Umberto Eco ha raggiunto fama mondiale come romanziere, intellettuale pubblico, esperto di filosofia medievale, semiologo e studioso di letteratura, arte, storia. Ma, prima di tutto questo, è stato un grande maestro, all'università e fuori. Claudio Paolucci del professor Umberto Eco è stato uno degli ultimi allievi e suo collaboratore all'Università di Bologna. Ma, prima di tutto questo, è stato un ragazzo che nel 1997 si presenta al ricevimento docenti per mettere in dubbio alcune idee di 'Kant e l'ornitorinco'. "Quel professore, che era incidentalmente l'intellettuale italiano più famoso del mondo, passò ore e ore a discutere con un ragazzo di ventiquattro anni con un look che lo disturbava moltissimo". I pilastri del lavoro di Eco sono stati per decenni l'amore per i dubbi e la fiducia nella negoziazione, l'attitudine a gettare ponti tra idee, persone e istituzioni diverse, l'ironia e il riso come test dell'ordine esistente, ma anche la limpida vocazione alla didattica e alla ricerca. In questo libro, Paolucci tenta una prima ricognizione dell'eredità (filosofica, pubblica, umana e intellettuale) di Umberto Eco, mostrando le strette relazioni interne tra le sue differenti attività: la teoria semiotica e la pratica di romanziere, l'analisi dei mass media e l'amore per il Medioevo, il gusto per la barzelletta e la serietà con cui prendeva il suo lavoro di professore.
Fra gli anni Sessanta e Novanta la semiotica fu a più riprese attraversata dal cosiddetto "dibattito sull'iconismo", in cui si contrapponevano coloro che sostenevano che i segni iconici (come ad esempio disegni, dipinti, fotografie) fossero "naturali" o, meglio, motivati dall'oggetto che rappresentavano e coloro che invece affermavano che fossero arbitrari o convenzionali, come i segni del linguaggio verbale. Questo libro ricostruisce le linee fondamentali di questo dibattito e, in particolare, le posizioni espresse da Umberto Eco (uno dei suoi principali protagonisti) nell'arco di trent'anni di riflessione. Nella parte finale si propongono alcune modifiche e integrazioni alla teoria di Eco sul riconoscimento e sulla semiosi percettiva.
"La filosofia di Umberto Eco" e stato pubblicato in prima edizione nella Library of Living Philosophers, fondata nel 1938, serie in cui, nel tempo, sono usciti volumi dedicati, tra gli altri, a Bertrand Russell, Albert Einstein, Jean-Paul Sartre e Hilary Putnam. La formula della collana prevede una Autobiografia intellettuale e il contributo critico di una ventina di studiosi, a livello internazionale, con la risposta per ciascuno da parte dell'autore. Eco, unico italiano nella serie, viene presentato al lettore di lingua inglese come "il più interdisciplinare studioso ad oggi e il più ampiamente tradotto". Fondatore della semiotica moderna, e noto in tutto il mondo per i suoi lavori sulla filosofia del linguaggio e l'estetica. Con la sua narrativa, e diventato figura di riferimento della letteratura contemporanea. I suoi scritti abbracciano ambiti fondamentali e disparati come la pubblicità, la televisione, le arti visive e i fumetti, come pure questioni filosofiche riguardanti la verità, la realtà, la cognizione, i linguaggi e la letteratura. I saggi critici di questo volume coprono tutto l'arco di tale produzione, spaziando attraverso i più vari territori di indagine. L'esito e un grande caleidoscopio, con tutti i volti di Eco e tutti i suoi "mondi", dove ciascun lettore potrà trovare il percorso a sé più affine. Partendo da un unicum, la sua Autobiografia, dove racconta come e successo che un bambino curioso di libri, che disegnava storie ispirate ai pirati dei Caraibi, sia diventato Umberto Eco.
Quello che vedi è reale? Ti senti libero? Da dove vengono i tuoi pensieri? Dio esiste? Cinquanta domande per ragionare intorno ai grandi temi della vita, sviluppare senso critico e capacità di indagare noi stessi. Attraverso le parole dei pensatori che via via incontriamo in queste pagine, si apre lo spazio per il dialogo e per un gioco senza confini perché, come spiega Umberto Galimberti, domandare e rispondere è "fare filosofia". Età di lettura: da 9 anni.
L'Occidente ha due radici: il mondo greco e la tradizione giudaico-cristiana. Per quanto dischiudano orizzonti completamente diversi, entrambi descrivono un mondo dotato di ordine e stabilità. Ma noi viviamo nell'età della tecnica. È finito l'incanto del mondo tipico degli antichi. È finito anche il disincanto dei moderni, che ancora agivano secondo un orizzonte di senso e un fine. La tecnica non tende a uno scopo, non apre scenari di salvezza, non svela la verità: la tecnica funziona. L'etica, come forma dell'agire in vista di fini, celebra la sua impotenza. Il mondo è ora regolato dal fare come pura produzione di risultati. L'unica etica possibile, scrive Umberto Galimberti, è quella del viandante. A differenza del viaggiatore, il viandante non ha meta. Il suo percorso nomade, tutt'altro che un'anarchica erranza, si fa carico dell'assenza di uno scopo. Il viandante spinge avanti i suoi passi, ma non più con l'intenzione di trovare qualcosa, la casa, la patria, l'amore, la verità, la salvezza. Cammina per non perdere le figure del paesaggio. E così scopre il vuoto della legge e il sonno della politica, ancora incuranti dell'unica condizione comune all'umanità: come l'Ulisse dantesco, tutti gli uomini sono uomini di frontiera. Oggi l'uomo sa di non essere al centro. L'etica del viandante si oppone all'etica antropologica del dominio della Terra. Denuncia il nostro modello di civiltà e mette in evidenza che la sua diffusione in tutto il pianeta equivale alla fine della biosfera. L'umanesimo del dominio è un umanesimo senza futuro. Il viandante percorre invece la terra senza possederla, perché sa che la vita appartiene alla natura. Così ci guida Galimberti: "L'etica del viandante avvia a questi pensieri. Sono pensieri ancora tutti da pensare, ma il paesaggio da essi dispiegato è già la nostra instabile, provvisoria e incompiuta dimora".
"Filosofi in libertà" è il clamoroso esordio (1958) di Umberto Eco nel campo, da lui stesso definito, della saggistica leggera. Un piccolo Bignami, si potrebbe dire, della storia della filosofia in forma di filastrocca, un genere assai familiare fin dall'infanzia di Eco, assiduo lettore del "Corriere dei Piccoli". Ai testi si accompagnano talvolta delle argute, sapide vignette dell'autore, in armonia con il costume satirico espresso da testate come "Candido" e "Il Travaso". Pubblicato in tiratura numerata di 500 copie, esce firmato con lo pseudonimo joyciano Dedalus, anche per il rischio di compromettere la carriera accademica del giovane Eco. Questa nuova edizione è integrata dalla sezione "Scrittori in libertà", dedicata a Proust, Joyce e Thomas Mann, tra i prediletti dell'autore.
La metafisica, inaugurata da Platone, secondo Martin Heidegger ha messo in circolazione un'unica forma di pensiero: il pensiero calcolante, che ha trovato nell'economia e nella tecnica l'espressione più alta e organizzata. "Tutto funziona", scrive Heidegger, e "questo è appunto l'inquietante". La tecnica è infatti la realizzazione compiuta dell'intenzione segreta della metafisica, la più idonea a garantire non solo la disponibilità di tutte le cose, ma anche la loro riproducibilità. Eppure, la razionalità imposta dalla tecnica, che esige di raggiungere il massimo degli scopi con l'impiego minimo dei mezzi, finisce per mettere fuori gioco la condizione umana. Ciò che fuoriesce da questa razionalità, per la tecnica è solo un elemento di disturbo e dunque deve essere eliminato. Accade però che l'uomo non sia solo razionalità, ma anche irrazionalità. Infatti irrazionale è la fantasia, l'immaginazione, l'ideazione, il desiderio, il sogno. E se questi aspetti vengono ridotti o soppressi, abbiamo ancora a che fare con l'uomo? Umberto Galimberti ci conduce nella riscoperta del pensiero di Heidegger e fa un fondamentale passo in avanti. Al tempo di Heidegger la tecnica poteva ancora essere considerata uno strumento nelle mani dell'uomo. Oggi non lo è più: è diventata l'ambiente in cui l'uomo vive, e l'uomo stesso è diventato un funzionario della tecnica. "Questo libro", scrive Galimberti, "è una guida alla lettura di Heidegger e, come ogni guida, conduce da un 'primo inizio' a un 'altro inizio', come lo chiama Heidegger, per giungere al quale occorre attraversare l'intero pensiero occidentale, che è stato governato dalla metafisica inaugurata da Platone".
“Eliminare il razzismo non vuol dire mostrare e convincersi che gli Altri non sono diversi da noi, ma comprendere e accettare la loro diversità.”
Dopo Il fascismo eterno, una nuova illuminante riflessione civile, contro ogni pregiudizio e intolleranza.
Per la prima volta insieme, tutti gli scritti che Umberto Eco ha dedicato alla televisione: al suo linguaggio, alle forme di comunicazione che mette in gioco, alle tecnologie che le sostengono, all’immaginario che produce, ai suoi esiti culturali, estetici, etici, educativi e, soprattutto, politici. Una raccolta che, pubblicando anche scritti difficilmente reperibili, copre un arco di tempo che va dal 1956, anno in cui in Italia vengono messe in onda le prime trasmissioni, al 2015, periodo in cui il mezzo televisivo non può più essere considerato come dominante nella produzione e nella trasformazione della cultura social. Dalla ripresa diretta dei primi anni, alla tv-verità e ai reality show degli ultimi anni, da Corrado al Grande fratello, da Mike Bongiorno a Derrick, le riflessioni di Eco denunciano con costante attenzione le strategie televisive nel quadro di una critica inesausta contro i vari populismi mediatici, che è sempre stata la cifra dello sguardo di Eco sui media.
Nel 2007 Umberto Galimberti ha pubblicato un libro, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, in cui descriveva il disagio giovanile da imputare, a suo parere, non tanto alle crisi psicologiche a sfondo esistenziale che caratterizzano l’adolescenza e la giovinezza, quanto a una crisi da lui definita “culturale”, perché il futuro che la cultura di allora prospettava ai giovani non era una promessa, ma qualcosa di imprevedibile, incapace di retroagire come motivazione a sostegno del proprio impegno nella vita.
A distanza di anni cos’è cambiato di quell’atmosfera che Galimberti aveva definito “nichilista”? Non granché, fatta eccezione per una percentuale forse non piccola di giovani che sono passati dal nichilismo passivo della rassegnazione al nichilismo attivo di chi non misconosce e non rimuove l’atmosfera pesante del nichilismo senza scopo e senza perché, ma non si rassegna. E dopo un confronto serrato con la realtà, si promuove in tutte le direzioni, nel tentativo molto determinato di non spegnere i propri sogni.
La parola ai giovani raccoglie la voce di questi giovani, che hanno un gran bisogno di essere ascoltati per poter dire quelle cose che tacciono ai genitori e agli insegnanti, perché temono di conoscere già le risposte, che avvertono lontane dalle loro inquietudini, dalle loro ansie e dai loro problemi. E allora si affidano a un ascoltatore lontano, che prende a dialogare con loro, non per risolvere i loro problemi, ma per offrire un altro punto di vista che li faccia apparire meno drammatici e insolubili.
“Al nichilismo passivo della rassegnazione, non sono pochi i giovani che sostituiscono il nichilismo attivo di chi, prendendo le mosse proprio da quel desolante scenario, e non da consolanti speranze o inutili attese, inventa il proprio futuro.”
“Sono pensieri ancora tutti da pensare”
“Il paesaggio dispiegato dalle parole nomadi è già la nostra instabile, provvisoria e inconsaputa dimora.” Perché “se siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, allora il nomadismo delle parole ci offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza […], dove è scongiurata la monotonia della ripetizione, dell’andare e riandare sulla stessa strada, con i soliti compagni di viaggio, senza nessuno da incontrare”.
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Dell'anima è stato detto di tutto: che è mortale o immortale, che può salvarsi o dannarsi, conoscere la verità o cadere nell'errore, che eleva e nobilita tutto ciò che nell'uomo è poco nobile, cosicché anche il desiderio non è solo dei corpi. Due secoli fa si pensò che potesse ammalarsi, proprio come il corpo, e richiedere medici dell'anima: nacquero la psichiatria, la psicoanalisi, la psicologia, che tolsero all'anima la sua aureola e contribuirono a disperderne la verità nei vari saperi. Ma per Umberto Galimberti è necessario andare al di là del linguaggio della razionalità e delle scienze psicologiche. Bisogna recuperare l'irrazionale che abita la profondità dell'anima e ci fa accedere alla radice da cui si dipartono sia la ragione sia la follia, giungere al fondamento non storico della storia. Oggi non conosciamo più l'anima universale che gli antichi descrivevano ai limiti dei due mondi, dello spirito e della materia: ci sono solo anime individuali rese asfittiche dall'incapacità di correlare la loro sofferenza quotidiana con il dolore del mondo. Ogni indagine sull'anima implica quindi per Galimberti un esplicito riconoscimento della sua dipendenza da ambiti culturali più vasti, un dialogo ininterrotto con tutte le forme di cultura e gli scenari storico-culturali che possono dare modelli interpretativi, e il recupero della visione degli antichi che avevano dato un'anima sia all'uomo sia al mondo, e nell'armonia delle due anime vedevano la bellezza.