In un saggio di eccezionale radicalità, Jonathan Crary mette in relazione alcuni dei fondamentali problemi della società odierna, quali le disuguaglianze e il dissesto ambientale, con la forma impressa dal capitalismo digitale al modello di sviluppo planetario. Si tratta di una realtà a tutti evidente, ma che non può essere pronunciata: la nostra celebrata "era digitale" non è altro che la disastrosa fase terminale del capitalismo globale, in cui a regnare sono la finanziarizzazione dell'esistenza sociale, l'impoverimento di massa, l'ecocidio e il terrore militare. Con questo scritto critico, che prosegue il lavoro iniziato con "24/7. Il capitalismo all'assalto del sonno", l'autore smonta il pregiudizio secondo cui i social media possono essere uno strumento di cambiamento radicale e ci svela invece come le reti e le piattaforme delle multinazionali siano intrinsecamente incompatibili con una Terra abitabile e con le relazioni umane necessarie a costruire forme di esistenza egualitarie. In altre parole, "Terra bruciata" mostra i differenti modi in cui Internet sta devastando la vita sul nostro pianeta e ci incoraggia a immaginare un mondo nel quale la dimensione sociale torni a ricoprire il ruolo essenziale che le spetta, cessando di essere una mera appendice dell'attività online.
Esistono davvero le "persone"? E cosa dire del "linguaggio", del "discorso" o della "cultura"? Fino a che punto le reti sociali hanno determinato la specie umana in quelli che consideriamo come i suoi tratti costitutivi? Cosa unisce matematica e sociologia? Domande tanto ambiziose e originali trovano risposte altrettanto innovative in questo volume, in cui si propone la traduzione italiana di due saggi di uno degli ultimi maestri della sociologia americana. Muovendosi con eleganza tra ambiti concettuali e metodologici differenti, Harrison C. White analizza i fondamenti logici ed epistemologici di un approccio attualmente tanto utilizzato quanto raramente compreso in profondità: la social network analysis. I numerosi neologismi appositamente coniati - "forchette bayesiane", "commutazioni", "netdom", "nodi del futuro", "soluzioni d'angolo" - vengono inquadrati e presentati dai curatori attraverso una guida introduttiva alla lettura.
Benedetto e Francesco non sono semplicemente due santi o due papi. Essi rappresentano archetipicamente i due volti del Cristo: quello aramaico, severo, apocalittico, predestinato, chiuso al mondo, in perenne attesa della Fine; e quello greco, lieto, inquieto, avvinto dal fascino della Storia, in continua ricerca della strada da percorrere, della missione da compiere nel tentativo di diffondere il Verbo. Lungi dall'essere una contraddizione insanabile, questa componente bipolare ha permesso al cristianesimo di sopravvivere a sé stesso nei millenni, reagendo di volta in volta alle trasformazioni storiche: con uno spirito di attesa millenaristica, basato sul potente medium della scrittura, di fronte alla chiusura degli spazi del mondo (durante il lungo periodo medievale, per esempio, o nel corso di quello successivo alla Rivoluzione francese); o con uno spirito universalistico, incentrato sulla spettacolarità e sull'immagine, in concomitanza con le aperture d'orizzonte geografico (si pensi alla spinta controriformista e gesuitica del '500, o alla grande Riforma che, partita dal Vaticano II, arriva sino a oggi, alla "Chiesa in uscita" di papa Bergoglio). Come si tenta di dimostrare nella ricostruzione storica qui presentata, la doppia identità e l'assetto multimediale - se è vero, come sosteneva Marshall McLuhan, che i media non sono semplicemente canali, ma ambienti che costruiscono il messaggio - hanno reso indistruttibile questa religione, nata da un semplice annuncio apocalittico del Regno in una sperduta regione del Medio Oriente. Ma lo è ancora oggi di fronte al mondo globalizzato, frammentato, liquefatto, sepolto dai linguaggi individualizzanti del consumo? Come fa una Istituzione centralizzata come quella cattolica a reggere di fronte alle sollecitazioni della network society e della platform society? Questo libro, immerso in una dimensione disciplinare che potrebbe definirsi di "mediologia delle religioni", tenta una risposta a tali domande.
Che cosa fanno i cittadini quando fondano o partecipano a un'associazione? E, ancora prima, che cosa possono fare? Queste le domande di partenza del volume di Sebastiano Citroni sulla quotidianità dell'associazionismo. A partire da un'indagine etnografica, che restituisce concretezza al vissuto dei protagonisti e alla specificità delle pratiche, vengono analizzati la diffusione di nuove forme d'impegno civico a livello individuale, il crescente peso dell'organizzazione di eventi nel repertorio d'azione degli enti di terzo settore e la contrattualizzazione dei loro rapporti con enti pubblici e privati finanziatori. Per ciascuna di queste trasformazioni, i risultati di ricerca mostrano come gli stili associativi filtrino e "metaforizzino" nella vita quotidiana di gruppo i fattori generali di contesto nell'ambito dei quali l'azione civica prende forma. La ricerca etnografica condotta da Citroni invita così ad abbandonare ogni facile retorica sulla neo-liberalizzazione del terzo settore e mostra quanto la sua azione come società civile si dispieghi anche sul piano ordinario degli stili dell'associarsi quotidiano e del loro potere istituente.
La recente accelerazione della crisi climatica e ambientale non trova soluzioni adeguate. L'ipotesi da cui prende le mosse il saggio di Marco Pacini è che per imboccarne una via d'uscita risulti indispensabile la pratica di un pessimismo attivo e creativo, anziché la predicazione di un ottimismo ottuso. In altre parole, sarebbe necessario maturare culturalmente e psicologicamente un "pensiero della fine" così da poterla evitare, un pensiero che si sottragga ai cortocircuiti responsabili dell'inazione o, peggio, di azioni prigioniere di una sorta di doppio legame tra doveri green e standard di vita irrinunciabili perché presunti sostenibili. La maturazione di un pensiero in grado di sostenere la sfida dovrà partire dalle parole che nutrono il discorso pubblico, così da sottoporle a uno "stress test" in quello che Bruno Latour ha definito "nuovo regime climatico".
Nel XXI secolo l'umanità si è trovata a dover fronteggiare delle sfide epocali, tra le quali spiccano i gravi danni arrecati alla Natura e quella radicale transizione verso una "mutazione antropologica" chiamata rivoluzione digitale. Tali sfide hanno imposto un drastico cambiamento nel modo di percepire la cultura quale vera fonte di progresso. Questa deve infatti essere intesa come una "cultura della complessità", fondata su una sintesi tra approccio umanistico e approccio scientifico e posta al servizio di un umanesimo planetario che, nell'ottica della solidarietà e della sostenibilità, consenta di capire che "noi" precede "io".
Quello a cui stiamo assistendo oggi è un processo di digitalizzazione estrema e assoluta, un processo che mira a innovare l'infrastruttura tecnologica della nostra società, ma a causa del quale stiamo perdendo ogni possibilità di identificazione. La "miseria del simbolico" di cui parla Bernard Stiegler non è soltanto quel triste vuoto che viveva il proletario alienato dal lavoro, ma anche il vuoto d'esperienza del consumatore odierno, privato della possibilità di determinare i propri desideri e totalmente condizionato dalle logiche di consumo. L'estetica è l'arma privilegiata della tecnologia industriale, e il cinema il suo campo di battaglia preferito: entrambi concorrono ad avvelenare l'esperienza individuale e collettiva. Tuttavia, è proprio nel cuore di questi due campi che l'autore rintraccia l'antidoto per sfuggire alla miseria antropologica che stiamo vivendo e per ritrovare quel sentimento comune che è condizione preliminare e necessaria alla vita pubblica.
Nel dibattito pubblico è sempre più ricorrente l'appello ad "abbattere le frontiere" e brulicano i commentatori che, in epoca di globalizzazione e migrazioni di massa, ritengono i confini irrilevanti, discriminatori o reazionari. Non si tratta solo dei cosiddetti 'no borders', e non sono solo le frontiere tra gli Stati a essere sotto attacco, ma il concetto stesso di confine. Nelle società occidentali, infatti, anche le tradizionali linee di demarcazione tra pubblico e privato, uomini e donne, adulti e bambini, esseri umani e animali, cittadini e non cittadini sono spesso condannate come arbitrarie, innaturali e ingiuste. E ciò mentre imperversa la politica dell'identità, che paradossalmente non fa che tracciare nuovi confini simbolici. Frank Furedi mette in guardia da una società culturalmente alla deriva, che fatica a produrre senso e significato e che, a livello individuale e collettivo, tende a svalutare la facoltà di esprimere giudizi. Anche per questo è fondamentale che l'umanità riscopra l'arte di tracciare confini.
A chi appartiene la mia vita? Il suicidio - scrive Walter Benjamin nei suoi Passages - è "la quintessenza della modernità". In effetti, dopo che per secoli il tentativo di togliersi la vita è stato considerato un peccato o l'espressione di una malattia psichica, e in alcuni paesi è stato addirittura sanzionato penalmente, nel XX secolo si è assistito a un profondo rivolgimento, che ha contribuito a far emergere una nuova cultura del morire. Chi si toglie la vita non vuole più solo cancellarla ma anche, in qualche modo, appropriarsene e darle un nuovo significato in virtù di un gesto che l'espressione utilizzata per il titolo tedesco del libro, Das Leben nehmen ("togliersi la vita", ma anche "prendersi la vita"), con la sua ambiguità, trasmette immediatamente. A chi appartiene la mia vita? è il vivo e profondo racconto della complessa storia del suicidio nella modernità. Ne esamina le radici culturali attraverso diari, film e opere d'arte, per giungere a un'inquietante diagnosi: viviamo in un'epoca sempre più affascinata dal suicidio.