È sotto il segno delle divergenze, e al tempo stesso della comune esigenza di una lettura insieme rigorosa e appassionata, che si apre e si chiude, nell'arco di ventotto anni, l'amicizia epistolare tra Ceronetti e Quinzio: due adelphiani della prima ora. Due vite segnate dalla abissale contaminazione con il sacro e con la parola, da quella poetica a quella scritturale, che l'epistolario restituisce in una policromia di sfumature e di rimandi serrati. Due fedi assolute, infrangibili, irriducibili: da un lato quella paolina, teologicamente "scandalosa", di Sergio Quinzio nella resurrezione della carne, nella consolazione finale; dall'altro quella, filosoficamente tenace, di Guido Ceronetti nel potere della gnosi. Due anime che, ciò nonostante, non cessano di interpellarsi e di ascoltarsi a vicenda, e non soltanto su argomenti teologici, ma anche sui grandi dibattiti che investono la società e la politica (l'aborto, il conflitto israelo-palestinese), fino ai problemi della vita quotidiana (la salute, il cibo, i traslochi).
La parola profetica ed escatologica è perduta da secoli: la perdita del linguaggio è la perdita dei contenuti, che, attraverso le diverse trascrizioni, si diluiscono, diventano ambigui e infine vengono abbandonati. Eppure il linguaggio della immemorabile religione apocalittica e messianica non è mai morto del tutto e le sue varie reviviscenze segnano dei risvegli parziali e contraddittori nella storia. Ciò che questa parola dell'inizio e della fine può esprimere non è misurabile solo con i metri culturali di cui dispone l'attuale civiltà. Altra è la dimensione a cui quella parola si riferisce, e in essa vuole porsi questo libro. È una dimensione che esige risposte estreme e perentorie, perciò forse inudibili: come è inudibile tutto ciò che non è fondato sul già acquisito, sul conforme, in definitiva sulla permanenza della situazione data. Ma i significati necessari stanno al di là di quella accettazione passiva che è, ai nostri giorni, la cultura. In tre parti distinte di un unico discorso vengono qui considerati i segni sparsi delle cose perdute eppure cercate nel mondo contemporaneo: il nucleo essenziale del messaggio di Gesù attraverso un commento delle parole che gli vengono attribuite dal primo dei Vangeli, quello di Marco; la vicenda percorsa dall'attesa del "regno di Dio" nelle metamorfosi profane subite lungo i venti secoli della sua storia; la situazione paradossale del presente, dove riecheggiano, contraffatte, esperienze antiche e incancellabili.
Come in opere precedenti aveva interrogato e sondato le Scritture, Quinzio interroga qui la storia del cristianesimo, "prototipo e madre della storia moderna". E l'argomentazione coinvolge tutto il moderno, in quanto esso è "post-cristiano e anti-cristiano, nel senso che sta in luogo del cristianesimo, risponde in qualche modo alle aspettative di salvezza cristiana storicamente deluse". Sono squarci rapidi, pagine che non si appagano di tracciare linee di una storia della cultura: anzi, la loro intenzione è quella di mettere in questione la cultura stessa, svelandola come relitto di un secolare naufragio.
Già nei primi anni Sessanta la riflessione di Sergio Quinzio era centrata sul lento e graduale dissolversi della religione all'interno di una modernità che ha reso gli uomini capaci di credere e di sperare.
In queste cinquantadue omelie anomale, che seguono passo per passo il calendario della liturgia cattolica, Quinzio non si limita a restituire ai testi commentati dell'Antico e del nuovo Testamento la loro scandalosa forza originaria, ma li pone in costante rapporto con i mutamenti della storia.
Nel castello di Gaeta un sottotenente della Guardia di Finanza, in servizio di prima nomina, scrive lunghe lettere al fratello.
Questo libro pone la domanda essenziale, quella che non può essere evitata da chiunque affronti la Scrittura con l'intenzione di prendere sul serio, di accettarla nella sua interezza e nella sua letteralità.
Un commento di Sergio Quinzio alla Bibbia.