"Vorrei prendere per mano il lettore e farlo scendere per circa dodici metri nel sottosuolo di Roma - lì dove un tempo, su macerie e immondizie, crescevano gli abitati - e risalire per oltre ventisette secoli alla ricerca del primo giorno della città: il 21 aprile di un anno intorno al 750 a.C. Ma cosa nasceva quel giorno? Cosa ne è seguito di importante nei millenni, per noi e per la storia del mondo? Nelle iscrizioni calendariali romane si legge: "Roma condita", fondata. Poco importa l'anno preciso, se il 750 a.C. o, come sostenevano gli storici romani, tra il 758 e il 728 a.C. Conta piuttosto che Roma sia nata, come città e come Stato, tra il 775 e il 675 a.C., nel secolo cui la tradizione attribuisce i regni di tre re fondatori: il violento Romolo, l'anemico Numa Pompilio e Tullo Ostilio. La leggenda di Roma, narrata dagli storici e ricordata per dettagli dagli eruditi antichi, è una grande congerie di temi mitici e di avvenimenti presunti, che occorre scavare stratigraficamente. Come in tutti i miti del mondo, anche in questo si racconta l'origine di qualcosa che emerge dal nulla; così facendo, la leggenda esprime a un tempo una verità e una falsità. La fondazione di Roma è senz'altro un inizio epocale, che ha tuttavia altri importanti inizi alle sue spalle, per cui non nasce dal niente e il mito, più che sublimare, oscura la realtà precedente."
Era il 22 dicembre 1942 quando migliaia di soldati tedeschi e italiani si trovarono fianco a fianco nel tentativo di salvarsi da un violento attacco dell'Armata Rossa ad Arbusov. Vitto, munizioni, medicinali e carburante erano finiti e le truppe sovietiche, in vantaggio numerico, li avevano accerchiati e li bersagliavano senza sosta. Poi un giovane carabiniere balzò a cavallo, brandì un tricolore e si scagliò contro le mitragliatrici nemiche al grido di "Savoia". Il suo eroismo diede nuovo vigore ai compagni, che respinsero i sovietici all'arma bianca. Questa è solo una tra le tante storie della seconda guerra mondiale divenute leggenda, ma testimonia quanto a fondo la sfortunata campagna di Russia sia entrata nella memoria italiana, cristallizzandosi nel ricordo come una "tragica fatalità". Testimoni del tempo e pubblicisti non esitarono a romanzarne il racconto secondo un copione che invariabilmente assegnava ai soldati italiani il ruolo di vittime: dei comandi fascisti, di una guerra spietata contro l'Armata Rossa, della vastità del territorio, della durezza della natura e, non da ultimo, vittime dei tedeschi, che - dopo averli traditi - avrebbero abbandonato i coraggiosi alleati. Si omise di ricordare che gli italiani combattevano una guerra offensiva e non difensiva, che erano gli invasori, gli occupanti respinti dai partigiani.
Procreazione assistita, testamento biologico, obiezione di coscienza, unioni di fatto, diritti degli omosessuali, limiti etici e giuridici della ricerca scientifica, presenza della religione nella sfera pubblica: sono questi alcuni tra i temi della difficile discussione tra laici e cattolici italiani. Da una parte le gerarchie ecclesiastiche condannano i presunti mali del "relativismo", denunciano obliqui tentativi di ricacciare la fede nel privato e la Chiesa nelle sagrestie, indicano fini "non negoziabili"; dall'altra la cultura laica appare troppe volte timorosa, incapace di ritrovare la forza dei propri principi nella dimensione costituzionale, di cogliere il significato di una presenza della Chiesa come vero e proprio soggetto politico. Solo rimuovendo fondamentalismi e arretratezze è possibile ritrovare la via di un dialogo.
Il Novecento che racconto comincia dal 1880 circa e finisce con gli anni Settanta del Novecento. Si apre con l’emigrazione in America e si chiude con la perdita d’importanza dell’Europa e l’affermarsi sempre maggiore del mondo ebraico americano e di Israele. In questo arco di tempo il mondo ebraico muta e la diaspora europea tende a scomparire nei numeri, nella forza culturale, nell’identità, nel progetto. L’emigrazione in America, il sionismo, la rivoluzione russa, la Shoah, la nascita di Israele: le cesure che costellano il Novecento ebraico sono altrettanti passaggi epocali per la storia di tutti. Nel corso del secolo, a partire dalla fine dell’Ottocento, gli ebrei esprimono una forza simbolica travolgente, inedita, alimentata non solo dall’antisemitismo e dalla persecuzione, ma dall’essere stati al tempo stesso artefici di una straordinaria creatività e oggetto del più radicale degli annullamenti. E ancora, dall’essere stati un intreccio tra la volontà di essere uguali agli altri e una durevole percezione di sé come identità sul confine. Nella realtà di oggi, cosa resta di questa storia? Quanto ne è stato distrutto irrimediabilmente dalla violenza, quanto ne è stato logorato poco a poco dal volger del tempo?
Viviamo oggi in un continuo divenire che avvolge presente e futuro nello stesso fluido involucro temporale. L'"ansia del tempo" di cui soffriamo è senza precedenti. L'accelerazione dei ritmi sociali è strategia economica di primo piano e produce, nel quotidiano, un diffuso culto dell'urgenza capace di erodere le possibilità individuali di controllo. Questo meccanismo ha pesanti riflessi sulla costruzione identitaria degli individui, che sono costretti a mettere in atto forme di controllo e autodifesa. Il libro analizza la relazione fra la trasformazione nei modi di concepire il tempo e le dinamiche di trasformazione sociale, da un lato; fra questi processi e le costruzioni temporali dei soggetti, dall'altro. La prima parte analizza i punti cardine del mutamento temporale contemporaneo: accelerazione, fine del "tempo lungo", ridefinizione della memoria e del significato di "continuità temporale". La seconda parte riprende tali tematiche alla luce di ricerche sul campo che hanno focalizzato l'attenzione sui modi in cui i giovani costruiscono le proprie biografie in un panorama sociale caratterizzato da generalizzata incertezza, e sulle differenze di genere che queste costruzioni eventualmente rivelano. Ne sono emersi concezioni e vissuti del tempo capaci di rimettere in discussione due tratti essenziali della visione ereditata dalla modernità: il valore principalmente monetario del tempo, da un lato; il suo carattere astratto e incorporeo, dall'altro.
I manifesto di fondazione del futurismo, pubblicato su "Le Figaro" il 20 febbraio 1909 (quest'anno ne ricorre il centenario), si concludeva con le parole: "La nostra sfida alle stelle". Quel grido vitalistico incarna bene l'entusiasmo tragico del futurismo per la modernità, percepita come un'epoca di lotta e di espansione della potenza dell'uomo, lanciato alla "conquista del divino". Movimento prevalentemente artistico, il futurismo aveva l'ambizione di realizzare una rivoluzione totale che investisse ogni aspetto della vita dall'arte al costume - per creare l'italiano nuovo e, diversamente da altre avanguardie del primo Novecento, ebbe da subito una vocazione politica decisamente orientata in senso nazionalista. I futuristi esaltavano la violenza e la "guerra come igiene del mondo"; furono accesamente interventisti; nel 1918 fondarono un partito e un anno più tardi, con Mussolini, diedero vita ai Fasci di combattimento; parteciparono con D'Annunzio all'avventura di Fiume; simpatizzarono per il bolscevismo; si proponevano di abbattere la monarchia e scacciare il papa dall'Italia.
"La storia non è fatta di pietre o di parole, ma di persone. Ci fu mai una regina di nome Elena, e il suo volto mosse mille navi? Ci fu un guerriero di nome Achille che in un accesso di furore compì stragi tra i nemici? E che dire di Ettore, Odisseo, Priamo, Paride, Agamennone, Menelao? Sono esistiti? Li ha inventati un poeta?" La guerra di Troia è il conflitto più famoso della storia, il racconto immortale che ci accompagna da sempre. Si è pensato a lungo che Omero avesse narrato gli eventi piegandoli alle necessità della poesia e dell'epica, che Troia fosse in realtà un luogo da nulla e che la guerra venisse decisa in duelli tra eroi. Oggi sappiamo - così ci raccontano le nove fonti dell'archeologia e della storiografia - che Troia era una città ricca e potente, vassallo dell'impero ittita, e che il conflitto fu il culmine di una lunga faida tra greci e troiani per il potere, la ricchezza e l'onore.
L'atto della lettura sottende mille significati, non è solo un'operazione intellettuale astratta. Chi legge mette in gioco il proprio corpo e si relaziona con un certo spazio. Modi diversi di leggere si rivelano spia di diverse mentalità e culture, di trasformazioni nei rapporti sociali: corre ad esempio una differenza sostanziale tra la lettura ad alta voce degli antichi e quella silenziosa dei moderni, così come i cambiamenti storici intervenuti nel supporto fisico dei testi - dal codice antico alla tecnologia digitale - hanno innegabilmente trasformato anche il nostro modo di leggere e di concepire il libro. "Gli autori non scrivono libri: essi scrivono testi che diventano oggetti scritti - manoscritti, incisi, stampati e, oggi, informatizzati maneggiati in maniere diverse da lettori in carne e ossa le cui modalità di lettura variano secondo i tempi, i luoghi, i contesti. È questo il processo, troppo spesso dimenticato, posto al centro di questa opera, la quale mira a rintracciare, all'interno delle sequenze cronologiche considerate, i mutamenti fondamentali che hanno trasformato le pratiche di lettura nel mondo occidentale e, al di là di esse, i rapporti con lo scritto."
Le lettere qui raccolte sono state scritte dalle vittime dell’Olocausto e hanno raggiunto i propri destinatari per vie tortuose e spesso impensate. Ciascuna di loro, ingenua, disperata, incredula, rassegnata, è testimonianza unica e senza filtri della Shoah e del suo impatto brutale sulla vita di milioni di individui; persone comuni che, fino a un attimo prima di perdere tutto, cullavano ambizioni, progetti, amori. Le hanno scritte sulla soglia delle case da cui venivano strappati, con la consapevolezza della morte incombente, o con gli occhi ancora pieni dell’orrore toccato ad altri. La loro sofferenza e le loro storie, annotate in fretta e furia un attimo prima che fosse troppo tardi, sono una memoria indimenticabile degli abissi che possono travolgerci. Ma sono anche il segno del fallimento del progetto nazista di trasformare gli ebrei in non uomini: fino all’ultimo respiro chi ha scritto queste parole ha mantenuto la sua dignità e la speranza di non essere dimenticato.
Perché l'Occidente è stato preso di mira? Cosa fa sì che una persona sia disposta a sacrificare la vita per arrecare distruzioni di massa in un paese straniero? Molti hanno optato per la spiegazione più semplice: le privazioni economiche e la mancanza di istruzione indurrebbero all'estremismo e alla violenza. Questa soluzione piace a tanti, da capi di Stato a noti intellettuali. Eppure metà della popolazione mondiale vive con meno di 2 dollari al giorno e le persone con un livello di istruzione elementare o inferiore sono più di un miliardo: se povertà e ignoranza fossero cause, anche minori, di terrorismo, il mondo sarebbe pieno di militanti pronti all'azione. In realtà, i dati disponibili ci dicono che i terroristi in carne e ossa sono ben diversi dallo stereotipo dell'analfabeta indigente. Abbiamo a che fare con persone informate, militanti, dalle idee radicali; a spingerli non è la ricerca di profitto, ma un coinvolgimento politico tanto forte da giustificare la morte a sostegno della "causa". L'Occidente è stato preso di mira non perché è ricco ma perché è influente e perché il terrorismo ha maggiori probabilità di successo se colpisce una democrazia rispetto a un'autocrazia. Alan Krueger analizza con rigore scientifico e con gli strumenti della ricerca empirica, i fattori di rischio, la distribuzione geografica dei combattenti catturati, le conseguenze economiche, psicologiche e politiche degli attacchi e il ruolo dei media nell'amplificare l'allarme.
Il diritto ha sempre tentato di disciplinare il fenomeno della guerra, prima attraverso norme e principi di tipo legislativo, poi per mezzo di misure costituzionali. Il percorso di giuridificazione del conflitto armato è culminato, nel XX secolo, nello ius contra bellum, il diritto volto a contrastare (e non più semplicemente a regolare) il conflitto, conseguenza diretta dei fantasmi di apocalisse finale. Mario Fiorillo ripercorre in questo volume l'evolversi del confronto tra il diritto e quel particolarissimo campo dell'agire umano che è il fatto bellico. La sua analisi da una parte passa in rassegna le diverse forme di legittimazione della guerra, delle sue cause e dei suoi fini, elaborate nei secoli dal pensiero occidentale, e dall'altra ricostruisce storicamente il processo di strutturazione giuridica del conflitto armato e delle sue modalità. L'autore si sofferma in particolare sui conflitti armati delle comunità globalizzate contemporanee, divise fra tradizionale garanzia dei diritti e ossessione di sicurezza. Dall'equilibrio del terrore della guerra fredda si è approdati oggi a un terrore senza equilibrio, una cortina di paura e panico che avvolge il mondo occidentale e che si richiama ancora una volta al diritto in cerca di legittimazione.
Dalle grandi rivoluzioni di fine Settecento alla Prima Guerra mondiale: è la periodizzazione di questo volume pensato esplicitamente per la didattica universitaria. Una periodizzazione che vede l'Ottocento come un "secolo lungo" - dalla rivoluzione americana ai primi anni del secolo - e che è non solo largamente invalsa a livello storiografico, ma anche consacrata dai programmi scolastici e fatta propria dai nuovi ordinamenti universitari e dalla logica modulare che li contraddistingue.