Supponiamo che tu voglia chiedere un aumento al tuo capo. Prima fermati e rifletti. Poi, prendi il coraggio a due mani e vai nel suo ufficio. Potresti trovarlo alla sua scrivania oppure trovare una sedia vuota. Delle due, l'una: non c'è. Del resto neanche tu sei nel tuo ufficio. Cosa fare? Non scoraggiarti e aspetta il suo ritorno. Ma il tuo capo potrebbe non tornare. Potrebbe essersi intossicato a mensa mangiando uova marce, o aver ingoiato una lisca di pesce, o aver preso il morbillo da una delle figlie. E se anche rientrasse, chi ti dice che sia di buon umore? Che ti sorrida e ti faccia accomodare quando bussi alla sua porta? Che sia questo il momento giusto? Se è venerdì potrebbe esser meglio aspettare il lunedì. Se è mattina tornare il pomeriggio. E se fosse in piena digestione...
Rilassati. Aspetta il giorno dopo e se sarà presente, se sarà disponibile, sforzati di nuovo di convincerlo.
«Dopo avere riflettuto a lungo dopo aver preso il coraggio a due mani ti decidi ad andare dal tuo capoufficio per chiedergli un aumento e così vai dal tuo capoufficio diciamo per semplificare perché bisogna sempre semplificare che si chiama monsieur xavier cioè monsieur o meglio mr x così vai da mr x e qui delle due l'una o mr x è in ufficio o mr x non è in ufficio se mr x fosse in ufficio apparentemente non ci sarebbe nessun problema ma ovviamente mr x non è in ufficio e così ti rimane solo una cosa da fare appostarti nel corridoio in attesa del suo ritorno...»
Il talento avvelenato di Giorgio sta tutto nello sguardo, in quell'occhio radiografico capace di vedere pure quello che non vorrebbe: alterazioni infinitesimali della materia, incrinature più sottili del capello di un angelo. Le crepe che non vogliono dire niente e quelle che annunciano catastrofi. I difetti delle cose, e forse delle persone.
Che sia l'ala di un aereo o la paratia di una nave, che sia un buco dell'anima o la minuscola perdita di un condotto petrolifero nei ghiacci dell'Alaska, l'esercizio è sempre lo stesso: scoprire, dentro quello che c'è, quello che manca.
Ma tutto traballa quando a essere testate con minuzia da entomologo, senza davvero vederle mai, sono le donne e la vita. Che a un certo punto può riacciuffarti con la sua fragilità irreparabile, con il delicato mistero di un amore, di un dolore, di una sorpresa assoluta.
Giorgio Aguirre ha studiato medicina, come la madre e il padre prima di lui. Ma di fare il medico non se ne parla. Meglio diventare radiologo industriale in un'officina che produce fiancate per elicotteri: «macchine e non uomini, rotture e non fratture». Sì, perché Giorgio ha una specie di occhio assoluto. È in grado di vedere nelle lastre, in quelle zone d'ombra lattiginose, crepe minime che nessun altro percepisce.
Il Rospo, «un tecnico magro e lunare», gli trasmette il mestiere e molto altro. A legarli è un'amicizia trattenuta, virile, burbera e proprio per questo affettuosissima. La forza di quel vecchio brontolone un po' filosofo lo accompagnerà sempre, anche nella sua vita da fuggiasco.
Giorgio infatti parte per il Belgio, dove va a occuparsi del controllo qualità in uno dei centri più all'avanguardia nel campo delle prove non distruttive. Qui incontra Anne-Marie, che profuma «di burro e pandispagna» e gli dà lezioni di guida e di cucina.
Poi si spinge fino in Alaska, dove nuota l'halibut dal ventre bianco e ricurvo come una falce di luna, e dove d'inverno la terra non finisce e il mare non comincia.
Ma il Rospo va a cercarlo per riportarlo a casa, perché dal dolore non si può fuggire sempre, perché occorre anche abbandonarsi all'«infinito ondoso oscillare delle cose». Per scoprirsi alla fine mutati nel profondo.
Alessandro Defilippi ci regala una storia dall'atmosfera sospesa e ipnotica, quasi fantastica, e dei personaggi così veri che pare di conoscerli.
Un romanzo che mette sotto la lente d'ingrandimento le paure più umane, le emozioni più intense, facendole semplicemente pulsare in scene vive dentro il battito del racconto.
Giappone, anni trenta: è tempo di attentati e complotti da parte di gruppi estremisti. In questo contesto ritroviamo Honda Shigekuni, già protagonista di Neve di primavera, nel secondo episodio della tetralogia di Mishima, Il mare della fertilità. È ora giudice della Corte di appello di Osaka, ha compiuto trentotto anni, da dieci anni è sposato con la mite Rie, da cui non ha avuto figli, e conduce una vita tranquilla e abitudinaria. Un giorno però, presenziando a un torneo di kendo, fa la conoscenza di Isao Iinuma, per Honda la reincarnazione dell’aristocratico compagno di scuola Kiyoaki Matsugae, la cui morte aveva segnato per lui la fine della giovinezza. Isao è il figlio di Shigeyuki Iinuma, il vecchio precettore di Kiyoaki e ora presidente di un’associazione patriottica della destra. Isao, a soli diciannove anni, è un campione di kendo, un atleta che sprigiona energia e coraggio virili ma anche un ragazzo ancora puro e ingenuo. Nonostante il turbamento e la nostalgia, Honda è felice di aver ritrovato l’amico la cui vita è avvinghiata alla sua come un rampicante all’albero e sente di doversi prendere cura del giovane. Isao però, cresciuto nel rispetto del codice dei samurai, cova il mito dell’intransigenza verso il potere ingiusto e corrotto, che giustifica la rivolta, e insieme il culto della bella morte. Sarà Honda a cercare di salvarlo.
Zuckerman fa tre incontri che in breve tempo spazzano via la sua solitudine gelosamente custodita. Il primo è con una giovane coppia alla quale, agendo d'impulso, offre uno scambio di case. Dall'istante in cui la incontra, Zuckerman è attratto dalla sfida erotica rappresentata dalla giovane donna, Jamie, e da tutto ciò che credeva di essersi lasciato alle spalle: l'intimità, il gioco vitalissimo fra il cuore e il corpo. Il secondo contatto lo stringe con una figura della sua giovinezza, Amy Bellette, musa e compagna del suo primo eroe letterario, E. I. Lonoff. Un tempo irresistibile, Amy è ormai una vecchia stremata dalla malattia ma ancora decisa a preservare la memoria dell'uomo che ha mostrato a Nathan la via solitaria per la vocazione di scrittore. Il terzo incontro è con l'aspirante biografo di Lonoff, un giovane segugio letterario pronto a tutto pur di stanare il «grande segreto» del maestro. Di colpo invischiato nuovamente - come mai avrebbe voluto o previsto - nelle trame dell'amore e della perdita, del desiderio e dell'animosità, Zuckerman mette in scena un dramma interiore di vivide e intense possibilità.
Sullo sfondo – come in un campo lunghissimo di John Ford o di Sergio Leone – le montagne dell’Arizona, che sembrano «racchiudere il mondo da tutti i lati»; in primo piano un uomo a cavallo, che percorre la pista che conduce alla statale per Tucson: il «Grande Passaggio, attraverso il quale, allorché non esistevano né treni né automobili, erano transitati uomini e mandrie, e buoi, cavalli e carri a migliaia». Oggi, 7 ottobre 1947, l’uomo a cavallo, John Evans detto Curly John, il rispettato proprietario del ranch della Giumenta perduta, compie sessantotto anni, ma in sella si tiene ancora ritto come quando ne aveva venti. Come quando lui e il suo amico Andy Spencer erano arrivati nel selvaggio Ovest in cerca di fortuna. C’è un punto della pista dove, ogni volta che ci passa, a Curly John sembra quasi di «provare il dolore di quel giorno»: trentotto anni prima, lì ha ucciso Romero, il messicano che qualcuno aveva pagato per farlo fuori. Dopo, tutto è stato diverso: Andy, il suo grande amico, che Curly John sospetta di essere il mandante del tentato omicidio, è diventato per lui «l’Innominabile». Ma il caso – una vendita all’asta in cui quasi a malincuore Curly John entra in possesso di un vecchio baule – cambierà le carte in tavola. L’amicizia virile, la vendetta, il perdono; e le miniere, il deserto, i saloon e le case da gioco: gli elementi del buon western ci sono tutti, e con questi Simenon ci offre una sua personale, avvincente variazione sul tema.
«La scrissi nell'occasione che ebbi a studiare le carte dei Poerio-Imbriani: uno dei non so quanti archivi privati di uomini del Risorgimento e di letterati, che io ho preso cura di ricercare, ordinare ed esaminare» annota Croce a proposito di questa monografia dedicata ai Poerio. Ma la pacata semplicità di uno studioso della grandezza di Croce rischia oggi di risultare fuorviante: perché questo scritto del 1916, frutto di un accurato scavo d'archivio non meno che di una vastissima documentazione, è in realtà il racconto limpido, appassionato e appassionante nel suo intreccio di filosofia, politica e letteratura, di settant'anni fra i più tumultuosi e risolutivi della storia d'Italia - dall'ultimo scorcio del Settecento al 1866 - ammirevolmente traguardata attraverso le vicende di una famiglia che finirà per imprimersi nella memoria di ogni lettore. Rivivremo infatti la giovinezza wertheriana di Giuseppe Poerio che, giunto a Napoli nel 1795 dopo studi impregnati della più moderna cultura europea, contribuisce in maniera decisiva al trionfo francese e repubblicano, si batte valorosamente contro i sanfedisti e viene condannato al carcere a vita nella fossa della Favignana (lo salva l'indulto, nel 1801); poi la sua evoluzione politica, tipica di un'intera generazione, giacché nel prendere via via le distanze dalle astrattezze giacobine Poerio rivaluta la reazione popolare antifrancese e abdica all'odio antimonarchico, alimentando il partito liberale moderato; infine il suo esilio con i sodali in Toscana e in altri Paesi europei, esilio che contribuirà ad aggravare la debolezza di tale partito, intrinsecamente legata alla matrice illuministica dei suoi leader. Ma rivivremo anche le vicende del figlio Carlo, più volte arrestato dalla polizia borbonica e infine condannato all'ergastolo, il quale contribuirà alla trasformazione del partito liberale napoletano in partito italiano; la tormentata vocazione alla poesia di suo fratello Alessandro, fervente ammiratore di Goethe, amico di Leopardi e Tommaseo; e, infine, le storie delle donne di casa Poerio, in particolare di Carlotta, sorella di Carlo e Alessandro e madre di Vittorio Imbriani.
Ai suoi dodici figli Licurgo Caminera ha dato soltanto nomi presi dalla mitologia greca. I maschi li ha chiamati Ulisse, o Achille, o Ettore; le femmine Penelope, o Antigone, o Elena. Adesso, nel momento in cui capisce che sta per morire, i sei sopravvissuti ai «venti maligni» delle malattie infantili li vuole tutti intorno a sé. Perché il vecchio contadino anarchico con la passione per la letteratura classica desidera morire come morivano i patriarchi del mondo antico: affidando a chi resta non tanto i beni materiali accumulati in vita – oro, greggi, poderi –, ma le parole di una saggezza ancestrale, destinate a rappresentare, per chi resta, il retaggio più prezioso. Ai figli Licurgo consegna dunque sei buste, in ognuna delle quali c’è una parte del racconto che per anni lui ha scritto, di nascosto, per sé e per loro: dopo la sua morte i sei fratelli dovranno leggerlo gli uni agli altri ad alta voce, perché questo, e solo questo, è il modo in cui il vecchio vuole essere commemorato. A mano a mano che le buste verranno aperte, scopriremo anche noi, con lo sguardo stupefatto dei bambini che ascoltano una fiaba, la storia del bastone dei miracoli (che dà a chi lo possiede la buona morte, ma soprattutto la perigliosa facoltà di conquistare potere e ricchezze) e di Paulu Anzones, noto Muscadellu, che uccide il suo amante e ne sposa la sorella, e le fa fare un figlio con un altro uomo, e per mano di questo figlio troverà una morte atroce… Alla vicenda di Muscadellu e del suo funesto bastone, però – come sanno bene i tanti, appassionati lettori di Niffoi –, si intrecciano molte altre storie: storie di violenza e d’amore, di amicizia e di sangue, di dolore e di festa, che vanno a comporre un ennesimo, magnifico affresco, cupo e sfolgorante al tempo stesso, di vita barbaricina.
Vasilij Grossman scrisse fra il 1955 e il 1963 questo libro, che è il suo testamento. Come nel grandioso Vita e destino, non cambiò molto nel suo stile scabro e aspro che lo aveva reso celebre fra gli scrittori del realismo socialista. Ma vi infuse l’inconfondibile tono della verità. Con lucidità e fermezza, prima di ogni altro parlò qui di argomenti intoccabili: la perenne tortura della vita nei campi, ma anche l’altra tortura, più sottile, di chi ne ritorna e riconosce la bassezza e il terrore negli occhi imbarazzati di parenti e conoscenti; lo sterminio sistematico dei kulaki; la delazione come fondamento della società; il vero ruolo di Lenin e del suo «spregio della libertà » nella costruzione del mondo sovietico.
Considerato l'archetipo del romanzo gotico, "I misteri di Udolpho" fu pubblicato nel 1794, anno dell'ascesa e della caduta di Robespierre. Sull'apparente struttura del racconto di formazione femminile, Ann Radcliffe modella un percorso attraverso gli spazi sublimi del terrore, nei quali l'eroina si smarrisce in una vertigine noir che la conduce oltre i limiti della ragione e della natura. Nella Francia del 1584 la giovane e sensibile Emily St. Aubert, rimasta orfana di entrambi i genitori, viene rinchiusa dalla zia Madame Cheron e dal suo compagno, il perverso zio Montoni, nel tenebroso castello di Udolpho, sugli Appennini. Solo dopo una convulsa serie di avvenimenti agghiaccianti Emily riesce a riacquistare la libertà e a ricongiungersi con il suo innamorato, Valancourt. L'introduzione al romanzo di Viola Papetti, oltre a definire il genere gotico, racconta come la "debole mano" di Ann Radcliffe sia riuscita a trasfigurare il castello di Udolpho in una perfetta e animata macchina del terrore.
L'ex investigatore Louis Kehlweiler, il medievista Marc, l'archeologo Mathias e lo storico della Grande Guerra Lucien amano i bistrot, sono sempre senza una lira ma hanno un talento spiccato per le indagini complicate, soprattutto quando al commissariato brancolano nel buio...
In Chi è morto alzi la mano un faggio è misteriosamente spuntato dal nulla nel giardino della cantante lirica Sophia Siméonidis: potrebbe essere uno scherzo, lo strano regalo di un ammiratore oppure un sinistro presagio.
E quando, in poche settimane, una tranquilla strada di Parigi diverrà teatro di un omicidio ci vorrà molto intuito per riuscire a raccapezzarsi.
In Un po' piú in là sulla destra, Louis Kehlweiler, mentre è in appostamento su una panchina, trova per terra un frammento di osso umano.
Una traccia perduta dentro la città, ormai definitivamente. Eppure Kehlweiler la segue, con i suoi soliti aiutanti. La segue con ostinazione e ossessione fino ad arrivare in un piccolo villaggio della Bretagna...
Infine, in Io sono il Tenebroso la stralunata squadra di improvvisati detective si trova coinvolta nel misterioso caso di due giovani donne uccise a colpi di forbice. La polizia è convinta di essere a un passo dal colpevole, il serial killer pronto a colpire ancora. Ma le cose, come sempre, non hanno mai una faccia sola...
In breve
La quasi centenaria Edena rievoca la propria vita e quella del suo popolo, gli etoni... Nell’Africa della colonizzazione, il destino di una donna e di un popolo. Un colorito e intenso romanzo corale che narra storie di sopraffazione e di prevaricazione: tra i sessi come tra le civiltà.
Il libro
È quasi centenaria Edena, quando in un racconto scandito in sedici veglie si mette a rievocare la propria storia e quella del suo popolo, gli etoni. Nel grande affresco corale che ne deriva viene descritta la vita di un villaggio africano ai tempi della colonizzazione, dove sfilano bianchi e neri, uomini prevaricanti e donne sottomesse, e tutta una serie di personaggi misteriosi e fiabeschi in bilico tra modernità e tradizione. Edena è la figlia di Assanga Djuli, il saggio e autorevole capo villaggio, e di Andela, creatura devota e rassegnata, diversamente dalla seconda moglie del marito, l’edonista e sfrontata Fondamento di Piacere. Mentre il ritmo dell’esistenza intrisa di magia e superstizione scorre come sempre, si avvertono i primi segni e presagi di una trasformazione incombente. Arrivano gli occidentali, a partire da Michelangelo di Montparnasse, quindi i colonizzatori, tedeschi prima, francesi poi. Gli equilibri tradizionali ne vengono travolti, gli uomini sono arruolati in guerre non loro e si diffondono anche le conversioni al cristianesimo. Primo fra tutti, Cristiano n. 1, il giovane che Edena vorrebbe per sposo. Ma un destino diverso l’attende: dopo un susseguirsi di frustrazioni e umiliazioni, acquisita maggiore consapevolezza di sé, trova la forza di ribellarsi all’ipocrisia delle convenzioni e di fuggire. Con lei, i tanti protagonisti del romanzo vanno incontro al nuovo, in una narrazione che ha la poesia della nostalgia ma anche la leggerezza della fiaba grottesca e la vivacità dell’epopea, con un’ironia che stempera rabbia e dolore in superiore saggezza. Quella di chi sa che nella vita tragedia e commedia sono indissolubilmente legate.
In breve
Nel 1995 il Montalbán politico ha già previsto tutto: le ideologie degli anni a venire, un mondo disertato dagli dei, la scomparsa degli intellettuali, la crisi della sinistra, la teologia neoliberale. Eppure spera nelle coscienze critiche democratiche.
Il libro
Già nel 1995 il Montalbán saggista impegnato aveva previsto che cosa sarebbe accaduto in campo politico negli anni a venire. Questioni che adesso sono sotto gli occhi di tutti. L’immaginario che aveva nutrito generazioni di uomini nel ventesimo secolo è crollato e con esso sono andati in crisi il sistema democratico e la sinistra occidentali. Sono scomparsi gli intellettuali critici, è ricomparso l’integralismo. L’Europa ha abbandonato l’idea che lo Stato abbia finalità di emancipazione e ha rinunciato a essere una possibile terza via tra capitalismo selvaggio e barbarie. Eppure sopravvivono le ragioni che avevano generato quegli ideali. Perciò Montalbán passa in rassegna le cause delle degenerazioni delle attuali democrazie – l’evoluzione dei moderni partiti, liberal-conservatori e socialdemocratici, la rimozione del comunismo assieme al modello sovietico, il corporativismo dei professionisti della politica, le nuove povertà e ingiustizie, la falsa o cattiva coscienza del Nord, e così via – per individuare una via d’uscita dallo stallo in cui ci troviamo. Poiché oggi è come se vivessimo in un pianeta delle scimmie sopravvissuto a una terza guerra mondiale fredda, dove dobbiamo espiare i sogni utopici, rassegnarci alla civiltà consumistico-capitalista, rinunciare a un mondo migliore. Montalbán però rifiuta tale pessimismo, non si pente di aver creduto nel progresso della democrazia e fa appello alle coscienze critiche per ricostruire una Ragione Democratica e lottare a favore del bene delle verità possibili, ma soprattutto contro il male delle non verità evidenti.