Tra il 1940 e il 1943 circa 70.000 soldati alleati furono prigionieri in Italia. Catturati sui fronti africani, vennero detenuti in quasi tutte le regioni italiane, in campi che rappresentarono uno specifico universo di cattività, indagato qui per la prima volta nella sua interezza. L'Italia della seconda guerra mondiale non fu in grado di rispettare i suoi doveri di potenza detentrice, e la miseria patita dai suoi cittadini ebbe serie conseguenze anche sui prigionieri. In alcuni casi, poi, le autorità dei campi si resero responsabili di veri e propri crimini di guerra nei confronti dei nemici detenuti. La prigionia alleata nel nostro paese, che questo libro ricostruisce, è dunque un altro dei "luoghi" della storia in cui si infrange il mito degli italiani brava gente.
Le guerre totali del Novecento, con il sempre più massiccio coinvolgimento della popolazione civile, esposero decine di migliaia di italiane alla perdita del compagno, anche quando questo non indossava l'uniforme: fu il caso delle vedove civili di guerra. Il volume indaga la loro condizione e cosa fecero (o non fecero) l'Italia fascista e poi quella repubblicana per sostenerle, in una situazione in cui l'intervento dello Stato era sollecitato non solo dalla politica ma anche dall'associazionismo delle vittime civili, dal cui archivio storico emerge una documentazione sino ad oggi ignorata. Lo studio di queste vicende consente così di comprendere come le vedove affrontarono la loro condizione e come reagirono a situazioni sociali, economiche e legali che rischiavano di ricacciarle nel "recinto domestico". Emergono così narrazioni, petizioni e battaglie legali delle capofamiglia create dal dramma della guerra, inscrivibili nella cornice più ampia della mobilitazione delle italiane di quegli anni.
Questa è la storia della prima globalizzazione della prostituzione vista dalla prospettiva del caso italiano. È una storia di corpi, di migrazioni, di lavoro, costruita attraverso fonti originali e che copre un ampio arco cronologico, dove l'interesse per le vicende personali si intreccia con quello per le politiche, le iniziative diplomatiche e le misure di polizia. Studiare il mondo della prostituzione nel suo divenire mercato transnazionale significa guardare da un punto di vista nuovo, laterale e perciò meno frequentato dalla storiografia, alcune delle pagine più significative della storia contemporanea: i fenomeni migratori, l'espansione coloniale, i processi di costruzione della nazione.
Il nome e l'attività antifascista di Lucia Sarzi sono ben noti a chi ha letto "I miei sette figli" di Alcide Cervi o ha visto "I sette fratelli Cervi" di Gianni Puccini. A lei si deve molto del radicamento della rete clandestina che, tra case di latitanza, antifascisti e partigiani, rese possibile la Resistenza in Emilia. Attrice itinerante, giovanissima (era nata l'8 novembre 1920) entrò in contatto con i comunisti di Parma nell'estate 1940; nel novembre 1941 la famiglia Cervi scoprì lei e il suo pensiero antifascista grazie, appunto, al Teatro in cui recitava; nel 1943 accompagnava Giorgio Amendola nel suo percorso clandestino nel nord Italia e collaborava alla stampa e alla diffusione de «l'Unità». Le lettere che Lucia si scambiò con un gruppo di giovani di Lentate sul Seveso fra la fine del 1938 e l'inizio del 1940, conservate all'Archivio centrale dello Stato perché sequestrate dalla polizia, ci aiutano a comprendere la formazione culturale e politica di una ragazza di 18-19 anni e a collocare in quei mesi le radici del suo antifascismo e della sua attività clandestina.