Il libro prende il titolo da un breve poema, "Gita Meridiana", ispirato alla scoperta della tomba del Giovane Principe ad opera del paleontologo Giacomo Giacobini, avvenuta a metà degli anni Ottanta, vicino alla Grotta delle Fate. L'opera è ambientata negli anni Ottanta, in cui è scritta, in Liguria: prima dall'autostrada corrente lungo il mare, col sottofondo delle automobili che attraversano il buio delle gallerie, poi, in una sorta di rapimento meridiano, l'incanto di una sosta in cui l'unico suono è il gracidìo dell'autoradio, e l'improvvisa visione della grotta e del principe sepolto. Con Gita Meridiana la preistoria entra nella mitologia della poesia occidentale. Un altro breve poema costituisce l'asse portante del libro, "II Cimitero dei Partigiani", viaggio metafisico che è anche considerato uno dei capolavori letterari sul mito della Resistenza. Il viaggio all'Ade del poeta, la discesa agli Inferi, il dialogo con le ombre dei giovani partigiani morti per la nostra libertà rappresentano al massimo grado di pietas il percorso di "Gita Meridiana" alle fonti dell'esperienza poetica come sintesi bruciante di visione e compassione.
Tadao Ando è uno dei più grandi architetti viventi. La sua opera e i suoi progetti rispondono ai problemi della società moderna con idee essenziali sugli edifici e sul loro utilizzo attraverso l'esplorazione della forma e dello spazio, in un dialogo ininterrotto tra l'architettura tradizionale giapponese e l'architettura occidentale contemporanea. Questo libro si propone di indagare lo sviluppo del pensiero di Ando e di offrirne una nuova lettura alla luce dei molti riferimenti giapponesi, al fine di comprenderli non solo attraverso la città di Osaka e la regione del Kansai dove Ando è cresciuto, o attraverso la cultura giapponese, il paesaggio urbano degli anni Settanta e tutto ciò che ha potuto influenzare l'approccio di Ando, ma anche attraverso gli orientamenti architettonici che ne hanno preceduto il lavoro e perfino l'influenza sulla generazione successiva. Quali sono i meccanismi che influenzano la 'scatola nera' dell'architetto? Quali sono i differenti stadi di sviluppo, dai suoi primi schizzi all'opera compiuta? Quali sono i suoi punti di riferimento? La risposta a questi interrogativi getterà una nuova luce sull'origine e il fondamento dell'architettura di Ando, ma anche sulla comprensione e l'uso della sua opera fuori dal Giappone.
«Risalendo a ritroso l’erta degli anni - confidava Giovanni Colombo verso il termine della sua vita -, ricordo che nel Natale del 1912, a dieci anni, mio padre mi regalò I Promessi Sposi. Da allora, quel libro fu il compagno prediletto nella mia vita. Da quel Natale, il Manzoni con il suo romanzo e con le sue poesie non mi abbandonò più». Nacque, così, una varietà di saggi di argomento manzoniano. Questo volume, arricchito da una introduzione di Inos Biffi, pubblica i più significativi. Alcuni sono dedicati agli Inni Sacri, che costituiscono «il noviziato del poeta in cerca ancora della forma più congeniale», che si compirà con il romanzo storico, «vertice dell’invenzione artistica»: taluni di essi sono ancora non poco aggrovigliati ma, commentati da Colombo e correlati all’intera opera del Manzoni, rivelano tutta la forza delle «convinzioni della fede che gli urgono dentro» e sono sulla via di sciogliersi e liberarsi in poesia, come avverrà nella Pentecoste. Altri saggi ritraggono il profilo di personaggi del mondo manzoniano - e a risaltare, per fine e commossa interpretazione, è quello della «santa di casa Manzoni», Enrichetta Blondel - o illustrano temi particolari, come quello della preghiera, negli scritti del «più grande poeta religioso della nostra letteratura». Indubbiamente, questa raccolta di studi manzoniani di Giovanni Colombo prende in considerazione soltanto alcuni aspetti della personalità del poeta e della sua opera: si tratta solo di saggi. Eppure, nel loro insieme, offrono una guida chiara e penetrante a tutto il mondo manzoniano: ne rivelano lo spirito, ne creano il gusto, facendo presentire tutta l’incomparabile ricchezza dell’«altissimo poeta religioso» e quindi sommamente umano.
P. Antonio Maria Sicari ci dona questo Undicesimo libro dei Ritratti di Santi, da lui scritto non per «insistenza professionale», ma perché i Ritratti segnano le tappe di un «itinerario quaresimale» che viene celebrato ormai da ventidue anni. E sono molte le comunità cristiane che lo seguono con desiderio di conoscere sempre nuovi profili di amici di Dio. Il volume si apre con il lungo ritratto dedicato alla vocazione e alla missione di san Paolo, l’Apostolo delle genti, nel secondo millennio dalla nascita. L’autore si sofferma poi sull’immensa «opera contemplativa» compiuta da santa Giovanna Francesca di Chantal, nella Francia lacerata dalle guerre di religione. Delinea due profili di «santi della carità» (il veronese san Giovanni Calabria e il tedesco-russo servo di Dio Friedrich Joseph Haass), diversissimi tra loro ma accesi dalla stessa passione per l’ecumenismo della misericordia e della santità. Racconta due appassionanti e gloriose vicende di martirio, una nella Germania nazista (il beato Franz Jägerstätter) e una nel Vietnam comunista (il servo di Dio F.-X. Nguyen Van Thuan): un giovane padre di famiglia e un vescovo, segnati dalla stessa irremovibile dedizione a Cristo e alla sua Chiesa. E «sorprende» col lungo ritratto di una «venerabile» di sei anni e mezzo: la piccola Nennolina (Antonietta Meo), che si abbracciò alla Croce di Gesù così intimamente e con tanto cuore da maturare anche nell’intelligenza della fede: una «prodigiosa esistenza teologica», realizzata da quel Padre celeste che «si compiace di rivelarsi ai piccoli». Infine ci restituisce il volto luminoso di Giovanni Paolo I, il Papa chiamato a mostrare, sia pure fugacemente, la dolcezza del cuore della Chiesa, quando ella si sofferma sul suo compito originario, quello di essere madre ed educatrice dell’umanità. In soli trentatré giorni di pontificato, Papa Luciani ci ha mostrato il sorriso della santità: la santità che sorride e il sorriso che ci fa santi. Così continua l’itinerario alla scoperta del volto di Cristo, che si riflette in quello di tutti i suoi santi, senza che mai si possa esaurirne l’Unica Bellezza.
La sacralizzazione dell’immagine è qui al centro di una ricerca che ne mette in luce tutta la straordinaria importanza: elemento centrale della concezione bizantina del rapporto col divino, essa condiziona fin dalle origini l’evoluzione e la definizione dei princìpi estetici e tecnici dell’arte di Bisanzio. Un’influenza che si manifesta nella concezione bizantina dello spazio e del tempo e nella loro rappresentazione, traducendosi nell’iconografia tipica dell’arte orientale, nel suo rigore formale come nella ricchezza e varietà cromatica delle composizioni: la ieratica frontalità e immobilità delle figure è così emanazione diretta della loro santità, mentre i colori delle vesti e dello sfondo rimandano agli elementi centrali della funzione sacra, come l’oro, simbolo della luce divina, il bianco, riflesso della purezza di Cristo, o il blu, segno della spiritualità dei santi. Fondata sulla credenza in un legame diretto tra rappresentazione e rappresentato, la sacralizzazione dell’immagine svolge un ruolo fondamentale nella formazione e nello sviluppo di tutti gli aspetti del cristianesimo orientale, dalla riflessione teologica alla pratica liturgica, alle forme della devozione, fino alla definizione dei rapporti con l’Occidente: espressione tipica del pensiero mistico della Chiesa d’Oriente, la sacralizzazione dell’immagine costituirà per tutto il Medioevo uno dei nodi centrali del contrasto tra la Chiesa romana e Bisanzio. Bisanzio, però, proprio alla conquista di Costantinopoli da parte dei latini, vede sorgere nel suo seno il primo rinascimento, ricollegandosi al mondo greco. Una nuova concezione dello spazio e del tempo, dell’umanità e dell’amore, percorrerà le opere artistiche in un momento profetico anche per l’arte occidentale. Poi, preoccupazioni spirituali e non solo riporteranno Bisanzio in un suo alveo primigenio.
Il periodo medievale può essere considerato come la fase più duratura dell’ebraismo, poiché il Medioevo s’interrompe con la concessione dei diritti civili nel corso della Rivoluzione francese. Dalla fine del IX secolo al periodo compreso tra il XV e il XVI, ovvero intorno al sorgere del Rinascimento, i pensatori ebrei iniziarono a confrontarsi con i grandi sistemi del loro tempo: la scolastica araba, il neoplatonismo, il neoaristotelismo, l’averroismo, tutti elementi che saranno messi a frutto per dare, in particolare grazie al contributo di Mosè Maimonide, una formulazione filosofica dell’ebraismo. La filosofia ebraica non si ferma però al Medioevo. Essa ha conosciuto un XVIII secolo assai ricco, seguito da un ancor più ricco XIX secolo, grazie alla fioritura del pensiero ebraico in Germania. Un contributo che ha confermato la compatibilità tra l’identità ebraica e la cultura europea.
Direttore del Prestigioso Istituto De Martino per la conservazione della tradizione orale del nostro Paese, cantautore di alto riconoscimento in un mondo extramediatico già corresponsabile delle storiche Edizione del Gallo, scrittore, sceneggiatore, giornalista su Unità, Manifesto e Liberazione, Ivan della Mea, persona da sempre impegnata nella storia del nostro Paese, ha particolarmente evitato di entrare nello Star System o, per meglio dire, nella «società dello spettacolo», delle apparenze. Oggi anche direttore della rivista Inoltre, non ha mai cessato di portare in giro le sue canzoni, proseguendo il difficile lavoro di mantenimento e promozione dell'Istituto. La storia di Ivan, che nel libro Se la vita ti dà uno schiaffo, appare come «Luigi», parte da lontano, da un brefotrofio presso Lucca, per entrare in una vita familiare complessa, con forte spessore umano e drammatico, ma anche divertito, per partecipare poi, con il fratello Luciano, a molti trascorsi della sinistra non istituzionale, pisana, toscana e italiana. Questo suo racconto biografico è tanto realistico quanto intimo. Così realistico da dipanare il proprio immaginario biografico in una vera narrazione letteraria che ricorda due opposti: da un lato, Pratolini e, dall'altro, Joyce per non dimenticare lo straordinario romanzo Nedjma di Yacine Kateb, in una forma tutta toscana in cui la memorialistica si nobilita in una fresca opera di ingegno.
Alla lontana, alla prima luce del mondo di Alberto Toni è un libro dalla bellezza misteriosa e sfuggente. E come a volte accade dei libri in cui la bellezza si manifesta naturalmente, si stenta a capire la ragione di questa emozione di lettura. Non si incontrano eventi numinosi, scorrendo queste pagine, né lampi rivelatori, quei nodi snodati che danno il passo rivelante a molti libri brucianti e durevoli. Qui invece tutto scorre come in un film limpido e come animato da una quotidianità fuori dal tempo. Le poesie dedicate ai grandi trovatori sono forse una chiave sottile di lettura, in un poeta che peraltro non ama, o sa ben celare, ogni intenzione allegorica: certo Toni «trova», semplicemente, scrive occasioni, nel tempo che scorre. Alberto Toni ha scritto sempre versi riconoscibili, ha insomma una sua cifra personale, una propria voce, ma mai come in questo libro l’ha portata ai vertici. Un poeta che nel primo decennio del terzo millennio ci presenta un canzoniere in cui dominano la lezione di Orazio e Ungaretti, lo scorrere quieto del tempo e la percezione lirica molecolare del mondo: «non c’è motivo di resa, anzi per te nuove/ note, quegli accordi, senti, da foglia/ a foglia, da mare a mare, se mi raccogli/ e mi porti con te solo per un momento». Roberto Mussapi.