
Queste conferenze, scritte dal ventisettenne Nietzsche nel 1872, quando era ancora professore a Basilea, contengono alcune delle affermazioni più radicali e rivoluzionarie contro il sistema della cultura moderna che mai siano state enunciate. Nel suo tentativo di «indovinare l’avvenire» fondandosi, «come un augure, sulle viscere del passato», Nietzsche è riuscito qui a individuare il nesso fra l’educazione scolastica, anche nelle sue zone più apparentemente disinteressate, e l’utilizzazione della forza-lavoro intellettuale da parte della società e ai fini della società stessa, che sono poi quelli di «allevarsi quanto prima è possibile utili impiegati, e assicurarsi della loro incondizionata arrendevolezza». Di fronte a tale brutale intervento, ogni cultura che non voglia identificarsi con l’ordine costituito dovrà agire contro di esso. Dietro la spinta verso una diffusione sempre maggiore della cultura, in cui riconosceva uno dei «dogmi preferiti dall’economia politica di questa nostra epoca», Nietzsche vide dunque un proposito di oppressione e di sfruttamento, insomma l’ombra stessa dell’«economia politica» nel suo senso più generale. Apparirà perciò giustificato leggere questo testo anche come una preveggente analisi dell’industria culturale – e lo storicismo, qui attaccato frontalmente come il maligno incanto che riesce a «paralizzare» ogni impulso a mettere la cultura in immediato contatto con «l’ambiguità dell’esistenza», si rivelerà essere appunto l’agente di un enorme e nefasto processo sociale tuttora in corso.
A venticinque anni, nel 1934, Simone Weil scrisse queste Riflessioni, vero talismano che dovrebbe proteggere chiunque è costretto ad attraversare l’immenso ammasso di menzogne che circonda la parola «società». Come sempre nelle parole più ovvie, in essa si cela una realtà segreta e imponente, che agisce su di noi anche là dove nessuno la riconosce. La Weil è stata la prima a dire con perfetta chiarezza che l’uomo si è emancipato dalla servitù alla natura solo per sottomettersi a un’oppressione ancora più oscura, ancora più capricciosa e incontrollabile: quella esercitata dalla società stessa, poiché «sembra che l’uomo non riesca ad alleggerire il giogo delle necessità naturali senza appesantire nella stessa misura quello dell’oppressione sociale, come per il gioco di un equilibrio misterioso». Da questa intuizione centrale si diparte, con cristallina virtù argomentativa, una sequenza di ragionamenti che svelano nei meccanismi del potere come in quelli della produzione e dello scambio altrettanti volti di una stessa idolatria. Scritto quando Hitler era al potere da pochi mesi e quando Stalin era venerato da gran parte dell’intelligencija come «piccolo padre» di una nuova umanità, questo testo non ha un attimo di incertezza nel delineare l’orrore di quel presente. Ma, come sempre nella Weil, lo sguardo è così preciso proprio perché va al di là del presente e percepisce un’immagine inscalfibile del Bene, in rapporto alla quale giudica il mondo. È uno sguardo che ci induce a «sfuggire al contagio della follia e della vertigine collettiva tornando a stringere per conto proprio, al di sopra dell’idolo sociale, il patto originario dello spirito con l’universo».
Questa terza «Considerazione inattuale», scritta e pubblicata nel 1874, è un’altra sfida che il giovane Nietzsche volle lanciare alla cultura moderna. Al centro, questa volta, è Schopenhauer. Ma Nietzsche non vuole qui addentrarsi nel suo pensiero, bensì prendere la sua figura come emblema del «grande uomo», del genio, categoria che l’Ottocento aveva esaltato e ora si apprestava a sgretolare. Di fronte al diffondersi di una certa generale pavidità, di fronte alla incapacità dell’individuo di sostenere se stesso come unicum, di fronte all’appiattirsi della cultura in servile obbedienza allo Stato, Nietzsche ha voluto ricostruire una fisionomia, quella di «Schopenhauer come educatore», incompatibile con quei caratteri che vedeva affermarsi sempre più intorno a lui. La grandezza, per Nietzsche, non può essere disgiunta dalla familiarità con i mostri e con il fondo feroce dell’esistenza. Eppure, solo chi è avvezzo ad attraversare l’oscuro riesce a emanare un senso perdurante di serenità: «Il vero pensatore rasserena e allieta sempre, sia che egli esprima la sua serietà o il suo scherzo, la sua penetrazione umana o la sua indulgenza divina; senza atteggiamenti tetri, mani tremolanti, occhi acquosi, ma sicuramente e semplicemente, con coraggio e vigore, forse con un certo fare cavalleresco e duro, in ogni caso però come vincitore; e proprio ciò rasserena più profondamente e intimamente: vedere il dio vincitore accanto a tutti i mostri che egli ha combattuto».
Il più intenso ritratto-racconto di Vienna, quando i suoi abitanti erano Robert Musil, Hermann Broch, Alban Berg o l’affascinante dottor Sonne che, seduto al suo tavolo del Café Museum, «parlava come Musil scriveva».
Risale a Cartesio la separazione fra emozione e intelletto, ma le indagini sul cervello attualmente in corso muovono in tutt'altra direzione. Damasio è stato forse il primo a porre sotto esame le infauste conseguenze della separazione di Cartesio e oggi è possibile circoscrivere quell'errore sulla base anche di casi clinici e della valutazione di fatti neurologici sperimentali. Tutte le linee sembrano convergere verso uno stesso risultato: l'essenzialità del valore cognitivo del sentimento. Damasio usa la parola "sentimento" per denotare qualcosa di concettualmente nuovo e introduce una distinzione importante fra il sentire di base e il sentire delle emozioni, fondata su osservazioni di architettura anatomico-funzionale.
L’opera scientifica che più di ogni altra ci ha avvicinato, in questi ultimi anni, a quel «teatro segreto fatto di monologhi senza parole e di consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e i misteri» che si chiama coscienza.