
La scommessa del volume di Tomaso Montanari è quella di non rinunciare ai vantaggi, e al fascino, della sintesi interpretativa che tale categoria porta con sé (con la sua pretesa di definire tanto un'epoca quanto un'estetica e una sensibilità) senza per questo sacrificare la conoscenza puntuale delle singole opere d'arte. Il secolo di Caravaggio e Rubens, di Bernini e Borromini, di Poussin e Velázquez viene così percorso per intero, tenendo come chiavi interpretative la centralità dello spettatore, il rapporto con l'arte antica e con quella rinascimentale, la diffusione geografica del nuovo stile, la tensione tra funzione religiosa e libertà dell'artista, il peso degli equilibri politici e il ruolo dei grandi mecenati. Mettere in evidenza la varietà e la contraddittorietà che segnano ciò che chiamiamo arte barocca significa mettere ancor più in evidenza le tante ragioni che ci spingono a vedere proprio in quel periodo le radici della nostra modernità.
Gian Lorenzo Bernini non ha un posto nella genealogia dell'arte moderna: quella che parte dalla rivoluzione di Caravaggio, e attraverso Velázquez, Goya e Manet, conduce agli Impressionisti, e dunque alle avanguardie. L'artista più potente, ricco e realizzato dell'Italia secentesca, "il dittatore artistico di Roma", è sempre stato considerato troppo organico alla propaganda dei papi e dei gesuiti per poter aver parte in questa storia di libertà. Basandosi su oltre vent'anni di ricerca, e ribaltando la lettura corrente di opere, fonti e documenti, questo libro dimostra il contrario: a modo suo, Bernini ha seguito Caravaggio sulla via del conflitto, arrivando a sacrificare una parte del proprio successo pur di difendere la sovranità sulla propria arte. Ed è anche grazie a questa tensione che le opere di Gian Lorenzo ci appaiono ancora così terribilmente vive. Bernini seppe uscire dalle regole, pagandone tutte le conseguenze e facendo leva sul giudizio di un'embrionale opinione pubblica europea per affrancarsi dall'arbitrio dei principi. Le sue mani e la sua testa divennero l'unica misura che accettava, e il suo atelier fu insieme luogo della creazione e teatro della libertà. Ma come dimostrare questa tesi? Nelle sue biografie "ufficiali" affiorano cospicue smagliature, fra loro coerenti, che questo libro individua e allarga, una per una. Costruendo così per le opere di Bernini una nuova chiave di lettura.
Il volume è la prima antologia italiana delle risposte scritte che l'Europa dell'età barocca ha dato all'arte figurativa. Riunisce oltre seicento testi diversissimi per qualità, genere, funzione: dalle pagine di Shakespeare agli inventari e ai contratti perla realizzazione di opere d'arte. Questa scelta si deve alla convinzione che la risposta critica all'arte figurativa "non involge solo il nesso tra opera e opere, ma tra opera e mondo, socialità, economia, religione, politica e quant'altro occorra" (Roberto Longhi). Il testo introduttivo è concepito in stretta dipendenza dall'antologia, con il fine di illuminarne il montaggio e mostrare alcuni dei nessi principali che costruiscono ogni sezione, facendo del libro uno strumento didattico che fino ad oggi non esisteva.
La cucina è stata paragonata al linguaggio: come questo essa possiede vocaboli (i prodotti, gli ingredienti) che si organizzano secondo le regole di grammatica (le ricette), di sintassi (i menu, ossia l'ordine delle vivande), di retorica (i comportamenti conviviali). Come il linguaggio, la cucina contiene ed esprime la cultura di chi la pratica, è depositaria dell'identità di gruppo. Ma è anche il primo modo per entrare in contatto con gli altri: più della parola, il cibo si presta a mediare tra culture diverse, aprendo i sistemi di cucina a incroci o contaminazioni. In questo volume, storici, antropologi, sociologi, illustri discutono il ruolo della cucina come identità culturale e come veicolo e prodotto dello scambio cuilturale.
Il volume si rivolge in primo luogo agli studenti universitari dei corsi di base, a cui solitamente vengono consigliati manuali di liceo (quelli "universitari" sono troppo complessi rispetto alle esigenze dei corsi attuali soprattutto per il triennio, dopo il varo della riforma), ma può essere apprezzato anche dagli appassionati della materia.
"Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere". Il proverbio è notissimo, ma è difficile decifrarlo: come può un ammonimento di saggezza popolare escludere dal sapere il contadino? Qualcosa evidentemente non torna. Lo storico si incuriosisce, si chiede quale origine possa avere un testo del genere, che cosa significhi, a cosa possa servire. Investigando fra ricettari antichi, trattati di agricoltura e di dietetica, opere letterarie e raccolte proverbiali, Massimo Montanari scopre che i palati esigenti e gli stomaci delicati della nobiltà si innamorano del formaggio con le pere sin dal Medioevo. Ma c'è di più. A un certo punto l'abbinamento diventa espressione di un savoir faire socialmente esclusivo. Ciò accade quando l'idea medievale del "gusto" come capacità naturale è sopravanzata dall'idea moderna del "buongusto" come attitudine culturale. Senza questo snodo decisivo il proverbio sarebbe impensabile. Montanari si avventura - non senza colpi di scena - nei delicati territori di confine tra cultura scritta e cultura orale, rapporti economico-sociali e rappresentazioni mentali. E l'enigma si svela: quell'ambigua sentenza non è il deposito di una saggezza condivisa, ma un luogo di rappresentazione del conflitto sociale e della lotta di classe. Chi l'avrebbe mai detto che tanta parte di storia se ne stesse racchiusa in un proverbio?
In breve
La cucina non è solo il luogo in cui si progettano sopravvivenza e piacere. La cucina è anche il luogo ideale per allenare la mente… Il riposo della polpetta è come il riposo dei pensieri: se aspetti un po’, vengono meglio.
Perché il pane è un simbolo di civiltà? Cosa può insegnarci la pasta sul rapporto tra forma e sostanza? Che cosa significa dividere le carni, e non poter dividere la minestra? Ricercare la ricetta perfetta è ideologicamente corretto? Le ricette di cucina hanno qualcosa in comune con le ricette del medico? Perché al barbecue cucinano sempre i maschi? I piccoli gesti della vita quotidiana hanno un senso quasi mai banale. Aiutano a riflettere su quello che accade ogni giorno intorno a noi, sul nostro rapporto col mondo, con gli altri, con noi stessi. «Un’idea a cui sono particolarmente affezionato», scrive Montanari, «è che le pratiche di cucina non solo costituiscono un decisivo tassello del patrimonio culturale di una società, ma in molti casi rivelano meccanismi fondamentali del nostro agire materiale e intellettuale. La cucina può così essere assunta come metafora della vita — a meno che non ammettiamo che la vita stessa sia metafora della cucina».
Indice
Introduzione Il riposo della polpetta – 1. Le cose e le idee – 2. Lo statuto degli alimenti – 3. Avventure in cucina – 4. Gastronomia della fame – 5. Sapori – 6. Il piacere e la salute – 7. Il bello e il buono – 8. Riti conviviali – 9. Pratiche e usi di tavola – 10. «Identità» si declina al plurale
L’idea di un libro dedicato a un proverbio può sembrare eccentrica. Ma l’occhio dello storico – un occhio attento a leggere ciò che non è più letto e ciò che è nascosto – ci dimostra quanto possa essere istruttivo e avvincente avventurarsi in una impresa come questa.
Carlo Petrini, Slow Food
Mettere insieme il formaggio e le pere significa riscattare cacio e stracchino dalla loro umiltà contadina e trasfigurarli in cibo degno di una tavola nobile. Perché il gioco sia completo bisogna che i contadini non lo sappiano. Ecco la nascita del proverbio che si finge saggezza popolare ma una volta smascherato rivela la sua natura ferocemente classista.
Alessandro Barbero, “Il Sole 24 Ore”
Indice
Capitolo primo: Un proverbio da decifrare - Capitolo secondo: Un matrimonio annunciato - Capitolo terzo: Un cibo da contadini - Capitolo quarto: Quando il cibo rustico diventa di moda - Capitolo quinto: Una nobilitazione difficile - Capitolo sesto: Ideologia della differenza e strategie di appropriazione - Capitolo settimo: Un frutto di alto lignaggio - Capitolo ottavo: Quando il desiderio confligge con la salute - Capitolo nono: Villani e cavalieri - Capitolo decimo: Sapore-sapere, gusto-buongusto - Capitolo undicesimo: Come nasce un proverbio - Capitolo dodicesimo: «Non dividere le pere col tuo padrone». - Il proverbio come luogo del conflitto di classe - Riferimenti bibliografici e documentari
Siamo seduti a tavola e il cibo viene servito in una successione uguale per tutti. Oggi accade normalmente e ci pare ovvio: ma è stato sempre così? Non nel Medioevo. La tavola medievale segue un altro modello, simile a quello che troviamo ancora praticato in Cina e in Giappone: i cibi sono serviti simultaneamente e spetta a ciascun convitato sceglierli e ordinarli secondo il proprio gusto. Ancora: la cucina contemporanea tende a rispettare i sapori naturali e a riservare a ciascuno di essi uno spazio distinto, nei singoli piatti come nell'ordine del menù. Ma queste regole non sono un archetipo universale. La cucina medievale preferiva mescolare i sapori ed esaltava l'idea dell'artificio, che modifica la natura. Sia la preparazione delle singole vivande, sia la loro dislocazione all'interno del pasto rispondevano a una logica sintetica: tenere insieme più che separare. Ma se le differenze di gusto fra noi e il Medioevo sono importanti, altrettanto forti sono le continuità. Alcune preparazioni costituiscono tuttora un segno forte dell'identità alimentare: la pasta, la polenta, il pane, le torte, una molteplicità di piatti a base di carne, pesce, formaggio, verdure che hanno garantito nei secoli la sopravvivenza e il piacere degli individui. Il viaggio a cui ci introduce Montanari nelle pagine di questo libro ci fa conoscere un territorio doppiamente affascinante, perché vicino e, al tempo stesso, lontano.
Pavia, qualche anno dopo il 774. Alla tavola di Carlo Magno, che festeggia la vittoria sui Longobardi, si insinua di nascosto Adelchi, il principe sconfitto. Ma perché si ingegna a spezzare diligentemente tutte le ossa di cervo, di orso e di bue che restano nei piatti? Fonte Avellana, XI secolo. Pier Damiani è malato da tempo. Il suo corpo è debilitato perché nell'eremo il cibo scarseggia, in particolare manca il pesce. I confratelli insistono perché mangi carne, ma lui li rassicura: abbiate fede, il pesce prima o poi arriverà. Sarà Dio stesso a pensarci. Alessandria d'Egitto, XIII secolo. Il cuoco Fabrat vede comparire un povero con un pane in mano. Non ha soldi per comprare altro cibo, tiene il pane sopra la pentola e intercetta il fumo che sale. Fabrat non è di buon umore; si rivolge al povero con modi sgarbati e gli dice: adesso pagami "di ciò che tu hai preso del mio". Il povero si schermisce: ma scusa, io non ho preso dalla tua cucina altro che fumo. Fabrat non molla: pagami quello che mi hai preso. Come andrà a finire? E che avventure sono quelle di Dante Alighieri ospite del re di Napoli, del contadino Bertoldo in fin di vita per non avere rape da mangiare, dei castelli di zucchero presentati al banchetto di nozze del signore di Bologna, del cuoco Martino che lavora a tu per tu con l'umanista Platina? Si leggono d'un fiato le storie di questo libro, senza perderne una.
Pavia, qualche anno dopo il 774. Alla tavola di Carlo Magno, che festeggia la vittoria sui Longobardi, si insinua di nascosto Adelchi, il principe sconfitto. Ma perché si ingegna a spezzare diligentemente tutte le ossa di cervo, di orso e di bue che restano nei piatti? Fonte Avellana, XI secolo. Pier Damiani è malato da tempo. Il suo corpo è debilitato perché nell'eremo il cibo scarseggia, in particolare manca il pesce. I confratelli insistono perché mangi carne, ma lui li rassicura: abbiate fede, il pesce prima o poi arriverà. Sarà Dio stesso a pensarci. Alessandria d'Egitto, XIII secolo. Il cuoco Fabrat vede comparire un povero con un pane in mano. Non ha soldi per comprare altro cibo, tiene il pane sopra la pentola e intercetta il fumo che sale. Fabrat non è di buon umore; si rivolge al povero con modi sgarbati e gli dice: adesso pagami "di ciò che tu hai preso del mio". Il povero si schermisce: ma scusa, io non ho preso dalla tua cucina altro che fumo. Fabrat non molla: pagami quello che mi hai preso. Come andrà a finire? E che avventure sono quelle di Dante Alighieri ospite del re di Napoli, del contadino Bertoldo in fin di vita per non avere rape da mangiare, dei castelli di zucchero presentati al banchetto di nozze del signore di Bologna, del cuoco Martino che lavora a tu per tu con l'umanista Platina? Si leggono d'un fiato le storie di questo libro, senza perderne una.