Teilhard de Chardin ripercorre con questi scritti il dibattito sull'evoluzionismo che ha attraversato la prima metà del xx secolo. Sostenendolo con argomentazioni scientifiche estremamente competenti. Fin dal 1926 scrive: "l'evoluzionismo scientifico non è semplicemente un'ipotesi a uso degli zoologi, ma una chiave di cui ciascuno si serve per penetrare, in qualsivoglia compartimento del Passato, la chiave del Reale universale". Ogni essere è frutto di una gestazione che l'ha preceduto: "Parzialmente, in modo infinitesimale, senza nulla perdere del valore individuale, ogni elemento è coestensivo alla storia, alla realtà del Tutto". Tuttavia "l'Evoluzione non è 'creatrice'... ma è, per la nostra esperienza nel Tempo e nello Spazio, l'espressione della Creazione". Di una creazione definita da Teilhard un "lungo gesto" che anima e regge il Divenire. Un Divenire che attuandosi attraverso la legge di complessità-coscienza sospinge la Materia, attraverso stadi successivi, a caricarsi di libertà e di Spirito. E sarà infine sorprendente intuire con Teilhard come la visione evoluzionistica del mondo, lungi dall'orientare al materialismo, sia una possibile "scuola di una migliore spiritualità e di alta moralità".
La ricerca comparata ha permesso di rilevare l'importanza dei simboli e del simbolismo in ogni forma di celebrazione culturale. Agli occhi di Mircea Eliade - iniziatore di questo metodo - gli innumerevoli gesti di consacrazione rivolti agli spazi, agli oggetti, agli uomini - cioè la simbolica del rito sono per l'homo religiosus il modo di riferirsi a un archetipo in grado di conferire forza ed efficacia alle sue azioni. Ogni rituale ha un modello divino. Proprio Eliade ha aperto nuovi orizzonti nella ricerca, non puramente fenomenologica delle varie religioni, ponendo a tema l'homo religiosus. Si tratta di esplorare il pensiero, la coscienza, il comportamento; è l'ermeneutica del messaggio dell'homo religiosus a esser messa in movimento. Ma il sacro, che appartiene a un ordine diverso dall'ordine naturale, non si presenta mai allo stato puro: si manifesta per mezzo di esseri, oggetti, miti o simboli. Attraverso la ierofania l'uomo coglie l'irrompere del sacro nel mondo e prende coscienza dell'esistenza di una realtà trascendente che imprime al mondo la sua dimensione di compiutezza. Il simbolismo realizza la permanente solidarietà dell'uomo con il sacro: nella vita dell'homo religiosus il simbolo viene a compiere una funzione rivelatrice in grado di attribuire nuovo significato all'esistenza.
Ma cosa era dunque Bisanzio? Civiltà e identità romana, religione cristiana, cultura e lingua greca, questo teneva insieme un variegato mosaico di popoli con lingue e tradizioni radicalmente diverse (un'etnia o una popolazione "bizantina" non è infatti mai esistita e non è altrimenti riconoscibile), che nei millecento anni della sua storia ha popolato un'estensione territoriale, all'inizio pari a quella delle regioni orientali dell'Impero romano, la curva del Mediterraneo che va dall'Egitto alla Dalmazia, dal confine danubiano al limes siro-mesopotamico. Restano splendide testimonianze di questa civiltà architettonica e artistica, e pensiamo alla Bulgaria, alla Serbia, alla ex Repubblica jugoslava di Macedonia, alla Grecia, alla Russia, per riferirci alle entità statali moderne, che comunque, almeno nei nomi, ricalcano le identità statali di epoca medievale (ma con gravi situazioni di crisi, si pensi al Kossovo, oggi stato indipendente ma all'epoca cuore stesso della civiltà serba, o all'Ucraina, oggi stato indipendente ma all'epoca regione in cui nacque la Russia cristiana, la Rus'di Kiev, appunto). Per certi versi, anche la stessa Italia fu per secoli largamente permeata di cultura bizantina. Il volume ripercorre questa straordinaria vicenda umana e artistica con dovizia di piante e illustrazioni che guidano i lettori anche non esperti attraverso la disamina soprattutto di chiese e monasteri a una migliore e più corretta comprensione di Bisanzio.
Presentiamo la prima edizione completa dei sermoni di Baldovino di Ford. Le due opere maggiori, "Il sacramento dell'altare" (Jaca Book, 1984), e l'inedito "De commendatione fidei", costituiscono i due pilastri attorno ai quali si snodano i temi della predicazione omiletica raccolta nei Sermoni: la rivelazione dell'amore di Dio nel dono Eucaristico di Cristo e la fede dell'uomo. Attorno a essi altri temi si svolgono in un latino di stampo giuridico, ampio e solenne come le arcate di una chiesa romanica; dal centro, cioè dalla contemplazione del mistero trinitario che si riversa nella comunione vissuta a immagine della Trinità, questa teologia monastica si effonde in una teologia del pensiero vero, della vita buona, della bellezza, della vita consacrata all'amore e all'obbedienza. Tra i sermoni, in particolare nel sesto, rammentando il martirio di Thomas Becket, Baldovino offre considerazioni interessanti anche per la chiesa di oggi: "Tutta la malizia del nostro tempo, anche se ora è molto grande, viene perdonata per questo unico fatto. Un unico delitto è avvenuto, ma in un unico delitto sono compresi molti crimini (6,20)".
A metà del XVI secolo il cardinale Ricci si avventurò in un'impresa impegnativa; volle far decorare con una magnifica serie di affreschi il palazzo di proprietà della sua famiglia, che fu poi dei Sacchetti, ubicato in Via Giulia, a Roma. Il salone fu realizzato da uno dei più famosi artisti di quei tempi e, per quasi tutte le altre sale, venne retribuito principalmente un giovane francese che si affermò poi come grande scultore a Parigi. Gli affreschi, però, rivelano molte mani diverse, e non possono quindi essere opera sua. Una studiosa di fama, la professoressa Nicole Dacos, si è resa conto che il francese dovette limitarsi a fornire gli schemi dei fregi e a eseguirne gli stucchi mentre le pitture furono affidate a diversi principianti venuti pure dall'estero per imparare l'arte italiana, e diventati più tardi quasi tutti celebri. Il palazzo si presenta a noi, oggi, come un tesoro ritrovato, prezioso esempio della pittura manierista. Il lavoro che ora presentiamo si caratterizza come un resoconto colto, e tuttavia vivo, di quella vicenda. In questo volume l'autrice esplora i diversi cicli pittorici, ne indaga l'ispirazione e il contesto artistico che li produsse, senza tralasciare la questione dell'attribuzione.
Oggi possedere dei libri è scontato. Ma non è sempre stato così. Claudia Brinker-von der Heyde dimostra che solo a partire dal Medioevo si formò una vera e propria cultura del libro, quando si sviluppò un mondo legato alla produzione letteraria e a contemporanei processi politici, economici, sociali. Ma i testi che sono stati trasmessi non sono che l'ultimo tassello di una lunga catena, all'inizio della quale vi è la fabbricazione delle pergamene, poi il lavoro di amanuensi e miniaturisti che su queste fissarono il loro sapere e infine i committenti che acquistarono i preziosi manoscritti. Degli autori e poeti conosciamo incredibilmente poco. L'interesse si è piuttosto concentrato sui racconti che hanno prodotto anche se non era decisiva l'originalità dell'opera ma il modo, spesso elevato e raffinatissimo, di raccontarla. I numerosi esempi di letteratura medioevale contenuti in questo volume permettono di scoprire e apprezzare la cultura creata nel Medioevo. L'arte di raccontare e la conoscenza specializzata dell'autrice permettono di rivivere in maniera sensibile questo mondo di creazione.
Nel secondo dei due anni di seminario dedicati da Jacques Derrida alla pena di morte, analisi e ricerche si dilatano fino a raggiungere il cuore di domande solo in apparenza distanti dalla pena capitale: cosa significa pensare il «vivente»? E il sangue, il «concetto» di sangue? Sarà mai possibile una «storia del sangue»? E poi ancora: cosa vuol dire «amar vivere»? Protagonisti di questo interminabile dibattito che incrocia necessariamente la questione della giustizia saranno Kant e Hegel, interrogati anche a partire dalle posizioni assunte nei confronti della tradizione della «legge del taglione» a cui vengono consacrate pagine di rara profondità. Ma il discorso non si ferma qui e, sempre all’insegna dello scavo dei moventi del suo stesso costituirsi, convoca imperativamente Freud (e il suo allievo Reik) per interrogare la trasformazione del diritto criminale operata dalla psicoanalisi. In queste lezioni che contribuiscono a tratteggiare – senza chiudere nessun confine – l’interminabile storia del «delitto » e del «castigo» che vertebra la società degli uomini, Derrida non concede tregua all’incalzare di questioni che si raccolgono nella domanda che attraversa e rilancia altrimenti tutte le altre: cos’è un desiderio?
L'intero corpus delle vetrate di Marc Chagall è esposto nel presente volume. Si entra nei luoghi per i quali l'artista, con l'aiuto del maestro vetraio Charles Marq, ha operato: Assy, Moissac, Metz, Gerusalemme, New York, Pocantico Hills, Tudeley, Zurigo, Nizza, Reims, Chicago, Chichester, Sarrebourg, Magonza, Le Saillant. Sono riprodotti anche i cartoni preparatori finali che Chagall realizzava per ogni vetrata.
Partendo dal monachesimo precristiano e biblico, il volume affronta il periodo di gestazione, il monachesimo del deserto e il primo monachesimo cristiano (eremiti copti, cenobiti, la grande tradizione siriaca, la Cappadocia); segue poi, in parallelo, il filone orientale (san Basilio, san Saba, san Teodoro, il monachesimo sotto l'Islam), e occidentale (monachesimo agostiniano, ispanico, irlandese, benedettino), analizzandone i reciproci apporti. Una storia che, attraverso i grandi snodi europei (Gregorio Magno, la riforma carolingia, Cluny) e un millennio di evoluzione in oriente (Bulgaria, Serbia, Armenia, Georgia, Romania, Sinai, Russia) giunge ai nostri giorni, comprendendo i contributi del monachesimo all'ecumenismo e mostrandone la peculiare capacità di valorizzare il dialogo e lo scambio tra le religioni. I monaci collaborarono in misura decisiva all'evangelizzazione dell'Europa e svolsero un ruolo fondamentale non solo per la salvezza della cultura classica ma anche per il dissodamento delle terre e lo sviluppo dell'agricoltura, nell'orizzonte di un'azione di coniugazione costante di preghiera e lavoro. Questo atlante vuole essere la testimonianza illustrata del sistema di vita, liturgia, cultura, lavoro, memoria e contemplazione incarnata dai monaci che, nel loro "stare nel mondo senza essere del mondo", hanno cambiato la storia e il suo paesaggio culturale e naturale.
Il testo qui proposto affronta la drammatica crisi in cui versa il mondo contemporaneo, una vera e propria "conflagrazione cosmica", secondo la definizione dell'autore, attraverso il mito della divinità hindù di Indra. Per Panikkar Indra assume un valore paradigmatico rispetto alla condizione umana attuale, un simbolo delle energie demoniache e divine che si contendono la supremazia al fondo della nostra più invisibile interiorità. L'India ha ceduto alla tentazione di mettere la scienza e la tecnologia sul piedistallo di Indra andando nella direzione sbagliata: "... la via verso la modernizzazione che l'India ha preso non ha portato alla liberazione promessa. Non ha conseguito il suo scopo. Ha fallito!". La prima parte di questo studio prepara lo sfondo per la tesi di Panikkar. Per questo la megalopoli Mumbai è un'illustrazione spaventosa, ma adatta. Nella seconda parte si presentano le cause più profonde del problema: le civiltà indiche sono incapaci di affrontare il complesso tecnocratico della modernità; il loro carattere autodistruttivo è inerente alle civiltà tecnocratiche. Da questo punto di vista il libro non si limita a descrivere ciò che accade nel sub-continente indico, ma ha l'ambizione di indicare al mondo intero una trasformazione radicale, una sorta di "Utopia" che ha tutte le risorse per realizzarsi, per divenire "concreta".
Lo studio dell'arte paleocristiana e bizantina vedi ancora un problema non risolto: le origini e lo sviluppo dell'icona e il suo uso religioso. Thomas Mathews apre una strada di ricerca finora inesplorata con l'individuazione di un corpus di dipinti su tavola provenienti dall'Egitto precristiano i cui soggetti e tecniche anticipano con evidenza le icone. L'autore rilegge inoltre una serie di documenti (dal il secolo d.C. alle dichiarazioni del II Concilio di Nicea nell'VIII secolo) che descrivono la venerazione delle icone cristiane e il loro uso cultuale all'interno della chiesa e delle pratiche rituali. Il collegamento tra i dipinti su tavola e lo studio dei documenti di natura teologica rivela le possibili radici dell'arte cristiana dell'icona nella pratica religiosa greca e romana, che era solita produrre dipinti su tavola quali offerte votive o immagini per il culto domestico. L'Egitto ellenizzato fondeva il suo pantheon con gli dèi greci, in una singolare operazione di sincretismo (Arpocrate come Dioniso) e realizzava una produzione di tavole (icone) dedicate a varie divinità; in parallelo, le prime immagini cristiane si formavano in analogia con la tradizione pagana (Iside come Maria). Dalla ricostruzione di Mathews appare naturale per i cristiani l'uso di iconografie pagane per rappresentare figure della Rivelazione. Le icone erano poi trasportabili, e questo ha facilitato enormemente la diffusione di formule iconografiche divenute popolari nel Medioevo e nel Rinascimento europeo.