Del cervello umano, Davide sa quanto ha imparato all'università, e usa nel suo mestiere di neurochirurgo. Finora gli è bastato a neutralizzare i fastidiosi rumori di fondo e le modeste minacce della vita non elettrizzante che conduce nella Lucca suburbana: l'estremismo vegano di sua moglie, ad esempio, o l'inspiegabile atterraggio in giardino di un boomerang aborigeno in arrivo dal nulla. Ma in quei suoni familiari e sedati si nasconde una vibrazione più sinistra, che all'improvviso un pretesto qualsiasi - una discussione al semaforo, una bega di decibel con un vicino di casa - rischia di rendere insopportabile. È quello che tenta di far capire a Davide il suo nuovo, enigmatico maestro, Diego: a contare, e spesso a esplodere nel modo più feroce, è quanto del cervello, qualunque cosa sia, non si sa. O si preferisce non sapere.
«Sono finiti i caffè letterari, il colloquio stesso» confida Sciascia a Domenico Porzio. «Eppure colloquiare significava non soltanto chiacchiera, ma esperienza, urbanità». Ed è come se questo libro, che registra incontri avvenuti lungo il 1988 e il 1989 e interrotti dalla morte dello scrittore, i due amici l'avessero disegnato proprio per scongiurare la fine del libero colloquiare, la dilagante riduzione a intervista della conversazione. Provocato dalla inesauribile curiosità di Porzio, stimolato da un dialogo mutevole, schietto, indisciplinato, Sciascia parla con un'asciuttezza in cui il fervore è schermato dal riserbo e dalla precisione, offrendoci inattesi squarci sulla sua infanzia, quando il 2 novembre i bambini ricevevano i regali dei morti; sulla biblioteca della zia maestra e sul teatro di Racalmuto, responsabili della sua divorante passione per i libri e il cinema; sui drammi che l'hanno segnato, come il suicidio del fratello, cui è seguita quella che con ammirevole pudore definisce «una sequela di guai»; sull'impiego al Consorzio agrario, che gli ha assicurato «il primo impatto con la giustizia». Ma, insieme, vengono alla luce anche tutti i suoi amori: oltre ai libri, Parigi, il Settecento, Stendhal, Savinio, su cui ha pesato l'italica «avversione all'intelligenza», Borges, Pirandello, «incontrato nella natura, nei luoghi». E i segreti della sua officina, come la mescolanza dei generi suggeritagli da Malraux, che vedeva in Santuario di Faulkner «la tragedia greca ... calata nel romanzo poliziesco» - incluso il più spiazzante ed efficace: «Per me scrivere è una cosa allegra».
Per generale consenso, Vertigo [La donna che visse due volte] è il più inestricabile tra i film di Hitchcock - e per alcuni il più bello (o uno dei due o tre supremi). Questo libro si propone di dire perché. E perché Vertigo abbia un film gemello: Rear Window [La finestra sul cortile], che invece è usualmente considerato molto più semplice e immediato, mentre si potrebbe rivelare altrettanto vertiginoso. Ma parlare di questi due film è come parlare del cinema in sé, quindi anche di Max Ophuls, di Rita Hayworth, dell'epifania della «diva» e di un romanzo di Kafka che è innervato dal cinema da capo a fondo: Il disperso [America].
Pubblicati nel 1947, i "Dialoghi con Leucò" appartengono alla singolare categoria dei libri tanto famosi - Pavese li volle accanto a sé quando, nella notte fra il 26 e il 27 agosto 1950, scelse di morire e vi annotò come parole di congedo «Non fate troppi pettegolezzi» - quanto negletti. Il che non stupisce: nella sua opera rappresentano una sorta di ramo a parte e oltretutto perturbante. Si stenta oggi a crederlo, ma all'epoca in Italia il mito godeva di pessima fama, mentre Pavese, sin da quando, nel 1933, aveva letto Frazer, stava scoprendo l'opera di grandi antropologi che in quegli anni si ponevano il quesito: «Che cos'è il mito?», sulla base di testi sino allora ignorati o poco conosciuti. Così era nata, in stretta collaborazione con Ernesto De Martino, la Viola di Einaudi, collana che rimane una gloria dell'editoria italiana. E così nacquero i "Dialoghi con Leucò". Tanto più preziosa sarà oggi, a distanza di più di settant'anni, la lettura di questo libro se si vorrà acquisire una visione stereoscopica del paesaggio in cui è nato, dove non mancarono forti reazioni di ripulsa (per la Viola) o di elusiva diffidenza (per i "Dialoghi con Leucò"). Introduzione di Giulio Guidorizzi. Con una conversazione tra Carlo Ginzburg e Giulia Boringhieri.
Auspicata dal ventiduenne Gadda con febbrile entusiasmo, la Grande Guerra sconvolge la sua esistenza, ma fa di lui uno scrittore: lo dimostrano, oltre allo splendido Giornale di guerra e di prigionia, pubblicato solo nel 1955, le lettere che inviò ai familiari e di cui si presenta qui un'ampia scelta. Lettere che insieme all'apparato iconografico, composto di fotografie per lo più scattate da lui stesso, ci consentono di seguire in presa diretta la sua partecipazione al conflitto, sorretta da incrollabili fermezza e senso del dovere: le estenuanti marce notturne, calzato di «scarpe animalissime», sui ghiacciai dell'Adamello, sotto il tiro degli shrapnel, alla guida di alpini «carichi bestialmente di viveri e munizioni» ma ignari di ogni «fifometro tribblo»; le soste nell'angusta, fradicia e afosa baracca ufficiali, al Rifugio Garibaldi, dove «tutti i dialetti, tutti gli accenti d'Italia» deflagrano «nelle più divertenti imprecazioni»; i «ricoveri» nella pietraia dell'Altopiano dei Sette Comuni, pieni di mosche «come un'osteria di Cinisello», con l'acqua che filtra e «tanto disordine quanto basta per farmi morire d'itterizia»; e da ultimo la disfatta di Caporetto e la prigionia in Germania, che alla disillusione e al senso di inutilità aggiungono «un'orrenda vergogna», nonché la certezza di un destino di «inelezione» e di dolore: «felici quelli a cui le granate avversarie serbarono intatto l'onore».
In un'aula giudiziaria, una donna vestita di nero accusa il capomafia che ha fatto ammazzare suo marito e poi anche suo figlio: «Loro sono venuti meno alla legge dell'onore,» dichiara «e perciò anch'io mi sento sciolta». Pur di vendicarli ha accettato di «dispiacere ai morti» - di infrangere le regole cui si erano sottomessi. Quella donna è Serafina Battaglia, testimone di giustizia nella Palermo dei primi anni Sessanta, devastata dai regolamenti di conti mafiosi. Ma il testo che ne evoca la «vindice inflessibilità» non è un racconto: è uno dei tre memorabili soggetti che Sciascia, realizzando un'antica vocazione - diventare regista o sceneggiatore -, ha scritto per il cinema, e che sono sinora rimasti inediti. Nata alla fine degli anni Venti nel «piccolo, delizioso teatro» di Racalmuto trasformato in cinematografo, e in seguito febbrilmente alimentata, la sua passione per il cinema è del resto sempre stata travolgente: «per me» ha confessato «... il cinema era allora tutto. Tutto». E ha suscitato, fra il 1958 e il 1989, acute riflessioni affidate ai rari scritti pure qui radunati: sull'erotismo nel cinema, sulla nascita dello star system, sul periglioso rapporto tra opere letterarie e riduzioni cinematografiche. Nonché splendidi ritratti: come quelli di Ivan Mosjoukine, dal volto «affilato, spiritato, di nevrotica malinconia», di Erich von Stroheim, «l'ufficiale austriaco che ha dietro di sé il crollo di un impero», o ancora di Gary Cooper, «eroe della grande e libera America» - vertiginosamente somigliante al sergente americano che nell'estate 1943 avanzava al centro della strada «fulminata di sole» di un paese della Sicilia.
«Quando la campagna sarà finita non pochi si precipiteranno a scrivere dei libri» annota Flaiano nel febbraio del 1936, mentre, sottotenente del Genio, partecipa alla guerra d'Etiopia. «Già immagino il contenuto e i titoli: "Fiamme nel Tigrai", "Africa te teneo", "Tricolore sull'Amba"!». Non a caso, attenderà dieci anni prima di ricavare da quella sofferta esperienza - fatta di sete e stanchezza, caldo e paura - un romanzo. Un romanzo sconcertante, tanto più in pieno clima neorealista, che ha come sfondo non la «terra ideale dei films Paramount», ma il paese triste, ingrato, ambiguo, sfuggente delle iene (e che dunque cela di necessità «qualcosa di guasto»), e al centro una vicenda «assolutamente fantastica»: un delitto futile e fatale, che scatena in chi l'ha commesso un corrosivo delirio. E gli trasmette il morbo di un «impero contagioso», di un senso di colpa inscindibile dal rancore, di una pietà commista a disprezzo per un mondo ignoto, l'Africa - «lo sgabuzzino delle porcherie», dove gli occidentali vanno «a sgranchirsi la coscienza».
In quel tempo remoto gli dèi si erano stancati degli uomini, che facevano troppo chiasso, disturbando il loro sonno, e decisero di scatenare il Diluvio per eliminarli. Ma uno di loro, Ea, dio delle acque dolci sotterranee, non era d'accordo e consigliò a un suo protetto, Utnapishtim, di costruire un battello cubico dove ospitare uomini e animali. Così Utnapishtim salvò i viventi dal Diluvio. Il sovrano degli dèi, Enlil, invece di punire Utnapishtim per la sua disobbedienza, gli concesse una vita senza fine, nell'isola di Dilmun. Il nome Utnapishtim significa «Ha trovato la vita». Dopo qualche migliaio di anni approda a Dilmun un naufrago, Sindbad il Marinaio. Utnapishtim lo accoglie nella sua tenda e i due cominciano a parlare. Ciò che Utnapishtim racconta è la materia di questo libro.
Turisti, terroristi, secolaristi, hacker, fondamentalisti, transumanisti, algoritmici: sono tutte tribù che abitano e agitano "l'innominabile attuale". Mondo sfuggente come mai prima, che sembra ignorare il suo passato, ma subito si illumina appena si profilano altri anni, quel periodo fra il 1933 e il 1945 in cui il mondo stesso aveva compiuto un tentativo, parzialmente riuscito, di autoannientamento. Quel che venne dopo era informe, grezzo e strapotente. Nel nuovo millennio, è informe, grezzo e sempre più potente. Auden intitolò "L'età dell'ansia" un poemetto a più voci ambientato in un bar a New York verso la fine della guerra. Oggi quelle voci suonano remote, come se venissero da un'altra valle. L'ansia non manca, ma non prevale. Ciò che prevale è l'inconsistenza, una inconsistenza assassina. È l'età dell'inconsistenza.
Lettore accanito e onnivoro, Manganelli comincia assai presto a scrivere di libri, nel 1946, e nel giro di qualche anno la recensione si trasforma nelle sue mani in un vero e proprio genere letterario che esige uno scrittore, capace non tanto di giudizio – compito «da professore o da irto pedagogo» – quanto di un «gesto critico, esatto, lucido, veloce e non precipitoso, felicemente prensile». I presupposti di tale nuovo genere li ritroveremo tutti in questa raccolta, dove Manganelli rivela una prodigiosa capacità di aprire i suoi pezzi con un ‘presentimento di racconto’ («Se sono in preda ad un rissoso malumore, tre pagine di Singer mi “stigrano”, come si dice in certi dialetti emiliani»); di cogliere le peculiarità di un autore come si infilza una farfalla in una bacheca (L’Iguana è un libro che «sembra non avere autore, ma solo essere un perfetto “apporto”, come dicono gli spiritisti»); di dare sfogo a una «concupiscenza libraria» che lo trascina da Omero a Chaucer, all’amato Seicento, a Vincenzo Monti, Keats, Ivy Compton-Burnett sino a Oliver Sacks e Anna Maria Ortese; di brandire irresistibilmente ironia e sarcasmo («Stretto nella teca dei suoi calzoni accanitamente abbottonati, il ritroso Cassola ha della letteratura un’idea che fa apparire “La famiglia cristiana” l’organo dell’Ente per lo Scambio delle Mogli»); di officiare fastose cerimonie stilistiche e verbali; ma soprattutto di farci intravedere, dietro lo «spazio di indifferenza emotiva» che pone fra sé e ciò che scrive, quella passione della letteratura che «produce matrimoni, fughe a due, notti insonni, poesie, serenate, omicidi, ma in nessun caso cose ragionevoli e sensate».
In questo breve romanzo del 1986 Sciascia affronta un seicentesco caso di stregoneria, dedicando all'episodio - in apparenza uno dei tanti depositati nei nostri archivi - una scrupolosa ricostruzione. Nello sbrogliare l'esasperante "pasticciaccio" tuttavia egli non si limita a consegnarci una delle sue miniature microstoriche, ma dilata l'avversione della Chiesa Cattolica per le "antiche fantasie e leggende" a metafora dell'eterno schema che vede ogni "sistema dominante" combattere tutte le fonti di "ingiustizia, miseria e infelicità" nel momento in cui "ingiustizia, miseria e infelicità" vengono da quello stesso sistema "in maggiore quantità e con accelerazione prodotte".
A Lukones, in una villa isolata, una madre e un figlio si fronteggiano. Lui, don Gonzalo, che le dicerie vogliono iracondo, vorace, crudele e avarissimo, è divorato da un male oscuro, quello che «si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d'una vita». Lei, la Signora, è ridotta da una desolata vecchiezza e dal lutto per la morte dell'altro figlio (il «suo sangue più bello!») a una spettrale sopravvivenza. Li unisce un amore sconfinato, li separa un viluppo di gelosia, senso di colpa, rancore, dolore - preludio al più atroce degli epiloghi. Intorno a loro una casa dissennata, feticcio narcissico ed epicentro di ogni nevrosi, estremo rifugio e tomba, e un'immaginaria terra sudamericana identica alla nostra Brianza, vessata dai Nistitúos provinciales de vigilancia para la noche ? che a tutti vorrebbero imporre la loro violenta protezione ?, assediata da robinie e banzavóis, disseminata di strampalate ville, popolata di «calibani gutturaloidi» che come miserabili Proci dilapidano le attenzioni della Signora. E che Gonzalo vorrebbe cancellare, insieme al barcollante feudo e a tutte le «figurazioni non valide». Perché il «male invisibile» da cui è affetto lo condanna a distinguerle e negarle, quelle «parvenze»: a respingere la «cara normalità», la turpe contingenza del mondo. Anche a prezzo di negare se stesso, anche a prezzo della più dura cognizione, quella che consegna alla solitudine e alla «rapina del dolore».