irrisolte a cui da sempre la filosofia cerca di dare risposta.
La nonviolenza non è l’opzione di un’élite intellettuale, ma un’alternativa pratica che inizia dalla quotidianità di ciascuno. Essa non può dunque essere confusa con la passività o con l’indifferenza poiché sposta il piano del confronto dalla prova di forza a quello della riflessione sui valori e sulla giustizia, imponendo una modifica radicale nel modo di pensare della società civile. La riflessione di questo libro si snoda su due livelli: uno è storico, attraverso l’interpretazione di alcuni avvenimenti a partire dalla prospettiva nonviolenta, l’altro è filosofico-politico, sia attraverso il confronto con la tradizione occidentale sia proponendo una concezione tipicamente orientale, in cui la dimensione spirituale dell’essere umano svolge un ruolo essenziale.
Sommario
Prefazione (Debora Tonelli). Introduzione. 1. Non violenza nell’induismo, nel jainismo e nel buddismo. 2. Cristianesimo e non violenza. 3. Islam e nonviolenza. 4. Fondamenti filosofici della nonviolenza. 5. Gandhi e la nonviolenza. 6. La nonviolenza pragmatica. 7. Critiche alla nonviolenza. 8. La nonviolenza nel XX secolo. 9. La nonviolenza nel XXI secolo. Conclusioni: democrazia e nonviolenza. Ringraziamenti. Bibliografia.
Ramin Jahanbegloo, filosofo iraniano naturalizzato canadese, è professore di Scienza politica all’Università di Toronto. Nel 2006 è stato arrestato dalle autorità di Teheran con l’accusa di tramare per il rovesciamento del regime iraniano. Il Consiglio dell’Unione Europea e numerosi intellettuali – tra i quali Chomsky, Coetzee, Eco, Habermas e Rorty – sono intervenuti per la sua liberazione, avvenuta dopo quattro mesi di carcere. Nel 2009 ha ricevuto in Spagna il Premio per la Pace delle Nazioni Unite.
Debora Tonelli è ricercatrice senior presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento.
Con questo volume s'intende mettere a disposizione del lettore italiano una parte poco conosciuta dell'opera di Michel Foucault, quella scritta per giornali e riviste e che Foucault stesso ha definito il suo "giornalismo filosofico". I testi qui presentati spaziano dal problema della vita e del vivente, a quello della nascita del biopotere e degli effetti della medicalizzazione della società; dalla questione del crimine e della punizione a quella della società disciplinare e dei dispositivi di controllo e sicurezza; dai temi filosofici della verità e dell'identità al problema della sessualità e della soggettività che si forma o si sfalda nel punto d'intersezione e di conflitto tra desiderio e piacere. A questi interrogativi si intreccia sempre la domanda che sin dall'inizio ha accompagnato il lavoro di Foucault, a volte esplicitamente, altre volte in segreto: quella sul ruolo e sulla funzione dell'intellettuale.
Tre testi mai pubblicati prima d'ora in Italia (La poetica romantica, Forza e senso, le due dimensioni irriducibili di una scienza dell'uomo e La spiritualità della vita e la sua ombra) e una conversazione, anch'essa inedita, offrono una sorta di bilancio dell'eredità intellettuale del filosofo canadese, tra i maggiori studiosi della società moderna e dei suoi disagi. Alle risposte di Taylor fanno da controcanto undici brevi interventi dei principali interpreti internazionali della sua opera.
L'amore impossibile è l'amore vero, che non si estinguerà mai perchè non si consuma nella quotidianità dell'esistenza. Così, anche fra filosofia e letteratura esiste un rapporto complesso, difficile, a volte uno scambio di ruoli, perchè le più audaci costruzioni filosofiche, che contraddicono la normale percezione delle cose, sono in definitiva delle creazioni, che producono un mondo parallelo in cui sarebbe difficile vivere, mentre il grande romanzo a volte ci colpisce così a fondo, in zone tanto segrete, che vediamo in esso la rivelazione di una verità della nostra stessa vita, che non avevamo saputo riconoscere. E' chiaro che quando Rousseau afferma: "Non c'è niente di bello se non ciò che non esiste", vuol dire anche: "Non c'è niente di vero, non c'è niente di buono, se non ciò che è soltanto ideale". Un poco più tardi, nelle sue confessioni, Goethe ha scritto che si trattava per lui di "produrre nella vita una seconda vita per mezzo della poesia". Ed è là che filosofia e letteratura si ricongiungono: da Goethe a Thomas Mann, da Dilthey a Cassirer lo "spirito" è una sfera onnicomprensiva di possibilità effettive di esperienza, ma, sorgendo da queste, le supera e le approfondisce verso una verità ultima.