«Dai miei ricordi dell'infanzia e della giovinezza ho tratto emozioni e memorie che mi hanno commosso. Dalla mia vita di medico ho cercato di trarre spunti per riflessioni sulla vita stessa, sulla scienza, sul significato di essere medico e di essere medico cattolico». Il grande neurochirurgo Giulio Maira si racconta in queste pagine come in un intimo diario. Un viaggio che attraversa tanti anni dall'infanzia alla maturità, ripercorrendo le esperienze più importanti, l'intreccio di scienza e vita, la fede, l'incontro con le suore di Madre Teresa, i personaggi conosciuti, i pazienti eccellenti (come Gian Carlo Menotti, Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Oscar Luigi Scalfaro), l'amicizia e la collaborazione con Rita Levi Montalcini. In "Le farfalle dell'anima" (un omaggio a Ramón y Cajal e a come lui definiva i neuroni) ritroviamo una vita intera spesa per la medicina e per la scienza intesa come servizio per il prossimo. Un concentrato di umanità che scaturisce dal prendersi cura di qualcuno che soffre e che si trova in un momento di debolezza fisica e psicologica. La sua testimonianza originale è anche un tentativo di far capire ai più giovani che ogni lavoro va affrontato con passione e coraggio: mai essere tiepidi di fronte alle scelte importanti. Mettiamo in campo «cuore e coraggio».
Un bambino come tanti: silenzioso, non bello, con grandi occhi pieni di domande. Una città fredda, Salisburgo. La casa di un maestro di musica impiegato alla corte dell'arcivescovo, Leopold Mozart. Il giorno in cui le dita del bambino incontrano i tasti di un pianoforte, tutto cambia. Questa è la storia di un talento precoce, i cui contorni appaiono talmente trascendenti da imporre a tutta la famiglia una missione: coltivarlo e alimentarlo. Ma è anche la storia di una vita travolta da quel talento, perché dal momento in cui il mondo si accorge di lui, Wolfgang Amadeus Mozart non avrà più pace. Assieme al padre, trasformatosi in severo impresario, comincia a viaggiare per le corti d'Europa - da Vienna a Parigi, da Roma a Londra - per esibirsi e per mettere a profitto il suo dono. Per farlo dovrà però rinunciare alla spensieratezza, alle amicizie, agli amori e persino alla salute, mentre per restare nell'orbita della sua vita eccezionale coloro che lo amano, come la sorella Nannerl e la madre Anna, si sacrificheranno fino ad annullarsi. Edgarda Ferri affronta la vita di Mozart dall'originale prospettiva dell'infanzia, dal cuore del rapporto esclusivo e tossico tra lui e Leopold; scrive così, in controluce, la storia di ogni padre e di ogni figlio. Questo viaggio senza sosta sulle strade dell'Europa del Settecento è infatti anche un viaggio nel cuore di un ragazzo e di una famiglia e queste pagine generose, che restituiscono colori, sapori, odori di un'epoca di sfarzo e miserie, ci parlano di noi: nell'universalità degli entusiasmi e delle malinconie di Wolfgang bambino, nella sua tensione tra fedeltà filiale e voglia di libertà, nel suo desiderio di grandezza che è un volto dell'umanissima, eterna voglia di essere felici.
Il 19 gennaio 2018 Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah, viene nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Dopo l'orrore di Auschwitz, il ritorno alla vita e gli oltre trent'anni di testimonianza nelle scuole, si apre per lei una nuova fase: quella dell'impegno istituzionale. «Per uno strano destino», dirà il 13 ottobre 2022, inaugurando a Palazzo Madama la nuova legislatura, «quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco della scuola elementare, oggi si trova addirittura sul banco più prestigioso del Senato». Sono tante, dopo la nomina, le attestazioni di stima e di affetto, ma arrivano anche minacce e messaggi d'odio. Serve la scorta. Liliana Segre però non si arrende e, a braccetto con i carabinieri, porta avanti la sua attività al servizio del Paese. Con analogo spirito civile, nel febbraio 2022, accetta di tenere una rubrica («La Stanza») sul settimanale «Oggi»: una possibilità di dialogo diretto con i lettori che va dalla sua storia personale ai temi della contemporaneità, come la guerra, la pandemia, le migrazioni, l'emergenza climatica. In questo volume, introdotto da una Prefazione di Carlo Verdelli, ritroviamo le rubriche scritte per «Oggi» e i discorsi pubblici più importanti che insieme compongono anche un racconto in presa diretta dell'Italia. In apertura, inoltre, in una conversazione con Alessia Rastelli, la senatrice spiega come abbia vissuto questi ultimi anni e da dove nasca il suo impegno. Mentre la Postfazione del figlio Luciano Belli Paci offre uno scorcio intimo, privato, su come sia cambiata la vita della madre e sul privilegio di esserle accanto.
Tutto parte dall'Emilia e dalle lezioni politiche della madre, dalle partite di calcio al Campo Volo nella Reggio Emilia rossa degli anni Cinquanta. Romano Prodi si racconta per la prima volta in queste pagine scritte con Marco Ascione, giornalista del «Corriere della Sera»: la vita intensa di un protagonista della nostra storia che ha sempre «interpretato a soggetto» da riformista, sì, ma a modo suo. Vicino alla Democrazia cristiana, ma non dentro. Fondatore dell'Ulivo, senza farne un partito. Cattolico osservante, ma «adulto». Atlantista, ma ostinato coltivatore del multilateralismo, impegnato a trarre il meglio anche dal rapporto con i dittatori. I conti da pagare non sono mancati, anche a causa, talvolta, di una certa ostinazione. Eppure ogni passo è stato benzina. Pochi politici in Italia possono vantare la sua carriera: professore universitario a Bologna, negli Stati Uniti e in Cina, due volte a capo dell'Iri e due volte premier, capo della Commissione europea e quasi presidente della Repubblica, affossato da una congiura del suo partito. «Strana vita, ma fortunatissima» dice. Perché può vantare di averci davvero provato a lasciare un segno. Sia fondendo sotto lo stesso tetto le tradizioni riformiste della Dc e del Pci, sia portando l'Italia nell'euro o pilotando da Bruxelles lo storico allargamento dell'Europa. Il suo racconto, lungo il solco degli aneddoti e delle riflessioni politiche, rimanda l'eco delle riunioni con Beniamino Andreatta e Arturo Parisi nella casa di via Gerusalemme a Bologna, delle lezioni americane, della strana chimica con Putin (ma anche con Gheddafi), degli scambi di battute con Chirac, delle missioni in Africa, dei grandi entusiasmi in piazza Santi Apostoli, dei duelli con Cuccia, delle delusioni dirompenti in Parlamento, del complesso rapporto con D'Alema e con Bertinotti, della profonda distanza con Berlusconi, «anche se la vecchiaia porta saggezza».
Tutto il mondo parla di Kamala Harris. Come ha fatto la figlia di due immigrati, nata nella California ancora segregata, a diventare la prima vicepresidente donna nera degli Stati Uniti? Se Kamala deve a qualcuno il suo posto nella storia, quel qualcuno è la donna che la mise al mondo a Oakland nel 1964, dandole il nome di una dea indù, perché «una cultura che venera divinità femminili produce donne forti». Sua madre era una ricercatrice indiana emigrata in California a 19 anni in cerca di una vita e un'istruzione migliori. Suo padre, un professore di economia giunto negli Stati Uniti dalla Giamaica per gli stessi motivi. Kamala assorbe in famiglia l'insofferenza per l'ingiustizia sociale e impara a non farsi spaventare dalle porte chiuse. Al pari dei suoi compagni della Howard University, l'ateneo nero di Toni Morrison, sente di poter diventare qualunque cosa. «Eravamo giovani, talentuosi e neri, e non avremmo permesso a niente e nessuno di sbarrarci la strada.» Etica del lavoro, determinazione, volontà di ferro sono le sue armi. E con queste sfonda molti muri e inaugura la sua collezione di prime volte: nel 2003 procuratrice distrettuale di San Francisco, nel 2010 prima procuratrice generale nera nella storia della California. Nel 2016 è eletta senatrice: è la prima afro-asio-americana. E se con queste stesse armi ha perso una battaglia, le primarie presidenziali, ha vinto però la guerra: la vicepresidenza degli Stati Uniti. Da procuratrice, si batte contro gli abusi sui minori, i crimini d'odio, la dispersione scolastica. Da candidata in lizza per la nomination democratica contesta a Joe Biden la sua antica collaborazione con due senatori contrari agli scuolabus per l'integrazione razziale: «C'era una bambina, in California, che ogni mattina prendeva uno di quegli autobus. Quella bambina ero io». Parole che hanno fatto il giro del mondo, utilizzate dai suoi sostenitori quanto dai suoi detrattori. Certo è che quello stesso Joe Biden l'avrebbe poi scelta come numero due della Casa Bianca. Kamala si era fatta notare. Ancora una volta, a modo suo.
Giulio Andreotti è stato presidente del Consiglio negli anni della solidarietà nazionale, della crisi economica e del terrorismo, culminati nel rapimento e nell'uccisione di Aldo Moro. Nel decennio seguente la sua attività politica assume una decisa connotazione internazionale, con la nomina a presidente della commissione Esteri della Camera e poi, con il primo governo Craxi, a ministro degli Esteri. Questi suoi diari inediti - che cominciano il 6 agosto 1979 e finiscono il 22 luglio 1989, quando l'autore assume la guida del suo sesto governo - diventano così la storia dall'interno non solo del nostro Paese in un periodo cruciale, ma anche degli Stati Uniti da Carter a Reagan, dell'URSS da Breznev a Gorbaciov, della rivoluzione iraniana, dell'eterno conflitto in Medio Oriente, della tormentata costruzione di un'unità europea. Allo stesso tempo, raccontano la vita quotidiana dell'uomo che per oltre mezzo secolo ha dominato la vita politica italiana. «Crediamo» scrivono i curatori Serena e Stefano Andreotti «che la lettura possa aiutare a comprendere meglio la figura di nostro padre, depurandola da alcuni luoghi comuni». Grazie al paziente lavoro dei figli - che hanno attinto anche ad altri documenti autografi - le personalità e gli eventi di un decennio prendono vita attraverso notazioni personali, giudizi pungenti, memorabili battute di spirito. Come nota Andrea Riccardi nella sua introduzione, questi diari rivelano il «segreto» dell'azione politica di Andreotti: «un'immensa tessitura di relazioni nella politica italiana, nella Chiesa e sullo scenario internazionale... Per questo il diario è un contributo originale alla storia e un testo appassionante che mostra da vicino la vita e l'impegno di un protagonista di quegli anni».
Grigna e Monte Bianco, Grand Capucin e Lavaredo, e poi K2, Dru, Cerro Torre, G4, Grandes Jorasses, Cervino: bastano pochi nomi per capire che il protagonista di queste pagine è Walter Bonatti, il grande alpinista che qui racconta le proprie imprese più entusiasmanti ma anche quelle più tragiche, come l'odissea tra le nevi del Pilone Centrale, o amare, come quella legata alla spedizione del 1954. Scalate ed emozioni estreme, dunque, e non solo: a questa appassionante antologia Bonatti volle aggiungere, oltre al racconto dei suoi ultimi viaggi in Patagonia, le sue riflessioni sulla montagna come fonte di incanto e di saggezza, di etica e di bellezza, sul potere della solitudine, sull'alpinismo come strumento di ricerca interiore. E sulla necessità di inseguire, consapevolmente e per tutta la vita, i propri sogni.
A ventinove anni Antonio Megalizzi, «il Mega» per gli amici, si batteva per unire le due grandi passioni della sua vita, l'Europa e il giornalismo, mettendo nel lavoro tutto il suo contagioso entusiasmo. Quel sogno si è spento il 14 dicembre 2018, pochi giorni dopo la strage di Strasburgo in cui Antonio era stato colpito dai proiettili di un estremista. Non si è spenta però la sua memoria di ragazzo vitale, un «trentino di sangue calabrese», dolce e ironico con passioni intense: la famiglia, l'amore per la «sua» Luana, ma anche la radio, i tanti progetti, la passione per la conoscenza e la scrittura. La sua era una forma sempre vivace di partecipazione: i suoi scritti erano pungenti e precisi e non si è mai tirato indietro quando si trattava di criticare i comportamenti scomposti dei nostri rappresentanti politici. A raccontarci la sua storia, a un anno dalla scomparsa, è Paolo Borrometi, come lui giovane giornalista animato da forte spirito civile, che raccoglie in questo libro gli scritti di Antonio e le testimonianze dei genitori, della sorella, della fidanzata e degli amici, per continuare a far vivere le sue passioni e l'esempio ideale di un giovane europeo. Una storia inedita che è anche un manifesto dell'impegno sociale e democratico al di là di ogni muro.
Tom Ballard fu «figlio della montagna» nel senso più profondo del termine. Non è un'ardita metafora, ma la sintesi di un rapporto che è stato prima genetico e poi animato da una passione esclusiva, irrefrenabile, assoluta. Era figlio di Alison Hargreaves, «la più forte delle donne alpiniste», secondo Reinhold Messner. E anche una delle più controverse: aveva scalato l'Eiger tre mesi prima di dare alla luce Tom, sollevando un vespaio di polemiche. Il temperamento della madre e il suo modo di vivere la sfida sembrano suggerire tutte le scelte alpinistiche di Tom, che porta a termine la prima solitaria delle sei grandi pareti delle Alpi in un solo inverno: è il progetto Starlight and Storm, che sua madre aveva compiuto, prima in assoluto, nell'arco di un'estate. Non sappiamo quanto il ricordo di lei aleggiasse anche nella sua decisione, per molti versi inspiegabile, di affrontare gli Ottomila cominciando proprio dal terrificante Nanga Parbat. Forse intendeva avvicinarsi, idealmente, al K2, la montagna su cui Alison aveva perso la vita quando lui aveva appena sei anni, come ipotizza Messner? Non lo sapremo mai. Tom stesso ammetteva che il suo rapporto con la montagna fosse stato fortemente plasmato da un'infanzia passata in tenda, nei campi base, seguendo la mamma. Questa esistenza da «lumaca alpina», che si porta dietro tutto quello che possiede, in cui non c'è niente se non l'indispensabile, era l'unica in cui si sentisse pienamente a suo agio. Un modo di vivere, senz'altro, ma anche di salire: prevalentemente in solitaria, con pochissimi mezzi, senza troppa pubblicità. Una riservatezza, una ricerca dell'essenziale che hanno fatto di lui un vero erede dell'alpinismo classico alla Walter Bonatti. In questo libro Marco Berti, amico intimo e compagno di scalate, ci racconta la storia del giovane alpinista britannico fino alla tragica fine: la spedizione sul famigerato Sperone Mummery del Nanga Parbat, con Daniele Nardi, partita a Natale del 2018. Dopo il 24 febbraio, il silenzio che avvolge i due alpinisti è più eloquente di un urlo. Riviviamo le ore disperate passate a cercarne le tracce. Inutilmente. La montagna, magnifica e terribile, si è ripresa suo figlio. Prefazione di Reinhold Messner.
È diversa dalle altre madri: è americana. Arrivata a Roma subito dopo la guerra con la divisa da ufficiale dell'esercito Usa, sceglie di rendersi utile prendendo le redini del Foster Parents Plan, un programma di aiuti che strapperà alla povertà 11.385 bambini italiani. Questa è la sua storia, ma è anche una storia d'amore tra lei e un intellettuale di raro carisma che fa a palle di neve con Pasolini e che le riempie la casa di scrittori, da Bassani a Cassola, da Carlo Levi a Montale. Ed è una storia di formazione: quella di Laura, la loro bambina che preferisce Fred Buscaglione al Mago Zurlì, crede di aver fatto amicizia con la zarina Anastasia Romanov, viene portata dalla madre a vedere Kennedy da vicino e a una scandalosa rappresentazione di Hair a New York. Laura Laurenzi ci consegna con questo memoir un ritratto del nostro Paese in un decennio dorato: la Dolce Vita con i suoi lussi e i suoi voluttuosi scandali provinciali, ma anche la sua ineguagliabile scena culturale, quando Roma era tra le città più cosmopolite d'Europa. La guerra appare già lontanissima, come i tempi in cui il nonno di Laura andava in collegio con Mussolini, detto «e matt». Sono vicini invece gli anni del libero amore e dell'amore non corrisposto, la scoperta del sesso, gli happening erotico-pacifisti, le lezioni di bacio e le barricate. E quei colpi di scena, quegli incontri che ti cambiano la vita.
È sopravvissuto a due guerre mondiali, sette papi, la monarchia, il fascismo, la Prima Repub­blica e la Seconda. E a sei processi per mafia e omicidio. Giulio Andreotti è stato un esemplare unico del potere in Italia per longevità, sopravvi­venza agli scandali, dimestichezza con gli appa­rati dello Stato e del Vaticano, consuetudine con le classi dirigenti mondiali del passato. È stato unico perfino nell’aspetto fisico, che ha nutrito generazioni di vignettisti. A cento anni dalla nascita, il 14 gennaio del 1919, ripercorrere la sua vita e la sua epoca significa fare i conti con la distanza siderale tra la sua Italia e quella di oggi. Dopo essere stato incombente per mezzo secolo come uomo di governo e come enigma dell’Italia democristiana, Andreotti non c’è più. E non solo perché è morto, il 6 maggio del 2013. Non esistono più la sua politica, la sua cultura, il suo Vaticano. Rimane solo l’eco lonta­na e controversa del «processo del secolo», che doveva chiarire le sue responsabilità e che inve­ce si è concluso nel modo più andreottiano: con una verità sfuggente. Nel suo libro, ampiamente rivisto e aggiornato per questa nuova edizione, Massimo Franco racconta e analizza Andreotti e il suo mondo: gli alleati, i nemici, il suo alone intatto di mistero, ma anche la famiglia invisibile per decenni, e sorprenden­te nella sua stranissima normalità. Attraverso la silhouette curva del «Divo Giulio», aiuta a capire che cosa siamo stati e non siamo più. In un’Italia che cambiava o fingeva di cambiare, Andreotti ri­mase sempre se stesso: nel bene e nel male. Emblema e garante dello status quo nell’era della guerra fredda, ha rappresentato l’«uomo del Pur­gatorio» per antonomasia, in una nazione in bilico tra Paradiso occidentale e Inferno comunista. Ha permesso a un’Italia di specchiarsi per mezzo se­colo in lui, di sentirsi migliore, o forse solo di auto­assolversi. Le ha fornito la bussola: un pessimismo di fondo sulla natura umana, alleviato dall’ironia.
Poche figure nella storia della scienza moderna hanno il carisma di Enrico Fermi. E poche sono state altrettanto determinanti per gli sviluppi successivi della loro disciplina. Tuttavia, molti aspetti della sua biografia sono ancora poco indagati. Il libro di David N. Schwartz colma questo vuoto, anche grazie a fonti inedite ed esclusive, ricostruendo una vita che fu investita in pieno - e in una posizione di primo piano - dalle drammatiche turbolenze della storia del Novecento. La sua biografia si snoda attraverso due guerre mondiali in una parabola che va da Roma agli Stati Uniti passando per Stoccolma: il conferimento del Nobel nel 1938 fornisce a Fermi l'occasione per sfuggire alle leggi razziali, che avrebbero colpito la moglie Laura, ebrea. Tre anni dopo, un team dell'università di Chicago ottiene per la prima volta nella storia una reazione a catena: alla guida dell'esperimento c'è lui, che legherà per sempre il suo nome al famigerato «Progetto Manhattan». Una genialità precocissima, una carriera accademica folgorante, una lista di scoperte che hanno rivoluzionato la fisica moderna corrispondono a una figura privata, di marito e di padre, assai più controversa. Una biografia, la sua, fatta di luci e di ombre, che vanno dall'ambiguo rapporto con il fascismo all'altrettanto discussa adesione al progetto della bomba atomica. Senza cedere alle opposte tentazioni dell'apologia e dell'ipercritica, Schwartz delinea un personaggio enigmatico dai sensazionali meriti scientifici, che più di ogni altro riflette le complessità del suo tempo.