
In questo libro, dedicato all'economia informale del Perù e alle ragioni per cui la povertà può essere un terreno fertile per i terroristi, Hernando de Soto descrive le forze che tengono le persone alle dipendenze di economie clandestine: le barriere burocratiche alla proprietà formale e la mancanza di strutture legali che riconoscano e promuovano la proprietà di beni. Sono proprio queste forze, secondo de Soto, che impediscono alle case, ai terreni e alle macchine di operare come in Occidente, vale a dire come beni produttori di capitale. Sotto il governo di Fujimori, l'Istituto per la Libertà e la Democrazia di de Soto ha elaborato decine di leggi per promuovere i diritti di proprietà e portare le persone fuori dall'economìa informale e farle entrare in quella formale. Ne è scaturito non soltanto un boom economico per il Perù, ma anche la sconfitta di Sendero Luminoso, movimento terroristico e forza di mercato nero che all'epoca minacciava di assumere il controllo del governo peruviano. In una nuova prefazione, de Soto attualizza il suo saggio, mettendo in relazione il Sendero Luminoso degli anni '80 con i talebani di oggi.
Il progetto della società civile richiede in primo luogo l'esercizio di alcune virtù civiche che potremmo sintetizzare con l'espressione autogoverno: l'insieme delle virtù che segnano la distanza tra il suddito, ripiegato su se stesso e in balia del potere coercitivo, e il sovrano, responsabile per le azioni che compie e per questa ragione libero di contribuire alla realizzazione della propria personalità. L'esercizio di tali virtù richiede il sacrificio costante e la vigilanza perenne, dal momento che il progetto della società civile non è l'esito intenzionale di qualche astuto scienziato sociale; non si tratta di un'opera d'ingegneria sociale, raggiunta in modo definitivo, una volta per tutte, bensì è la lenta evoluzione di attitudini che hanno assunto la forma storica che noi conosciamo dopo un'incessante - e mai definitivamente compiuta - opera di approssimazione a ciò che uomini imperfetti, ma desiderosi di migliorare la propria condizione, hanno creduto e credono che sia la verità.
Perché la Banca Mondiale e il FMI non hanno mai aiutato i poveri? Perché aumentare le tasse non deve essere considerata una scelta "responsabile"? Perché i sindacati molto spesso danneggiano i lavoratori anziché aiutarli? Questo libro di Robert Murphy guida il lettore attraverso molti miti e luoghi comuni dell'economia che molto spesso sono frutto di correttezza politica più che di riflessioni serie sulle scienze economiche.
Il dibattito sull'economia sociale di mercato, come soluzione alla crisi del sistema italiano, è stato recentemente protagonista sulle principali testate giornalistiche. Autorevoli commentatori hanno argomentato pro o contro questo modello. Ma quali sono le caratteristiche e gli sviluppi storici e teorici che lo renderebbero proponibile nel contesto attuale? L'Autore ne ripercorre la genesi, a partire da quel filone del liberalismo europeo chiamato ordoliberalismo, fino all'originale interpretazione di don Luigi Sturzo in Italia. Basata su alcuni capisaldi quali l'economia di mercato, la libera iniziativa, la lotta ai monopoli (pubblici e privati) e la stabilità monetaria, l'economia sociale di mercato è distante sia dalle dottrine interventiste come dal capitalismo selvaggio. Al centro c'è l'idea che il sistema economico, per esprimere al meglio le proprie funzioni produttivo-allocative, dovrebbe operare in conformità con una "costituzione economica" che lo Stato stesso pone in essere.
Dopo essere stato per decenni una palla al piede dell'economia nazionale, il Mezzogiorno è oggi chiamato a riconoscere spazio al mercato e alle logiche imprenditoriali, divenendo la frontiera di un'Italia inedita e ricca di potenzialità. È questa la tesi sostenuta da Piercamillo Falasca e Carlo Lottieri, persuasi che tale obiettivo possa essere raggiunto sposando l'idea di un federalismo fiscale per il Sud. Anziché invocare una maggiore redistribuzione a loro favore, la classe politica e l'opinione pubblica meridionale devono accettare la sfida della competizione tra territori, rinunciare allo status quo e proporre al Centro-Nord uno "scambio": alla riforma federale e all'abolizione di ogni sussidio si accompagni l'abbattimento generalizzato e per dieci anni dell'imposta sul reddito di impresa per chi investe al Sud. Il costo per l'erario sarebbe sostenibile e si creerebbero quelle condizioni favorevoli allo sviluppo economico che mezzo secolo di trasferimenti miliardari non ha prodotto. Il sogno degli autori è quello di veder sorgere nel Mezzogiorno una nuova Irlanda, calda e multicolore, tra Pompei e la Valle dei Templi: una "tigre mediterranea" quale solo una svolta coraggiosamente federalista e in direzione del mercato può permettere.
Nei confronti dell'economia industriale, delle forme moderne di organizzazione della produzione, più in generale del mercato, i cattolici hanno avuto da sempre un atteggiamento di cautela se non di diffidenza. Solo di recente, con la "Centesimus annus", questo rapporto è stato posto in termini più costruttivi. Il libro ripercorre per la prima volta la lunga e tormentata storia di questo rapporto a partire dall'inizio dell'800 studiandolo in termini rigorosi. Nelle considerazioni conclusive Barucci e Pezzotta dimostrano quali siano i fecondi sviluppi che questo atteggiamento può avere e la sua positiva attualità.
Questo volume è un prezioso strumento di decifrazione della Grande Depressione, uno dei più inquietanti fenomeni del Novecento. Quella gravissima crisi economica e sociale viene "letta" e "riletta" da varie prospettive, che insieme convergono verso la smentita dell'imputazione corrente. E non è più il puntuale portato del "perverso" funzionamento del sistema capitalistico. L'impianto teorico utilizzato da Murray N. Rothbard è quello proprio della Scuola austriaca di economia, in cui la teoria del ciclo economico è parte di una più estesa critica dell'interventismo statale. La Grande Depressione diviene cosi l'esito di una lunga e sistematica politica interventistica, di cui fu prevalente paladino il ceto politico e a cui aderirono operatori economici in cerca di "privilegi" e insospettabili economisti. L'opera di Rothbard permette di individuare i molti errori di ieri. E getta luce sugli aspetti salienti dell'attuale crisi finanziaria internazionale.
Con questo libro, Sergio Ricossa fa un prezioso dono al vasto pubblico. Mette al servizio dei "non addetti ai lavori" il suo esteso sapere e la sua inesauribile ironia. E ne viene fuori un testo che con mano lieve trascina il lettore in un affascinante e divertente viaggio fra gli economisti e le loro idee. Per rendere più agile il dialogo con il lettore, Ricossa ricorre a una messa in scena. Ipotizza che un suo omonimo, che per comodità possiamo chiamare Ricossa il Giovane, abbia il compito, nell'anno 2450, dopo una "Catastrofe" distruttiva di molte cose, di reperire i "materiali" con cui ricostruire la vita e le opere degli economisti; non mancano il cane di Maffeo Pantaleoni e i gatti di Vilfredo Pareto. Il risultato è un vero e proprio "spettacolo": di quelli che avvincono e che spingono a tornare a teatro. La storia degli economisti è una tragicommedia. Avrebbero voluto indagare la dimensione economica della vita, spiegarci il perché della prosperità e della depressione, farci capire qualcosa dei fenomeni in cui ogni giorno c'imbattiamo. Ma le loro teorie, contraddittorie, divergenti, rendono complicato ciò che è semplice e indecifrabile quel che è complesso.
“La via della schiavitù” è probabilmente l'opera di Hayek che ha fatto più parlare di sé, Un libro tornato di recente di gran moda, basti pensare che in America, dopo essere stato citato dal giornalista radiofonico Glenn Beck è improvvisamente balzato in cima alle classifiche diventando in breve tempo settimo (il primo era Stieg Larsson). Alla sua prima edizione (nel 1944) apparve a molti come un libro eretico in quanto criticava fortemente e con passione il controllo dello stato sui mezzi di produzione (formulando così una delle più feroci critiche al pensiero comunista). Gli stati liberali che uscivano dalla guerra dovevano dunque fare attenzione perché rischiavano di perdere non solo la libertà economica ma anche quella politica. Ora, dopo la sbornia di intervento pubblico che abbiamo subito negli ultimi due anni, anche noi italiani cominciamo a capire come la lezione di Hayek sia quanto mai attuale.
La crisi è la conseguenza di una mancanza di etica dei banchieri? È l'effetto di uno spirito di lucro insensato che induce a prendere troppi rischi per ottenere maggiori bonus? Questa è una tesi troppo semplicistica, replica Pascal Salin. La crisi è forse il prodotto di una eccessiva deregolamentazione? Questo è falso, specifica l'autore. Esistono piuttosto troppe cattive regolamentazioni, troppe cattive politiche economiche e monetarie... e una insufficienza di capitalismo. Pertanto, come raccomandano i sostenitori dell'interventismo e della regolamentazione, lo Stato ritorna a essere la soluzione nuovamente di moda? Assolutamente no, sottolinea Salin. Il "ritorno dello Stato" rischia piuttosto di farci sprofondare ancora di più. Per uno spirito libero, è fondamentale decifrare la crisi e svelare le ipocrisie a cui la sua interpretazione dominante dà luogo.
I tre saggi contenuti nel libro formano un insieme di passaggi a favore di un argomento che percorre da lungo tempo il mondo moderno, da quando la gente ha cominciato a spostarsi da una stabile esistenza agricola alla più complessa e fragile situazione economica e umana della moderna città industriale, oggi tecnologizzata. La gente con una visione miope delle questioni sociali può credere che l’abbondanza e il potere siano oggi alla portata di tutti, a esclusione di coloro che hanno eliminato gli aspetti umani sui quali si fonda l’ordine moderno, con tutti i suoi autentici progressi. Queste tre voci forti e chiare convergono in una maniera che è tanto più sorprendente quanto più mostra un’armonia fondamentale tra persone le cui vite professionali e vocazioni sono state molto differenti.

