
Il secondo volume della trilogia "Sfere" indaga le dinamiche di passaggio dalle microsfere (bolle) alle macrosfere (globi): sotto i riflettori sono Dio e il mondo, e con essi tutte le figure "macrosferologiche", di natura sia politica sia metafisica, che hanno dato vita a costruzioni simboliche e istituzionali di grandi dimensioni. Sloterdijk traccia un itinerario che, partendo dalle città mesopotamiche, arriva fino alle società contemporanee, interpretando tali costruzioni come dispositivi "immunitari" mediante i quali i collettivi umani erigono difese contro l'insensatezza e l'esteriorità del mondo. Il volume si chiude con un'ampia teoria della globalizzazione, presentata come un monito contro le semplificazioni imperanti nel dibattito contemporaneo: è impossibile comprendere la globalizzazione terrestre moderna, sostiene Sloterdijk, ignorando il fatto che è stata preceduta dalle globalizzazioni metafisiche di matematici, filosofi e teologi, a partire da quella che ha dato vita, con la figura del cosmo, alla prima geometrizzazione filosofica dell'universo.
Con "Schiume", terzo volume della trilogia Sfere, Peter Sloterdijk completa il tentativo di elaborare un nuovo racconto filosofico delle culture umane. Il concetto di sfera rimanda alla tesi chiave dell'autore, per la quale la vita è una questione di forma. Dopo "Bolle", che sviluppa la teoria dell'intimità, e "Globi", che indaga l'età della metafisica alla luce della filosofia europea classica, "Schiume" elabora una teoria filosofica dell'epoca contemporanea che osserva la vita nel suo sviluppo multifocale. L'immagine della schiuma consente di riconquistare il pluralismo delle invenzioni e delle costruzioni di mondi, e offre una metafora con cui descrivere e interpretare l'individualismo moderno e i suoi paradossi. Nel far questo, Sloterdijk attinge a fonti molto diverse, dalla biologia all'architettura, dalla filosofia ai modelli politici e sociali prevalenti, con l'obiettivo di scandagliare le radici di quella che la tradizione sociologica chiama "società".
“Cinismo” è oggi sinonimo di insensibilità, di un’amara disponibilità a farsi complice di qualsiasi cosa a qualunque prezzo. Ben altra natura possedeva il cinismo degli antichi, o quello che Nietzsche chiamava cynismus, una forma estrema di autodifesa che opponeva alla minaccia dell’insensatezza sociale un nucleo irriducibile di sopravvivenza, la sfrontatezza vitale di una filosofia vissuta. Se il cynicus Diogene viveva in una botte, il “cinico” moderno aspira invece al potere e al successo. Critica della ragion cinica parte da questa contrapposizione per rileggere l’intera storia della filosofia, sottoponendo a una serrata analisi il rapporto tra intellettuali e apparati di potere e il relativo strascico di sangue e ideologie.
Dalle esilaranti frecciate di Diogene contro Platone alla rivisitazione del Grande Inquisitore dostoevskijano, da Nietzsche e Heidegger alle drammatiche parabole della repubblica di Weimar e della rivoluzione russa, Sloterdijk mette a nudo i rischi estremi della falsa coscienza. Sostenuto da una inesauribile e travolgente forza satirica, intreccia provocatoriamente storia del pensiero e costumi sessuali, moda. arte, ideologia e mass media. E dopo aver tracciato una lucida diagnosi della catastrofe politico-morale del nostro tempo, ci indica una possibile terapia, attraverso il coraggio sereno e consapevole di un nuovo cynismus.
Quest’opera è stata accolta da Jürgen Habermas come un “capolavoro di letteratura filosofica”.
Edizione italiana a cura di Andrea Ermano e Mario Perniola
Presentazione di Mario Perniola
L'autore
Peter Sloterdijk, fra i protagonisti del dibattito filosofico contemporaneo, insegna Filosofia ed Estetica presso la Staatliche Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe e dirige l’Istituto di Filosofia della Cultura presso la Akademie der bildenden Künste di Vienna. Nelle nostre edizioni ha recentemente pubblicato Devi cambiare la tua vita (2010), La mano che prende e la mano che dà (2012) e Stress e libertà (2012).
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L'estetica di Sloterdijk non è semplicemente una filosofia dell'arte, ma anzitutto un modo eminente di fare filosofia. Al centro della riflessione che attraversa i saggi qui raccolti è la questione dell'aisthesis - la sensazione o sensibilità - nella sua più ampia declinazione. Da un lato si attribuisce all'arte "in senso stretto "uno spazio eccentrico rispetto alla norma, dall'altro si fa valere un modo alternativo di guardare all'esperienza estetica, riconoscendole un ruolo guida nelle scelte consapevoli e nelle condotte inconsapevoli dell'essere umano. Così concepita, l'estetica possiede un profondo potere euristico: ci aiuta a capire che tipo di mondo ci siamo costruiti, come ci "sentiamo" in questo mondo e in che modo potremmo cambiarlo, cominciando da noi stessi. Con lo stile incisivo e la profondità analitica che gli sono propri, Sloterdijk affronta un ampio spettro di questioni tradizionalmente assegnate alla dimensione estetica - dall'architettura alla musica, dal design alla pittura, dalla forma della città alla letteratura - inquadrandole nella sua originale e innovativa antropologia filosofica.
Negli ultimi 2500 anni i filosofi hanno di volta in volta incarnato il ruolo del Saggio, del Curioso, dell'Asceta, del Polemico, del Mandarino e del Cortigiano. A cosa somiglierebbe dunque la storia della filosofia se fosse raccontata non come una storia di idee, bensí descrivendo tutte queste trasformazioni della figura del filosofo? Sarebbe certo qualcosa di molto diverso da quello che siamo abituati a pensare. In questo saggio arguto e stimolante, Justin Smith ridefinisce cos'è, e cosa non è, la filosofia, muovendosi liberamente tra Oriente e Occidente, dall'Europa di Aristotele, Leibniz e Nietzsche all'Arabia di al-Sidyaq, l'India di Siromani o l'America della tribú Mohawk.
Justin Smith individua sei personaggi tipo che hanno svolto il ruolo del filosofo in società molto diverse di tutto il mondo nel corso dei millenni: il Curioso, il Saggio, il Polemico, l'Asceta, il Mandarino, il Cortigiano. Il risultato è allo stesso tempo un'introduzione non convenzionale alla storia della filosofia e un'esplorazione originale di ciò che la filosofia è stata, e forse potrebbe diventare nuovamente. Attraverso casi di studi storici, inserti autobiografici e divagazioni paranarrative, l'autore individua e analizza aspetti del lavoro filosofico dimenticati o trascurati, per dimostrare quanto la filosofia sia un'attività universale, molto piú ampia e inclusiva, di quanto in genere oggi si pensi.
«Il filosofo di Justin Smith è un saggio sapiente, incisivo, scritto benissimo e spesso spassoso; una disamina indomita ed entusiasmante delle ambizioni dei filosofi di capire la vita, condotta da cosí tanti punti di vista che nemmeno Nietzsche avrebbe osato. Smith è sempre piacevole e intelligente, che prenda in esame sia il Leibniz studioso di teologia cinese, sia Laurence Sterne, T. S. Eliot o J. M. Coetzee. Se vi piace la filosofia, questo libro vi farà felici».
Clancy Martin
"La scoperta dello spirito sono capitoli-saggio che vanno da Omero al periodo ellenistico e indagano come dalla naturalità indifferenziata della poesia epica si giunge attraverso la nascita della tragedia al problema di cos'è l'uomo, e come, dall'immagine-metafora, nasce il problema della scienza, e come la civiltà greca finisce con l'invenzione (Ellenisti, Virgilio) di un mondo arcadico, di arte pura: la letteratura. Indagine ricchissima di idee geniali, sorprendenti, di punti di vista illuminanti, su materia nota e vivace. Unico difetto: non è libro per il popolo. Io sono favorevole." (Cesare Pavese, giudizio editoriale sul libro di Bruno Snell, 3 settembre 1947). "Il volume che avete tra le mani non è un libro nuovo, ma un nuovo libro. È un invito a leggere o rileggere il capolavoro di Bruno Snell in modo più consapevole, nella sua versione completa, esemplata su quella definitiva tedesca. Dopo aver profondamente fecondato la cultura europea del dopoguerra, La scoperta dello spirito si è progressivamente eclissata: del resto la sua visione 'olistica' - oggi del tutto inattuale - fu concepita nella ormai remota Germania degli anni Trenta e Quaranta. Come possiamo, allora, tornare a leggerla con profitto? Si tratterà, anzitutto, di collocarla alla giusta distanza culturale, avvalendosi di una messa a fuoco mobile, come se si inforcassero delle lenti bifocali. Sarà impossibile fare un'esperienza di lettura 'vergine' o solo retrospettiva, riportando indietro le lancette della storia come in un racconto filmico: dovremo cercare perciò di tenere presenti sul nostro schermo i diversi piani culturali, facendo attenzione a non farci risucchiare - attratti dalla prosa elegante e incantatoria di Snell - in quella 'meravigliosa' Grecia dove tutto avrebbe avuto inizio e sviluppo, secondo una linea idealizzante, con sintesi storica nella famosa Aufhebung hegeliana." (Dalla prefazione di Roberto Andreotti)
Partendo dalla fenomenologia col suo "ritorno alle cose stesse", ma staccandosi presto dall'uso husserliano della sospensione di ogni opinione sul mondo, l'autore propone una riduzione che vuole "assecondare" l'odierna passività di un soggetto privato del sentire. Si tratta di rovesciare questa passività con una passività che faccia cadere le resistenze nei confronti dell'esistente nella sua concretezza, che spesso appare dura e ingombrante. Approdo finale è il riconoscimento dell'esistere di qualcosa prima di ogni nome, che sia ornamento e riconoscenza nei confronti della forma come ciò che è "altrove" per essere "qui", come sospensione al lasciar-essere-e-stare divino, passione per l'Altro che scende con la sua bellezza.
Vladimir Solov'ëv, tra i massimi filosofi russi dell'Ottocento, più giovane di Dostoevskij di oltre trent'anni, ne fu il grande discepolo spirituale, tanto che Anna Dostoevskaja paragonò il rapporto tra il giovane filosofo e il marito con quello del monaco Zosima con il giovane Alësia de I fratelli Karamazov. Tra il 1881 e il 1883 scrisse tre discorsi in memoria di Fëdor Dostoevskij, nei quali la sola questione che gli sta a cuore non è riferita alla sua vicenda personale, né alla critica delle sue opere, ma da quale idea fu ispirata tutta la sua opera: «A me pare che non sia lecito guardare solo e semplicemente a Dostoevskij come a un autore di romanzi, come a un letterato dotato di talento e d'intelligenza. C'era in lui qualcosa di più grande, e quel "di più" dà luogo alle sue peculiari caratteristiche e aiuta a spiegare l'azione ch'egli esercita sugli altri». In occasione del bicentenario della nascita di Fëdor Dostoevskij, rileggere il ritratto spirituale di un amico e discepolo, onora la memoria di «un apostolo e di un profeta che come nessun altro nella letteratura russa, è riuscito a dischiudere ai suoi contemporanei sino a noi oggi la bellezza della fede cristiana» (Hilarion di Volokolamsk, dalla Prefazione).