Un giorno, alla corte di Enrico II e Caterina de' Medici, fa la sua apparizione una giovane donna di stupefacente bellezza. La sua grazia abbaglia tutti i cortigiani, ma la misteriosa adolescente sembra del tutto impermeabile alle lusinghe della galanteria e della mondanità; la madre, infatti, le ha ispirato sentimenti virtuosi e l'ha messa in guardia contro le insidie amorose. Il principe di Clèves, tuttavia, riesce a conquistare la sua stima e a sposarla. L'amore-passione è ancora, per l'eroina di questo romanzo - che è a giusto titolo considerato il primo, sorprendente esempio di romanzo psicologico moderno - un territorio sconosciuto. Il destino le farà incontrare, intempestivamente, un uomo giovane e bello, fra i più desiderati della corte: il duca di Nemours. I due si innamorano a prima vista durante un ballo memorabile che è fra le pagine più note della letteratura francese, ma il duca preferisce non manifestare subito i segni della propria passione; e la principessa, dal canto suo, si oppone con tutte le forze a un sentimento che la turba per la sua natura indecifrabile e la violenza che lo caratterizza. La ferma volontà di restare fedele a un marito premuroso e buono, che nutre per lei un amore profondo, le impedisce peraltro di contemplare la possibilità di una relazione adulterina. Inizia così un romanzo di formazione singolare, che sovverte radicalmente il copione galante e anticipa temi e atmosfere della grande stagione del romanzo settecentesco. Introduzione di Isabella Mattazzi.
Una scatola di biscotti con dentro centoquarantatre franchi, l'abito buono indossato per festeggiare il diploma di terza media, un paio di oggetti di scarso valore gettati alla rinfusa in una borsa: ecco tutto il patrimonio che Maurice, detto Momo, e Marie Moscowitz, rispettivamente quattordici e undici anni, riescono a portarsi via il giorno d'agosto del 1941 in cui scappano come ladri dalla loro casa di rue des Erables a Parigi, accompagnati dal direttore di papà Moscowitz, Monsieur Surreau, il presidente degli stabilimenti Surreau, piombato in piena notte nell'appartamento per condurli in salvo. Nel 1941, in Francia, basta avere in tasca una carta d'identità barrata con la parola Ebreo, sputata come un insulto, per essere deportati. Dopo un controllo ai documenti, papà Moscowitz è stato arrestato mentre passeggiava per le strade della capitale. Della madre dei ragazzi, invece, non si sa nulla. Dopo aver preso le carte d'identità dei ragazzi per bruciarle e aver raccomandato loro di scegliersi "un cognome che suoni francese", Monsieur Surreau li deposita nella minuscola soffitta di un palazzo nei pressi di Les Halles. In quel luogo angusto, tuttavia, Momo e Marie non sono destinati a una triste esistenza clandestina. Un mondo nuovo e affascinante si schiude davanti ai loro occhi. La stanza accanto alla loro è, infatti, il regno di Bulle e delle sue amiche. Un regno fatto di notti di bisbigli e sussurri maschili e voci di donne con l'accento delle periferie, alla maniera delle cantanti di Montparnasse...
Eroe di guerra, diplomatico, cineasta, Romain Gary si suicidò il 3 dicembre 1980. La sua scomparsa fece scalpore ma il vero colpo di scena arrivò quando, pochi mesi dopo la morte, si scoprì che Gary ed Emile Ajar, autore del romanzo "La vita davanti a sé", erano in realtà la stessa persona. Il libro, che narra le vicende di Momo, ragazzo arabo nella banlieu di Belleville, figlio di nessuno, accudito da una vecchia prostituta ebrea, vinse il Goncourt inaugurando uno stile gergale da banlieu e da emigrazione, cantore di quella Francia multietnica che cominciava a cambiare il volto di Parigi.
Un'oscura credenza vuole che due fratelli gemelli non possano vivere insieme senza danneggiarsi a vicenda, e che spesso solo la morte di uno dei due possa garantire all'altro di crescere bene. Così, quando nella famiglia Barbeau nascono i gemelli Landry e Sylvinet, la levatrice non esita a mettere in guardia i genitori: occorrerà impedire che i due fratelli passino troppo tempo insieme, per far sì che non si affezionino troppo l'uno all'altro. Ma il consiglio viene accantonato e i gemelli diventano inseparabili e pressoché identici. Anni dopo il padre decide che Landry, il più forte e maturo dei due, dovrà andare servizio presso la tenuta dei Caillaud. Landry si rassegna all'idea di dover partire da casa. Sylvinet, il più fragile, non riesce tuttavia ad accettare che le loro vite debbano prendere strade diverse. Il suo affetto per Landry è così morboso che, quando il fratello si invaghisce della piccola Fadette, una ragazzina del borgo della Cosse, Sylvinet è divorato dalla gelosia. La Fadette è una piccola vagabonda che gli abitanti del borgo giudicano con un po' di disprezzo e un po' di timore, soprattutto per via di quelle voci che corrono sul conto della nonna, una guaritrice le cui pratiche sono viste come un incrocio di sapere e stregoneria. La ragazza, invece, ha un carattere mite e generoso: non avendo nulla, si accontenta di poco per essere felice e rispetta tutte le creature, soprattutto quelle che considera brutte come lei. Introduzione di Daria Galateria.
A tutti è dato a un certo punto di dover fare i conti con le proprie ambizioni, i propri sogni e le proprie realizzazioni. A coloro, tuttavia, per i quali sogni, ambizioni e realizzazioni hanno il compito di tenere a bada o celare una natura fragile, una sensibilità eccessiva o un'origine sconveniente, questi momenti critici si danno spesso sotto forma di naufragi definitivi, catastrofi ineludibili, vergogne inappellabili. In queste storie, contenute in "Les oiseaux vont mourìr au Pérou", un'opera più ampia scritta nel 1960, subito dopo aver lasciato la diplomazia, Romain Gary tratta con ironia e tono scanzonato di queste catastrofi e di queste inappellabili, sublimi vergogne. C'è, ad esempio, il conte di N., ambasciatore di stanza a Istanbul, la città in cui le civiltà vengono a morire in bellezza. Alto, sottile, con un'eleganza che ben si accompagna a mani lunghe e delicate, il conte vagheggia di essere nominato a Roma. In realtà, un segreto struggimento lo rode, una fragilità che le buone maniere non sempre bastano a proteggere, e che lui attribuisce a un temperamento artistico inappagato. Il tono scanzonato con cui Gary tratta di questi destini non deve ingannare. Come lui stesso ebbe modo di dichiarare, al centro di questi racconti è "le phénomène humain", qualcosa che non cessava di sconcertarlo al punto da "farlo esitare tra la speranza di una qualche rivoluzione biologica o di una rivoluzione in quanto tale".
Questo libro presenta la ricostruzione - resa possibile dai manoscritti benjaminiani ritrovati da Giorgio Agamben nel 1981 nella Biblioteca nazionale di Parigi - del libro su Baudelaire cui Benjamin aveva lavorato negli ultimi due anni della sua vita, quando, interrompendo la stesura dei "Passages di Parigi", decide di trasformare in un'opera autonoma quello che all'inizio si presentava come un capitolo del libro. Attraverso un paziente lavoro di edizione e di montaggio, che alterna testi inediti ad altri già noti (che trovano solo ora la loro collocazione e il loro senso nell'opera complessiva), il libro permette di seguire la genesi e lo sviluppo, nelle varie fasi della sua stesura, del work in progress che costituisce la summa della tarda produzione benjaminiana. Mentre del libro su Parigi noi abbiamo poco più che lo schedario, "Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell'età del capitalismo avanzato" offre un'immagine articolata e coerente, anche se frammentaria, del laboratorio benjaminiano e del suo metodo compositivo. Sfatando la leggenda di un autore esoterico, il libro ci presenta, nel suo stesso farsi, il modello di una scrittura materialista, in cui non soltanto la teoria illumina i processi materiali della creazione, ma anche questi ultimi gettano una nuova luce sulla teoria.
È la metà del Novecento, in un piccolo borgo della campagna francese: la servitù al castello di Percy trascorre la notte a vegliare il defunto padrone e, come puntualmente accade in quest'angolo sperduto della Francia, a banchettare e a sparlare liberamente. Tra sussurri e imprecazioni, allusioni e pettegolezzi, spicca la voce di Thérèse, ottantanove anni, un marito e tre figli ormai persi, tre nuore che detesta e dei nipoti che la lasciano indifferente. La sua vita è stata una lunga catena di eventi da raccontare e di personaggi da rievocare, perfetti per una fredda e lunga notte di veglia... Tutto comincia nel lontano 1882 quando Thérèse fugge col maniscalco Firmin dal castello di Percy. Vi era arrivata ragazza, poiché la madre desiderava per lei un'educazione pari a quella di una zia che sapeva ricamare, stirare e rammendare la biancheria fine. E certamente sarebbe diventata come la zia dalle mani di fata se non si fosse invaghita di Firmin. Ai suoi occhi un bell'uomo, robusto e gentile come una ragazza, e a quelli della sua famiglia un povero orfano senza arte né parte e maniscalco per modo di dire, visto che si limitava a tenere ferme le zampe dei cavalli mentre il padrone li ferrava. La fuga si risolve nel solo modo possibile alla fine del XIX secolo: un matrimonio celebrato in silenzio e l'approdo in un nuovo paese: Chàtillon, dove Firmin trova lavoro presso il locale maniscalco e Thérèse in una grande locanda.
È il maggio del 1816 e a Londra i ministri degli Esteri britannico e francese stanno per firmare un accordo che segnerà inesorabilmente le sorti di una parte del mondo cruciale dal punto di vista politico ed economico: il Medio Oriente. L'Impero Ottomano infatti ha i giorni contati e la sua caduta sta per lasciare un vuoto di potere dall'Egitto all'Iraq al Libano alla Palestina. Inglesi e francesi si spartiscono le future zone di influenza in un patto segreto tra le loro diplomazie, noto alla storia come "trattato Sykes-Picot". Ma, chiede Jean-Francois Levent, un giovane diplomatico francese presente alla firma degli accordi, e gli arabi? "Gli arabi non esistono, sono solo un miserabile aggregato di tribù, piccole fazioni gelose le une delle altre e incapaci di coesione", è la sprezzante risposta del ministro inglese. Parole che provocherebbero incredulità e indignazione se le udisse Hussein Shahid, produttore di agrumi in Palestina, o Farid Lufti, coltivatore di cotone al Cairo, o Nidal El-Safì, colto patriarca di un'influente famiglia di Baghdad. Queste tre famiglie arabe, così come i Tarbush di Haifa, o come la famiglia ebrea dei Marcus, fuggita dai pogrom della Polonia per stabilirsi in Palestina, conducono la loro esistenza in una maniera ben diversa da quella immaginata dai ministri occidentali. Seguono rispettosamente tradizioni millenarie, ma allo stesso tempo sono culturalmente aperte, capaci di convivere in sintonia e amicizia con arabi di diverse origini e con gli ebrei.
Nel 1441 ad Anversa, Bruges e Firenze, tre giovani artisti sono misteriosamente assassinati. I cadaveri presentano mutilazioni simili, oltre a tracce di uno stesso veleno. Le vittime, inoltre, sono state tutti apprendisti del pittore Jan Van Eyck. La soluzione del mistero passa attraverso le vicende di un ragazzo di tredici anni, Jan, figlio adottivo di Van Eyck, cui il padre, prima di morire, ha raccomandato questa enigmatica massima: "Bisogna saper tacere, soprattutto quando si sa". Tra le brume delle Fiandre e il cielo luminoso della Toscana, in compagnia di personaggi come Donatello, Antonello da Messina, Brunelleschi, Fra Angelico, si snoda un thriller carico di suspense e di avventura.
Nel porto di Napoli, all'altezza di via Nuova Marina, si ergono due torri antiche talmente rabberciate a colpi di mattoni che sembrano due verruche gemelle. Su un terrapieno in mezzo a quelle torri, erbacce, rovi e malvarosa ostruiscono una porta di legno tarlato. Da quella porta, più di venti anni fa, è uscito Filippo Scalfaro De Nittis. Era un bambino allora, ora è un uomo che ogni mattina entra dal retro del ristorante La Bersagliera. Seduto davanti alla macchina del caffè, aspetta che il padrone del ristorante gli faccia un cenno. Filippo Scalfaro De Nittis, infatti, non cucina, non porta i piatti, fa soltanto il caffè. E a Napoli nessuno può vantarsi di farlo meglio di lui: un caffè per ogni voglia, per ogni umore, violento come uno schiaffo per svegliarsi al mattino, rotondo e morbido contro il mal di testa, robusto e forte per non dormire. Oggi è un giorno speciale per lui, il giorno in cui farà il suo ultimo caffè, destinato a un cliente seduto nella grande sala della Bersagliera. Sta mangiando calamari fritti. Gli trema un po' la mano e la forchetta gli gioca ogni tanto degli scherzi. Si potrebbe prenderlo per un impiegato delle poste in pensione, calvo com'è e con le dita gonfie. Ma Filippo Scalfaro De Nittis sa di che cosa è capace, sa quale abisso di crudeltà tradisce la sua aria infastidita e il suo modo di rivolgersi ai camerieri come se si trattasse di cani. Si chiama Toto Cullaccio. E per lui che Filippo Scalfaro De Nittis è tornato dagli inferi...
È una sera della prima metà del XX secolo e Madame de ***, attraente vedova costretta da "una crudele segretezza" a intrattenere una relazione clandestina col giovane Principe di***, si reca all'Opera di Parigi per assistere a un concerto. Alla fine del concerto, il suo cuore è spezzato nel più miserabile dei modi. Il suo giovane amante le rivolge, infatti, un saluto frettoloso e indifferente ed esce dall'Opera al braccio della bella e civettuola Madame de B***, l'accompagna alla carrozza e, con aria di mistero, monta in vettura insieme a lei. Madame de *** assiste alla scena in piedi, immobile. Una volta a casa, i pensieri più disordinati si impadroniscono della sua mente. E, dopo una notte insonne, non trova altro modo di lenire la sua sofferenza che scrivere al giovane Principe quarantasei lettere per ventiquattr'ore febbricitanti, di dubbio e disperazione, quarantasei struggenti documenti a testimoniare il vortice di passioni e stati d'animo che hanno assalito il suo cuore e a "raffigurare la gelosia, non nei suoi furori quanto nel dolore che opprime un'anima ardente e sensibile". Scritto con l'intento di "non dire una parola che non fosse dettata dal sentimento o dalla passione; facendo provare nel breve spazio di ventiquattr'ore a una donna viva e sensibile tutta l'ebbrezza dell'amore, i turbamenti e, soprattutto, la gelosia", "Ventiquattr'ore di una donna sensibile" apparve per la prima volta nel 1824 e da allora ha attratto e ammaliato intere generazioni di lettori e scrittori.
Sono tanti gli invitati alle nozze di Henri Delamare e Lise e tutti orgogliosi di esserci. Chi non farebbe carte false per essere al matrimonio di Henri Delamare: una di quelle fortune senza origine, geneticamente trasmesse da sempre. Tra i camerieri in livrea bianca e gli invitati, agghindati con lo sfarzo eccessivo della borghesia di provincia, Lise, col suo abito bianco, spicca come un'adolescente. Sam schiva gli sguardi, supera la fila delle felicitazioni, le si avvicina e, mentre Henri Delamare è impegnato a dar fondo alle sue spacconerie in noiose conversazioni, la prende per mano, la trascina nel parco immerso nel buio. Il bicchiere in mano, impegnata a non rovesciare il vino sul vestito da sposa, Lise sussurra: "Io sono sposata, Sam, non si deve", e poi: "Sono tua sorella, Sam, lasciami", e intanto ride sempre più forte, e gli prende la testa tra le mani e gli si avvicina, la bocca protesa. Tutto è nato come per caso, per scherzo, per noia. Lise e Sam erano accovacciati sul davanzale d'una finestra, lo sguardo fisso negli occhi l'uno dell'altra, in silenzio, quando Lise a un certo punto ha detto: "Ora o mai più, Sam, è la nostra occasione". La nostra occasione... l'occasione per lasciarsi alle spalle una vita in cui non c'è alcuna possibilità di lasciare traccia di sé. L'occasione per spacciarsi per fratello e sorella e sposare Henri, l'ineffabile Henri, pieno di quattrini e stupidità. L'occasione per organizzare poi il rapimento e mettere le mani su un mucchio di quattrini...