
C'è qualcosa di elusivo, nella stupidità - o nell'ottusità, o nella balordaggine, o comunque la si voglia chiamare. Essa si sottrae ad ogni nostra analisi cognitiva, mutandosi in una sorta di inquietante "doppio" dell'abilità - o dell'intelligenza. Pensatori della statura di Karl Marx, Friedrich Nietzsche, Gilles Deleuze hanno, fra i tanti, dedicato analisi particolareggiate a ciò che la stupidità può implicare a livello politico e sociale. Compulsiva, benché riottosa, la stupidità è il fattore critico che causa il collasso delle nostre certezze in termini politici, etici, psicoanalitici. L'enigma cui ci pone dinanzi l'oggetto specifico di tale riflessione coinvolge problemi e realtà quali l'identità nazionale, il masochismo e le politiche sessuali, così come pure la possibilità di articolare poeticamente il balbettio nel quale il fenomeno ha la sua genesi. Da Dostoevskij a Friedrich Schlegel, a Musil, a Wordsworth, "Stupidity" indaga i temi dell'ignoranza, dell'imbecillità, dei limiti della ragione, giungendo nel contempo a esaminare la prassi pervasiva dell'accanimento teoretico in connessione con analoghe forme di aggressività paranoide. Infine, all'interno di una sezione specificamente dedicata alle infermità croniche debilitanti, la trattazione viene sviluppata sino a giungere alle soglie di una vera e propria ermeneutica del corpo, "ai limiti di quanto il corpo è in grado di sapere e di esprimere".
La lunga storia delle riflessioni sulla giustizia, che ha accompagnato come un'ombra lo sviluppo delle società umane, può essere riassunta, in ultima analisi, in questo dilemma: la giustizia va concepita come un ideale formalmente ineccepibile ma destinato a rimanere fuori della nostra portata, o piuttosto come una sorta di criterio pratico, imperfetto e sempre rivedibile, che dobbiamo comunque assumere come valido per orientare le nostre decisioni concrete e migliorare la qualità della vita individuale e collettiva?
Nella sua ampia e acuta ricognizione dei vari approcci all'idea di giustizia, Amartya Sen, premio Nobel per l'economia nel 1998, muove una critica puntuale al filone del pensiero illuminista che pone al centro della riflessione politica ed etica un «contratto sociale» (Hobbes, Locke, Rousseau, Kant e, in epoca contemporanea, John Rawls, punto di riferimento costante per l'autore) e la cui massima ambizione è definire il modo e i contenuti di accordi perfettamente giusti, anziché chiarire come le diverse pratiche di giustizia debbano essere confrontate e valutate.
A questa «prospettiva trascendentale», Sen contrappone la propria idea di giustizia, che prende le mosse dall'altro filone della tradizione illuminista (rappresentato, sia pur con diversi accenti, da Adam Smith, Condorcet, Bentham, Mill e Marx), centrato sull'analisi delle strutture sociali esistenti e sulla discussione pubblica condotta all'insegna della razionalità come strumento privilegiato per la riduzione delle più palesi ingiustizie.
Si tratta, infatti, non di definire una volta per tutte, anche solo in astratto, che cosa debba essere considerato «giusto», ma semmai di scegliere per via comparativa tra valutazioni alternative e argomentazioni concorrenti, cioè di vagliare sotto la lente dello «spettatore imparziale » i molti punti di vista, indipendentemente dalla loro provenienza. Solo aprendoci a tale pluralità di voci, infatti, potremo guardare su scala globale alle ingiustizie che possono venire eliminate o ridotte, senza ricadere in gretti localismi o in sterili chiusure mentali. Mai come in questo libro emergono con forza l'ampiezza di orizzonti, la lucida intelligenza e la grande umanità che hanno fatto di Amartya Sen uno dei maggiori e più ascoltati intellettuali del nostro tempo.
Riflettere sulla morte. La maggior parte di noi si sforza di non farlo: la morte è un argomento sgradevole, spaventoso, che cerchiamo di bandire dalla nostra mente e dalle nostre conversazioni. Affidandoci a credenze e argomentazioni rassicuranti, ci convinciamo che la morte non è la fine di ogni cosa, che non siamo soltanto semplici corpi destinati a dissolversi nel nulla, oppure che l'anima esiste ed è immortale, che la vita è un dono così prezioso che il suicidio non può mai essere una decisione razionale e sensata. Soprattutto, che la morte rimane un mistero, profondo e insondabile. Secondo Shelly Kagan, professore di filosofia alla Yale University, tali credenze, sottoposte al vaglio della logica, si rivelano per quello che sono realmente: illusioni che abbiamo costruito per arginare le nostre paure più irrazionali. Infatti, sostiene Kagan, nonostante quanto affermino alcune grandi tradizioni filosofiche e religiose, noi esseri umani siamo soltanto macchine. Macchine stupefacenti, certo, capaci di amare, sognare, creare, progettare. Ma comunque macchine. E quando la macchina si rompe, tutto finisce. La nostra vita finisce. Ineluttabilmente. E dopo non c'è più nulla. Nessun mistero da svelare, nessuna luce bianca da raggiungere. Per quanto riguarda il morire, dunque, sembra non ci sia altro da dire. Ma se «il significato della vita sta nel fatto che finisce», come scriveva Kafka, se è vero che «si va in scena» una volta sola e che non è prevista una seconda chance, allora la morte diventa un momento eticamente cruciale, che decide della nostra intera esistenza e ci pone di fronte a domande impossibili da eludere: come dobbiamo vivere? Dobbiamo essere responsabili della nostra vita? Abbiamo il dovere di non sprecarla? Che cosa conta davvero? E come si devono affrontare questioni essenziali quali il fine vita, l'eutanasia, la moralità del suicidio? Basato sulle lezioni tenute per diversi anni alla Yale University e diventate in seguito parte del progetto «Open Yale Courses», "Sul morire" si presenta come un raffinato esercizio intellettuale, stimolante e al tempo stesso provocatorio, divertente e tuttavia profondo. Dalla dottrina dell'anima di Platone al dualismo cartesiano, dalle riflessioni sul male della morte di Thomas Nagel agli esperimenti mentali di Robert Nozick, Kagan ripercorre il «catalogo» delle idee sulla morte e, attraverso un ininterrotto e coinvolgente sfoggio di arte maieutica, ci aiuta a liberarci di luoghi comuni e pregiudizi, accompagnandoci alla scoperta di un nuovo senso delle cose. «Possiamo essere tristi perché moriremo, ma questo sentimento dovrebbe essere compensato dalla consapevolezza di quanto siamo stati fortunati per avere avuto l'opportunità di vivere.»
Una perlustrazione di uno dei periodi più oscuri, grevi e avari di capolavori dell'arte tedesca ed europea. Le caratteristiche stesse di quella polverosa produzione drammatica sono però altrettanti elementi che rispondono idealmente allo sguardo indagatore di Benjamin: infatti, il vero oggetto del libro è la stessa ideologia e principio ispiratore dell'arte contemporanea dei primi decenni del secolo, che proprio dall'impulso di contestazione dell'armonia classicista e della compostezza formale dell'opera d'arte traeva la propria fonte di ispirazione.
Il libro ripercorre la storia della filosofia lungo tutto il corso del Novecento. L'indagine si snoda nella forma di una ricostruzione storico-narrativa, in cui sono presentati tutti i principali autori, le principali correnti e le opere più lette e discusse del pensiero del secolo. L'ipotesi di fondo che guida il libro è che la filosofia svolga un ruolo forse non vistoso ma decisivo nello sviluppo della nostra storia recente.
Jullien rivisita Confucio e gli altri grandi pensatori taoisti: il saggio è senza idee perché non ne ha di preconcette, è aperto a ogni possibilità. Nella sua ricerca Jullien s'inoltra su sentieri cinesi a braccetto con Eraclito, Montaigne e Heidegger, dando al lettore l'idea che la saggezza permetta a un filosofo europeo di andare un po' più in là rispetto a dove arrivano tutti gli altri.
Minkowski, psichiatra e psicopatologo vissuto tra il 1885 e il 1972, ha elaborato questo testo nel 1936, prima e dopo la redazione delle sue due opere principali, "La schizofrenia" e "Il tempo vissuto". Nel libro sono raggruppati ventiquattro brevi testi fisolofici su vari temi, nei quali il grande psichiatra esprime la sua opposizione allo scientismo e al dominio della tecnica; trattando anche delle funzioni cerebrali, o della visione del mondo implicita nelle società moderne. Con questo titolo l'autore intendeva ampliare i limiti della psichiatria e della psicopatologia in una direzione filosofico-antropologica.
Questa monografia intende proporsi come un'opera introduttiva alla filosofia di Leibniz. Il libro privilegia l'esposizione della teoria della conoscenza, dell'ontologia, della metafisica e dell'etica. Un'ampia biografia precede l'esposizione più propriamente filosofica, raccogliendo non solo tutti gli avvenimenti più noti, ma anche episodi come gli sforzi compiuti da Leibniz per costruire mulini a vento orizzontali per il drenaggio dell'acqua nelle miniere dello Harz.
Da qualche tempo nessuno dei grandi eventi che scuotono il mondo è più interpretabile fuori della categoria di biopolitica: dovunque si volga lo sguardo, la questione del bíos appare al centro di tutte le traiettorie politicamente significative. E tuttavia, a tale straordinario rilievo non corrisponde una adeguata chiarezza sul significato del concetto. Esso sembra percorso da un'incertezza di fondo, da un'inquietudine semantica, che lo espone a letture contrastanti. Ciò che, in tale contrasto, resta irrisolta è la domanda posta per la prima volta da Michel Foucault: come mai la relazione sempre più diretta della politica con la vita rischia di produrre un esito di morte? Nel libro l'autore cerca una risposta a questo interrogativo.
Il volume raccoglie diversi saggi che approfondiscono i temi affrontati nella "Banalità del male" e nella "Vita della mente", e in primo luogo la responsabilità personale durante le dittature. Il lungo saggio centrale è una riflessione sull'inadeguatezza delle tradizionali verità morali come metro per giudicare ciò di cui siamo capaci, e riconsidera la nostra capacità di distinguere il bene dal male, il morale dall'immorale. Nella seconda parte i temi teorici vengono applicati nel particolare con alcune considerazioni sull'integrazione razziale, il Watergate, la sconfitta in Vietnam, i processi ai criminali nazisti.