Il dottor Denis Mukwege è un gigante sorridente con lo sguardo pacifico e la voce rassicurante. Così viene descritto da chi lo ha incontrato e intervistato e dalle migliaia di donne vittime di violenza sessuale che ha curato nel suo ospedale, il Panzi Hospital nel Kivu Sud, la provincia più insanguinata della Repubblica Democratica del Congo. Da oltre vent'anni il ginecologo cuce e ripara, ascolta le storie delle sue pazienti, quando può prega, si indigna ma non si rassegna. A mani nude si batte contro le atrocità di una guerra in cui lo stupro è utilizzato come un'arma da tutti gli schieramenti e il corpo della donna si è trasformato in un nuovo campo di battaglia. Colette Braeckman, grande specialista del Congo, raccoglie la testimonianza fuori dal comune del dottor Mukwege, che in questi anni ha vissuto gli orrori della guerra in prima linea, sfiorando la morte più di una volta. Attraverso il racconto dell'uomo che ripara le donne, e che incessantemente è costretto a ricominciare tutto da capo, le sequenze del disastro acquistano nuova luce e soprattutto nuove ombre. Un piccolo "corso di storia" tra i moventi sotterranei dei signori della guerra senza fede né legge, le ambiguità del mondo della cooperazione, le colpevoli mancanze della comunità internazionale e la sorte riservata ai più deboli, popolazione inerme vittima dei saccheggi, bambini assoldati da mercenari senza scrupoli, e le donne, che pagano il prezzo più alto sulla propria pelle. Il risultato è un'opera che non può lasciare indifferenti, il resoconto spietato di una delle grandi tragedie ignorate dei nostri tempi, e il ritratto di un eroe moderno che ha consacrato la sua vita a un ideale, prendersi cura dei più bisognosi, diventare medico, essere un muganga.
Lydia Cacho è una donna coraggiosa. Questo dicono di lei. Persino i poliziotti che l'hanno arrestata illegalmente e trasferita nella notte nel carcere di Puebla, lontano migliaia di chilometri da casa sua, le ricordano che è famosa per il suo coraggio mentre la torturano e la molestano. Giornalista, femminista, attivista, ha vissuto sulla propria pelle gli orrori di un potere corrotto e non si è arresa di fronte a un sistema che la voleva addomesticata, silenziosa, obbediente e probabilmente morta. Lei assicura che il suo è solo un caso emblematico di un sistema più vasto in un paese, il Messico, dove il 98% delle denunce si perde perché il "potere pesa più dell'evidenza". In oltre venti anni di attività è stata vittima di minacce, è stata denunciata per diffamazione, arrestata e detenuta illegalmente, torturata, ha subito molestie sessuali da parte dei suoi persecutori e attentati alla sua vita. Nonostante ciò ha imparato a convivere con la paura che la stimola continuamente a proseguire la sua lotta per la difesa dei diritti dei più deboli, come attivista e come giornalista. In "Memorie di un'infamia" Lydia Cacho racconta tutta la sua storia. Dalle origini della sua militanza accanto alle donne vittime di violenza fino al suo arresto in seguito alla pubblicazione di "Los Demonios del Edén" dove accusa apertamente uno dei più facoltosi imprenditori messicani Jean Succar Kuri, noto proprietario di alberghi, di essere coinvolto in un giro di pornografia infantile.
L'Italia è da sempre un grande paese agricolo. La sua è la storia dei valori e della civiltà di gente contadina, le cui imprese sono state cantate dai più grandi poeti e scrittori, e rimpiante da Pasolini. Questo libro è un racconto sentimentale, la vicenda tragicomica di un agricoltore per forza e per amore, e la fallimentare impresa di chi prova a resistere tra l'indifferenza della società metropolitana e l'impotenza della categoria. Il declino è inesorabile, nonostante la retorica mediatica del vivere verde e il mito della genuinità del cibo naturale. Nel "Mestiere più antico del mondo" si parla di agricoltura, di campagna, della ridicola pretesa della gente di città di dominare e cambiare quel mondo, della paura dei coltivatori di perdere tutto. E poi, della rovina rappresentata dal mercato globale, della limitatezza e ottusità delle teorie economiche, dell'interrogativo continuo e costante che sembra passare sottotraccia: l'agricoltura ha ancora diritto di vivere?
Svenimenti è un’indagine sulla perdita dei sensi, sull’universo delle mancanze. Svenire alla vista di un ago, svenire per una posizione eretta tenuta troppo a lungo, svenire a causa di un film impressionante. Ma anche essere costretti a venir meno. E cosa succede quando ci si ritira, naturalmente o non, in uno stato d’incoscienza?
Qual è la condizione dell’uomo nel sonno? E quella sperimentata durante un’anestesia, o dopo essersi iniettato cocaina in vena?
Ci sono risposte scientifiche a questi quesiti e ci sono letture degli stessi quesiti e delle relative risposte che nascono dalla riflessione e dalla vena narrativa di uno scrittore. Come succede nei tredici racconti di Albinati, a tratti saggistici, a tratti poetici, sempre affabulatori. Dalle sedute di rebirthing (oggetto di più racconti), in cui lo stato d’incoscienza del paziente si trasforma in generatore d’immagini così vive da far dubitare dell’incoscienza stessa, agli appunti freudiani sui casi di svenimento in quattro donne afflitte da isteria; dall’anestesia come bardo (stato intermedio, secondo un trattato buddista, prima che l’anima trovi la sua strada), alle situazioni in cui si parla di simulazione dello svenimento e fino alle lacrime faticose e liberatorie, indotte dagli accordi ipnotizzanti di una canzone: tutto è per l’autore materia narrativa.
Una fragilità originaria è presente nel corpo, nella carne di una persona, che proprio in quella mancanza, in quella perdita scopre una fonte di rivelazione e di sconosciuta energia. Albinati scandaglia coscienza e incoscienza, le interroga, ne evidenzia confini, misteri e contraddizioni, illumina il più possibile le zone oscure che esistono nel silenzio della fissità e del venir meno.
Il ritmo della scrittura è modulato su una bassa frequenza che, eccetto brevi passaggi, accompagna il lettore in una lettura fluida, armonica, consonante pur nella alternanza dei registri; la lingua puntuale e virtuosa connota i diversi brani e li accomuna in un percorso narrativo originale, che partendo dai particolari, dalle esperienze personali, dai racconti degli amici o da libri e film, attraversa la vita, il sogno, il cinema e la letteratura.
Mi interessano le condizioni di parziale visibilità e ascolto. Lo svenimento a prima vista è una perdita, una riduzione delle proprie facoltà, una mutilazione psichica… eppure, il desiderio parte sempre da una mancanza, o sviamento. Da una dispersione che impedisce l’approccio
pieno, padronale, il comando delle operazioni. Edoardo Albinati
“Sullo svenimento aleggia sempre il sospetto della simulazione. Non è semplice verificare se una persona ha realmente perso i sensi o stia fingendo: in che misura i suoi sintomi siano obiettivi: del resto, le ragioni che causano un collasso sono le stesse che istigano a fingerlo. Premesse e risultato sono validi nell'uno e nell'altro caso. La persona priva di sensi attira l'attenzione su di sè, o si cancella dalla scena, si cava d'impaccio, sottraendosi alle richieste e alle situazioni sgradevoli, ispira affetto, pietà, intenerimento, attrazione fisica, esige e ottiene aiuto".
EDOARDO ALBINATI è nato a Roma nel 1956. Ha pubblicato una raccolta di racconti, Arabeschi della vita morale (Longanesi 1988), e diversi libri di narrativa e di poesia, Il polacco lavatore di vetri (Longanesi 1989, nuova edizione Oscar Mondadori 1998), da cui è stato tratto il film omonimo di Peter Del Monte, Orti di guerra (Fazi 1997), Elegie e proverbi (Mondadori 1989), La comunione dei beni (Giunti 1995), Maggio Selvaggio (Mondadori 1999), 19 (Mondadori 2000), Sintassi italiana (Guanda 2001), Il ritorno. Diario di una missione in Afghanistan (Mondadori 2002). Con Svenimenti (Einaudi 2004), ha vinto il Premio Viareggio. Con Fandango Libri ha pubblicato Tuttalpiù muoio (2006) insieme a Filippo Timi, Orti di guerra (2007) e Guerra alla Tristezza! (2009).
Dal quartiere Tamburi a ridosso del più grande impianto siderurgico d'Europa ci sono solo quindici passi, e quindici passi ugualmente dividono l'impianto dell'ILVA dal cimitero di San Brunone, il grande camposanto dove molti degli operai del complesso sono stati sepolti. Giuliano Foschini ha scritto un reportage sul più grande e silenzioso disastro ambientale italiano, un lavoro meticoloso tra carte giudiziarie e ambientali, numeri ed emissioni, dove hanno un ruolo importante le mancanze della politica e le omissioni delle classi dirigenti che per quasi cinquant'anni hanno diretto il siderurgico. Filo conduttore dell'inchiesta sono le storie della gente: i bambini che disegnano solo cieli neri, le donne che si ritrovano le loro scope rosse di quarzite, i pastori costretti a sopprimere le greggi per l'allarme diossina sino alla storia dei "mai nati". Un racconto serrato e spietato che spiega perché il disastro di Taranto è un pericolo per il nostro Belpaese. Perché la battaglia sulla sicurezza del lavoro e dell'ambiente si giochi soprattutto in questo impianto - il cui proprietario è oggi azionista della cordata CAI-Alitalia - e perché le nuove norme che regolamentano le emissioni inquinanti siano il campo decisivo su cui si scontrano i poteri locali con quelli nazionali.
Dal 1999 al 2008 Emanuele Trevi ha registrato un gran numero di conversazioni con Raffaele La Capria, "decano" degli scrittori italiani puntualmente riscoperto da nuove generazioni di critici e lettori. Ne è nata una sorta di diario e insieme di autobiografia che dalla Napoli degli anni Trenta giunge fino a noi oggi. Una Napoli che è stata fonte di ispirazione inesauribile, definita dall'autore stesso "metafora di un conflitto tra personaggio e uomo, tra un'idea di sé astrattamente compiuta e la fatale insufficienza di questo progetto di personalità". Stimolato da una particolare atmosfera di confidenza e amicizia con l'intervistatore, La Capria traccia un autoritratto pieno di luci e ombre, ripercorrendo i momenti cruciali della letteratura italiana del Novecento.