In questo libro, frutto di una consuetudine e di un amore per l'"Iliade" che vanno avanti da una vita intera, Robin Lane Fox, uno dei maggiori classicisti del nostro tempo, ci accompagna verso dopo verso in un percorso costellato di dèi iracondi o magnanimi e di esseri umani coraggiosi e fragili. E nel raccontare un mondo distante millenni eppure così vicino prova a dare una risposta anche a molte questioni rimaste irrisolte: come, quando e dove fu composto questo maestoso poema? E soprattutto da chi? È veramente esistito un uomo chiamato Omero che è stato in grado di scrivere parole tanto alte da diventare immortali? L'"Iliade" è il più grande poema epico della letteratura globale. Nonostante abbia più di 2600 anni rimane un'opera irraggiungibile, che ancora ci meraviglia, ci fa ridere e piangere. Dopo averla letta è impossibile tornare alla vita quotidiana e non guardare il mondo con occhi diversi. Robin Lane Fox, analizzandone i versi con la passione del lettore rapito e innamorato e la precisione dello studioso, ci mostra perché un testo tanto al di fuori della portata umana può sembrarci così immediato, così coinvolgente. Ci mostra come dalle pagine di Omero sgorghi la fonte prima di una delle idee più persistenti della letteratura occidentale: quella secondo cui la vita stessa ha una trama determinata da una serie di regole narrative relativamente fisse e chiare. Regole che apprendiamo nell'immaginario e ritroviamo nell'esperienza, lasciandoci educare alla condizione umana. Gli eroi dell'"Iliade" per quanto maestosi, intrepidi e distanti possano apparire sono come noi mortali, spaventati, ignari del destino che li attende. E noi come loro ci possiamo dibattere, possiamo protestare e lottare, ma alla fine siamo costretti ad arrenderci alla realtà.
Con questo libro Peter Brown affronta senza ambiguità uno dei grandi paradossi della storia dell'Occidente. Utilizzando fonti alte e archivi "bassi" elaborazioni dottrinali di matrice teologica, disposizioni del diritto canonico e materiali spuri tratti dalla vita quotidiana di comunità e personaggi minori - lo storico scrive una vera e propria storia economica del cristianesimo e della Chiesa delle origini. Al centro del libro la condizione paradossale per cui se anche la rinuncia, il dono e la povertà si trovano al cuore dei Vangeli, la chiesa, che su quei testi si è edificata, è diventata, nel corso dei secoli, una delle più formidabili potenze economico-finanziarie della storia. Lungi dal gridare allo scandalo, Brown cerca di spiegare come mai un'istituzione nata sul presupposto secondo cui la vera vita si colloca nel mondo altro della promessa, e che questo mondo, con i suoi beni, lusinghe e tentazioni, è da rigettare, proprio a questo mondo si è adattata con tutte le sue forze, insediandovisi e organizzandosi anche e soprattutto come potenza economica e politica. Due i fenomeni studiati dall'autore. Da un lato il flusso di ricchezza, poteri, ruoli e funzioni di comando e controllo dalla grande aristocrazia terriera alle alte gerarchie ecclesiastiche. Dall'altro, e specialmente, le condotte e scelte di vita di una "moltitudine sinora inosservata". La ricchezza della Chiesa si spiega soprattutto guardando verso il basso, verso un mondo di cui si sapeva poco solo fino a pochi anni fa...
«Io vorrei isolare il momento in cui ho visto la crepa e ho preso atto della fine, ma non lo trovo, perché non c'è. L'amore è discreto nel morire, non si lamenta e non fa scenate, non c'informa quando si ammala. Siamo noi a risponderne, e tutto quello che gli capita è colpa nostra». Fosco e Alice si sono amati tanto. E tra poco, senza sapere bene perché, si diranno addio. Per questo, nel vortice di parole più o meno giuste o più o meno sbagliate, abbracci notturni, porte sbattute, avvocati nuovi di zecca e antiche recriminazioni, decidono di raccontare la loro storia a modo loro. Con ostinazione, dolore e persino ironia: tutto quello che nei documenti legali non potrà mai trovare spazio. Diego De Silva lascia riposare il suo personaggio più amato, l'«avvocato d'insuccesso» Vincenzo Malinconico, per consegnarci un grande romanzo sulla fine dell'amore. «L'amore non è una storia, ma due». Per questo Fosco e Alice hanno affidato ai loro rispettivi avvocati le parole che non sanno dirsi, lasciandosi. Alice aspira a una conclusione drammatica, come se un grande amore si misurasse dalle ferite, dal male che è possibile farsi. Vuole enfasi, conflitto, palcoscenico. Fosco è più morbido, quasi passivo, incline ad accettare qualsiasi condizione. E alla fine, come in tutte le separazioni, le loro posizioni si tradurranno in documenti mortificanti, che nulla dicono perché nulla sanno di una vita insieme. Che riassumono il dolore, e anche la gioia, in parole povere. Per riscrivere con una dignità diversa i titoli di coda della loro storia, decidono allora di ritirarsi in una casa amata, tra i fantasmi dal passato e di ciò che è stato tradito, che siano gli anni felici dell'infanzia, quel tempo bello in cui s'impara il mondo, gli amici di sempre o il loro stesso legame. Trovarsi lì, in quella casa, significa anche cercare un fuoco comune: il loro fuoco. Significa attraversare in due i rimpianti fino a esaurire la sofferenza, estrarre dalle macerie del tempo ciò che rimane vivo e trovare la forza di andare addosso alle cose, persino quando fanno paura. Senza rinunciare all'ironia che lo contraddistingue, come modo di illuminare ciò che conta, Diego De Silva riesce a raccontare con forza, attraverso le voci di Fosco e Alice, le speranze, le delusioni, le felicità sepolte, il complicato groviglio di sentimenti che accompagnano da sempre la fine di un amore.
I visitatori celesti sono quattro figure che portano un messaggio: non si scappa dall'invecchiare, dall'ammalarsi, dal morire, ma c'è una Via, opposta all'oblio, che nell'affrontarli trascende il danno e la sofferenza. Per questo sono detti «messaggeri», perché portano notizia bruciante, messaggio che risveglia, e «celesti» perché non si limitano a rivelare l'ineluttabilità delle sfide radicali della vita, ma ci aprono anche la soglia di significati altrimenti ignorati: significati celesti, che vengono da un al di là della condizione rassicurante e confortante in cui di continuo ci rintaniamo, a causa dell'angoscia in cui la finitudine e il dolore ci gettano. Nelle parole incantate di Chandra Candiani: «Queste parole sono il goffo tentativo di tradurre in linguaggio un sorriso. Quel sorriso accoglie tutto, anche i danni più crudeli, senza enfatizzare e personalizzare, e consegna l'altro, senza che nemmeno se ne accorga, alla vocazione della non-violenza».
Gustavo Zagrebelsky, in occasione della ricorrenza dei vent'anni dalla morte di Norberto Bobbio, ha scritto un libro breve e appassionato che coglie il cuore del pensiero del grande filosofo, giurista, politologo e storico italiano, di statura internazionale. Bobbio è stato «uomo del dubbio», espressione che ha usato più volte in unione al suo essere «uomo del dialogo». Il dubbio che Bobbio nomina come caratteristica di se stesso è, per così dire, l'omaggio alla verità che è stimolo della domanda: ciò che penso, ciò in cui credo, eccetera, sarà "davvero vero"? Ma Bobbio è stato anche «uomo del dialogo», e l'etica del dialogo è la convivenza tra soggetti che muovono da posizioni diverse. E le posizioni non sono ferme e granitiche, ma si modificano e trasformano. Bobbio sapeva di essere «nel labirinto» delle idee: il suo intento non fu di raggiungere la verità. Il suo intendimento, invece, fu di aiutare le intelligenze a districarsi «per quanto possibile» tra le reciproche incomprensioni.
Questo classico della storiografia offre una sintesi ricca e partecipe di trent'anni di vita italiana. Il libro si apre sul dopoguerra della cosiddetta «vittoria mutilata», considerando gli effetti psicologici, economici e sociali della guerra sulle classi italiane. Muovendo dalla crisi che immobilizzò gli ultimi governi costituzionali, Chabod giunge al tema centrale del libro: il fascismo, le ragioni del consenso alla dittatura, il suo istituzionalizzarsi a regime, l'atteggiamento della Chiesa e della Corona. Dalla guerra d'Etiopia all'intervento nella guerra civile spagnola a fianco della Germania nazista, alle leggi razziali, il libro ricostruisce il precipitare degli eventi verso il secondo conflitto mondiale. Illuminanti sono, nella loro agile essenzialità, le pagine dedicate alla Resistenza, considerata di là da ogni intento celebrativo. Attraverso le dinamiche della lotta partigiana e le sue contraddizioni Chabod giunge all'ultimo tema della trattazione: la nascita della Repubblica italiana, investigandone questioni tutt'ora aperte di ordine economico-politico, così come culturale e sociale. Il rigore dell'autore, la vivacità di una scrittura mai didascalica fanno di quest'opera, più che un utile compendio di anni cruciali, una lettura cui fare costantemente riferimento.
Matteo Bussola racconta un nodo del nostro tempo: la fragilità adolescenziale. Scrive una storia toccante, piena di grazia, sul tradimento che implica diventare sé stessi. E ci mostra, con onestà e delicatezza, quel che si prova davanti al dolore di un figlio, ma anche la luce dell'essere genitori, che pure nel buio continua a brillare. Perché è difficile accogliere la verità di chi amiamo, soprattutto se lo abbiamo messo al mondo. Ma l'amore porta sempre con sé una rinascita. Un padre e un figlio, dentro una stanza. L'uno di fronte all'altro, come mai sono stati. Ciascuno lo specchio dell'altro. Loro due, insieme, in un reparto di neuropsichiatria infantile. Ci sono altri genitori, in quel reparto, altri figli. Adolescenti che rifiutano il cibo o che si fanno del male, che vivono l'estenuante fatica di crescere, dentro famiglie incapaci di dare un nome al loro tormento. E madri e padri spaesati, che condividono la stessa ferita, l'intollerabile sensazione di non essere più all'altezza del proprio compito. Con la voce calda, intima, di un padre smarrito, Matteo Bussola fotografa l'istante spaventoso in cui genitori e figli smettono di riconoscersi, e parlarsi diventa impossibile. Attraverso un pugno di personaggi strazianti e bellissimi, ci ricorda che ogni essere umano è un mistero, anche quando siamo noi ad averlo generato.
Un rapimento, svariati delitti e un assassino, forse mancino forse no. Saranno solo leggende e superstizioni ma, da quando è ricomparso il fantasma dello Zoppo, in Normandia le sciagure non si contano più. A sei anni da "Il morso della reclusa", torna Fred Vargas con uno dei personaggi capolavoro del noir, lo svagato e visionario Jean-Baptiste Adamsberg, commissario del XIII arrondissement di Parigi. Il guardacaccia Gaël Leuven era un marcantonio solido come uno scoglio bretone, ma per ucciderlo sono bastate due coltellate al torace. A Louviec lo conoscevano tutti. Compreso Josselin de Chateaubriand (forse discendente di quel Chateaubriand), il nobilastro dall'abbigliamento eccentrico che adesso è il principale sospettato. Richiamato in Normandia dal commissario locale, Adamsberg si addentra nelle numerose ramificazioni del caso. Ma pur perdendosi come di consueto in false piste e digressioni mentali, in osservazioni prive di qualunque nesso con l'indagine, c'è da scommettere che anche questa volta verrà a capo del groviglio di omicidi ed efferatezze. Grazie alle sue illuminazioni proverbiali ma anche, forse, all'energia ancestrale dei menhir.
Se per un certo periodo "Il capitale" è potuto sembrare un testo superato, gli attuali andamenti delle società e dell’economia mondiale sembrano invece avvalorare alcune intuizioni di Marx. Del resto, la teoria marxiana del capitale resta una delle poche a proporre spiegazioni organiche a molti dei fenomeni storico-economico-sociali in atto. Dunque un grande classico e insieme un’utile chiave di lettura del mondo contemporaneo. Il primo libro, l’unico scritto integralmente da Marx, è dedicato all’analisi del processo di produzione del capitale, esamina la base dei meccanismi economici delle società moderne, la loro complessiva struttura di funzionamento. È un testo che ha avuto una genesi travagliata e molte edizioni, vivo Marx e postume. Partendo dalla più recente edizione storico-critica, viene qui tradotta la quarta edizione tedesca del 1890, messa insieme da Engels tenendo conto degli appunti di Marx e delle sue postille alle edizioni precedenti. Dando però in apparato le varianti significative delle prime tre edizioni tedesche e della traduzione francese. Molte le variazioni nella struttura del libro e nell’elaborazione concettuale di alcuni nodi importanti, come la distinzione tra valore e valore di scambio, tra lavoro e processo lavorativo, o riguardanti la teoria del plusvalore. D’altronde quella di Marx era una riflessione in fieri, perennemente provvisoria, in costante elaborazione. E questa nuova traduzione permette per la prima volta di seguirne gli sviluppi, gli scarti e i ripensamenti.
La fotografia della seconda, o terza, rivoluzione digitale è un magma che si espande in modo incontrollabile. Ancora non abbiamo chiaro cosa significhi usare il cellulare come macchina fotografica, confezionare le immagini per i social, produrre quell'enorme massa di scatti che si riversano ogni giorno in Internet divenendo parte di giganteschi database, che già algoritmi e intelligenza artificiale hanno cambiato il codice genetico dell'atto fotografico. Come affrontare la rivoluzione in atto? Quali strumenti servono per analizzare il fenomeno, e in che misura la teoria della fotografia può ancora soccorrerci? Il postfotografico - come concetto inclusivo che fa da ponte tra tutte le fasi della fotografia digitale - richiede una messa a fuoco a più livelli. Come diversa tecnica della luce, diverso gesto, diversa politica e scienza del visibile. Una differenza che non è novità assoluta ma piuttosto il riaffiorare di un'idea originaria di fotografia, lasciata ai margini per gran parte del Novecento. I quindici saggi qui contenuti ne approfondiscono ciascuno un aspetto, tra passato e futuro: la fotografia come metodo di tracciamento, raccolta di luce non visibile, tecnica di misurazione del Sé e del mondo, nodo di connessioni, oggetto paradossale che non è più obbligatoriamente visto, ma nondimeno presente, e ancora capace di permettere una partecipazione allargata al mondo.
L'intelligenza artificiale sta vivendo una stagione di grandi successi. Alle disillusioni degli inizi sono subentrati, all'alba del XXI secolo, progressi spettacolari che tuttavia sono ben lungi dall'essere adeguatamente compresi: l'intelligenza artificiale rimane infatti, in buona sostanza, qualcosa di opaco. Di più: nonostante la sua straordinaria avanzata, la distanza che la separa dall'obiettivo che si è prefissata, quello di riprodurre l'intelligenza umana, non accenna a diminuire. Per superare questo enigma, secondo Daniel Andler è necessario venire a capo di un altro: quello dell'intelligenza umana. Essa è qualcosa di sostanzialmente diverso dalla capacità di risolvere qualsiasi tipo di problema, ma qualifica tramite il suo giudizio il modo in cui gli esseri umani fronteggiano le situazioni di qualsiasi genere nelle quali si vengono a trovare. L'intelligenza è un concetto irriducibilmente normativo, non diverso dal giudizio etico o estetico, ed è per questo che per noi è qualcosa di inafferrabile. Un sistema artificiale «intelligente» non conosce le situazioni, ma soltanto i problemi che gli sottopongono gli operatori umani. Ed è solo sotto questo aspetto che l'intelligenza artificiale può superarci. Di fatto essa è in grado di risolvere una varietà sempre più ampia di pressanti problemi. E questo dovrebbe restare il suo obiettivo; non quello, del tutto incoerente, di cercare di uguagliare, o addirittura superare, l'intelligenza umana. L'umanità ha bisogno di strumenti affidabili, potenti e versatili, e non di pseudo-persone provviste di una forma disumana di conoscenza.
Arrivato alla soglia dei novant'anni, dopo aver affascinato i suoi lettori con i segreti della Storia, della musica e della religione, Corrado Augias racconta l'avventura di una vita, la sua. E con grande talento di narratore, evoca l'infanzia in Libia, il ritorno a Roma, l'incubo dell'occupazione tedesca, il collegio cattolico, i primi passi nel giornalismo, e poi «Telefono giallo» e «la Repubblica». È un racconto che ha il calore e l'empatia della conversazione tra amici: la vita s'impara, ci dice Augias - soprattutto se non si perdono mai la curiosità intellettuale e la passione civile. A quasi novant'anni, Corrado Augias è un prezioso testimone del cambiamento. L'Italia di oggi - esclusi gli eterni vizi nazionali - assomiglia poco a quella di ieri. Augias ci racconta l'infanzia passata in Libia al seguito del padre ufficiale della Regia Aeronautica; la guerra e i bombardamenti; l'incubo di una feroce e lugubre occupazione; gli anni in un collegio cattolico, per lui che oggi si confessa ateo. E poi la vita professionale, il giornalismo, i libri, le fortunate circostanze che lo hanno reso partecipe di tre eventi importanti nella vita culturale del paese: la nascita della Direzione centrale programmi culturali della Rai; la fondazione del giornale «la Repubblica» nel 1976, il rilancio di RaiTre nel 1987. L'invenzione di alcuni fortunati programmi televisivi da «Telefono giallo» a «Babele», da «Città segrete» alla più recente creatura «La gioia della musica», ultimo programma ideato per la Rai prima del passaggio a La7 ancora una volta con un fortunato programma di cultura: «La Torre di Babele». Accadimenti che sono però solo la parte pubblica di un percorso che ha una componente intima ancora più interessante: il lungo apprendistato a una matura dimensione d'intellettuale. Agli eventi che hanno scandito la sua vita, Augias affianca le letture di cui s'è nutrito e dalle quali ha «imparato a vivere». Da Tito Lucrezio Caro a Renan, da Feuerbach a Freud e poi Spinoza, Manzoni, Beethoven, Nietzsche, Leopardi, i suoi maestri sono pensatori, poeti, narratori, musicisti: una costellazione ampia che non esita a chiamare il suo pantheon, figure che hanno arricchito il suo percorso professionale e, insieme, la sua consapevolezza di cittadino.