
"Ora sto scrivendo un libro sul volo di notte. Ma, nel suo significato più intimo, è un libro sulla notte", scriveva Antoine de Saint-Exupéry alla madre in una lettera da Buenos Aires. In effetti, "Volo di notte" (1931), il romanzo che ha consacrato il talento letterario di Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944), scritto durante quel soggiorno in Argentina, non è soltanto una delle prime opere dedicate a quegli anni eroici, ancora pionieristici, dell'aviazione civile; è anche, e forse soprattutto, il libro di una "contesa", dove la conquista del cielo deve confrontarsi e scontrarsi con tutti gli ostacoli posti non solo dalla natura, con le sue notti senza luce, i suoi picchi montani, le sue tempeste e cicloni, ma persino con quell'altro "senso della vita" rappresentato dalla moglie del pilota Fabien, quella "normalità" che Rivière, il responsabile di quei rischiosi voli notturni, sente di dover combattere strenuamente. "Se fossi giusto - pensa Rivière - un volo di notte sarebbe ogni volta una probabilità di morte". Ma non gli interessa essere giusto, non è con la giustizia che si conquista il cielo notturno; e se una "silenziosa fraternità" lo unisce ai suoi piloti, questa non può intralciare l'inflessibilità di quella "fede da costruttori" secondo la quale "una volta tracciata la rotta, non si può non proseguire".
Ismael Baruch è un bambino ebreo che nelle taverne malfamate della sua città improvvisa bellissime e struggenti canzoni, accompagnato da una balalaika, in cui canta la tristezza degli essere umani. Giovane poeta di grande, naturale talento, viene notato da un adulto, un poeta in crisi che scarica la sua frustrazione nell'alcool e che decide di fare del piccolo un dono prezioso per la sua amata, una principessa ricca e capricciosa. Strappato così al suo ghetto, Ismael viene venerato e amato, conosce il lusso e la vita agiata, trasformandosi in una sorta di poeta di corte...
Scriveva Saint-Exupéry, a proposito degli articoli che veniva via via pubblicando su diverse testate, di saper bene quali rimproveri gli sarebbero stati rivolti: "I lettori di un giornale", osservava, "pretendono reportages concreti, non riflessioni... Ma io ho un altro parere in proposito". Questo suo diverso parere lo troviamo alla base di tutti i suoi articoli, a cominciare da quelli riuniti in questo volume, che lo vedono di volta in volta alle prese con la sua professione di pilota di linea e con la differente geografia dei suoi viaggi, dall'Algeria alla Patagonia, dalla Russia dei soviet alla Spagna della guerra civile. Ma è proprio la "riflessione" che dà a questi articoli il loro sapore particolare e insieme la loro maggiore originalità: quello che interessa a Saint-Exupéry non è infatti il resoconto in sé di storie e paesi, che pure sono presenti nelle sue note di viaggio, ma il racconto di situazioni umane, nella ricerca di quei valori e ideali comuni a tutti che stanno alla base del suo "umanesimo".
Incentrato su esperienze in gran parte autobiografiche, sorretto da uno stile intenso e poetico, ma di una poesia vera e mai ridondante, "Terra degli uomini" rappresenta senza dubbio - insieme al precedente "Volo di notte", pubblicato in questa stessa collana - uno dei capolavori dedicati all'epoca pionieristica dell'aviazione civile. Ma al di là di questo, al di là delle avventure dei piloti Jean Mermoz e Henri Guillaumet, "Terra degli uomini" è soprattutto l'epopea del coraggio individuale, visto però non come fine a se stesso, ma come mezzo per dare un senso alla propria vita: "L'uomo scopre se stesso allorché si misura con l'ostacolo", scrive Saint-Exupéry; ed è proprio la scoperta di sé ciò che si cela dietro il mondo avventuroso del grande scrittore francese, una scoperta che sta al centro anche della sua opera più famosa, quel "Piccolo Principe" per il quale è diventato uno degli autori universalmente più letti. Ma, come dimostrano tante pagine di "Terra degli uomini", accanto a questa consapevolezza individuale c'è l'aspirazione di ogni uomo ad appartenere a una stessa comunità; è proprio questo che lo scrittore vede nelle rare luci accese qua e là, mentre sorvola di notte paesaggi minacciosi e pianure deserte.
Irène Némirovsky aveva pensato di iniziare questo suo secondo romanzo, "La nemica", con una citazione tratta dal "Ritratto di Dorian Gray" di Oscar Wilde: "I figli iniziano amando i propri genitori; più tardi, li giudicano; mai o quasi li perdonano". Quali ragioni l'abbiano poi spinta a non farlo, è difficile a dirsi; resta il fatto che tutto questo breve ma intensissimo romanzo si incentra sul complesso, drammatico rapporto tra una madre e una figlia, intorno alle quali l'intero mondo "familiare" diventa quasi un campo di battaglia che non risparmia né colpi né vittime. La "nemica" è infatti la madre, una donna frivola, incapace di amare altri che se stessa, tutta rinchiusa nella sua ansia di piacere, di essere amata, di non invecchiare, del tutto indifferente rispetto ai bisogni prima delle due figlie e poi dell'unica figlia che le resterà: Gabri, che coverà fin da bambina un rancore tale da soggiogare la propria stessa vita, da renderla una sorta di controfigura della madre, in attesa soltanto della sua vendetta finale. "La nemica" venne pubblicato originariamente a puntate sulla rivista "Les Oeuvres libres" dell'editore Fayard nel 1928, con lo pseudonimo di Pierre Nérey Nérey che è l'anagramma di Irène - quasi a mascherare e a svelare insieme il profondo e sofferto contenuto autobiografico della narrazione.
"La nostra vita è guidata da correnti più profonde degli avvenimenti esteriori e un'intensa magia della vita governa i nostri destini, sia che l'azione si svolga ad Anversa durante le guerre di religione, o a Gerusalemme il giorno della Crocifissione": così scriveva Stefan Zweig a proposito di questi due racconti, pubblicati nel 1904 insieme a "L'amore di Erika Ewald" e "La stella sul bosco". Ciò che importa, infatti, non è tanto l'ambientazione dei racconti - l'Anversa del 1566 de "I miracoli della vita" o la Palestina all'epoca del Messia de "Il pellegrinaggio" -, quanto la 'fede' che anima i protagonisti, e non importa a quale religione o confessione appartengano, vissuta come la dimensione principale di quella umanità che tutte le forme di persecuzione vorrebbero negare.
"Todo el Amor" rappresenta l'unica antologia 'personale' di Pablo Neruda, che è andato egli stesso scegliendo e raccogliendo in questo volume quanto poteva meglio rappresentare l'ispirazione amorosa della sua poesia. Se è vero infatti che per Neruda è l'amore la forza maggiore della vita, è anche vero che questa fonte essenziale della sua poesia ha tardato a essere riconosciuta, tanto che lo stesso poeta confidava a Giuseppe Bellini, suo amico e massimo interprete della poesia nerudiana in Italia, la sua contrarietà a essere considerato solamente poeta dell'impegno, quando nella sua poesia aveva tanto posto il sentimento. Possiamo dunque pensare che sia stato proprio questo iniziale 'disconoscimento' a spingere Neruda a sottolineare questo aspetto della sua poesia in una apposita antologia. Il risultato è, come scrive Bellini nella prefazione al volume, "un nuovo libro di confessioni nerudiane, tanto più personale in quanto il poeta stesso lo ha 'costruito'".
"Muss. Ritratto di un dittatore", è un documento prezioso per comprendere il complesso e spesso conflittuale rapporto di Malaparte con il fascismo. La sua stesura, iniziata durante la permanenza di Malaparte a Parigi, ha occupato un lasso di tempo di venti anni, dal 1931 fino ai primi anni Cinquanta. Proprio questa lunga gestazione è il miglior indice del travagliato rapporto di Malaparte con il regime e più ancora con la figura di Mussolini. Previsto inizialmente come una biografia di Mussolini con il titolo "Il Caporal Mussolini", il saggio si è in realtà sviluppato come un'analisi critica del fascismo, che a Malaparte appariva nei suoi tratti di stato di polizia come l'ultimo portato della Controriforma. Oltre che sul rapporto dello scrittore con il fascismo, le pagine di Muss sono interessanti proprio per l'acuto giudizio critico di Malaparte anche sul nascente nazismo, visto come un primo esempio di dittatura moderna capace di indurre il popolo a credere che «il dittatore moderno sia un essere soprannaturale». Non deve dunque sorprendere che poco dopo il suo ritorno in Italia Malaparte venisse arrestato nel 1933, su denuncia di Italo Balbo, con l'accusa di avere svolto all'estero attività antifasciste, e inviato al confino sino al 1934, quando venne riabilitato dallo stesso Mussolini. Lo scritto "Il grande imbecille" completa questo volume.
Il libro di Arpo Angeli si sviluppa su un doppio registro narrativo che coniuga insieme due esigenze, quella della narrazione dei fatti, delle persone e delle cose ed un secondo inedito elemento: stati emotivi, sfondo culturale, immagini mentali. Il recupero del Nonno Antonio e la Porta del morto. Da una parte ci sono i tesori della casa colonica accanto, i marenghi sempre trovati e sempre negati da altri, strano ed oscuro cerimoniale a mezzo tra le esigenze di vite senza denaro e sogni medioevali di incredibili ricchezze. Un eldorado nascosto tra le vecchie mura delle case sempre inframezzate da scavi notturni in notti senza luna; da preti compiacenti che benedivano pezzi di campo per dissuadere il diavolo dalla difesa delle ricchezze sottoterra.
Nella memoria di ognuno la Storia con la "s" maiuscola si intreccia a quella personale, e così gli eventi cardine della propria genealogia si accostano ai fatti salienti del mondo. Seguendo lo stesso principio l'autore narra le vicende della famiglia d'Asaro e di una terra meravigliosa e difficile come la Sicilia. Ecco quindi che un rapimento d'amore avvenuto agli inizi del Novecento nelle strade di Enna ha come cornice un mondo di tradizioni e valori ormai quasi del tutto scomparso; una rocambolesca visita a un paesino sperduto si rivela il pretesto per riflettere sulla Sicilia tra moti garibaldini, sbarchi degli Alleati e gerarchie mafiose; un viaggio in treno Catania-Palermo fa da eco all'importante riforma agraria di Antonio Segni, Amintore Fanfani e Paolo Bonomi, che negli Cinquanta e Sessanta significò la fine di una secolare sottomissione per migliaia di contadini e l'unica ridistribuzione di ricchezza mai avvenuta dall'Unità d'Italia. Ma questa è anche la storia di un trasferimento a Reggio Calabria, a seguito del terribile terremoto del Belìce, che porterà nella sfera della famiglia d'Asaro una figura straordinaria e indimenticabile come Vito de' Bianchi (Giove Ionico), riservato benefattore, filantropo e deus ex machina della Locride. Un racconto arricchito da approfondimenti culturali, storici e gastronomici, capace di trasmettere al lettore quell'amore particolare che lega i protagonisti ai luoghi della propria esistenza.