Alice ha scritto due romanzi di enorme successo, ma per trovare compagnia deve andare su Tinder. Eileen, la sua amica, lavora per una rivista letteraria, però non ci paga l'affitto. Simon ama da sempre la stessa donna, ma da sempre ne frequenta altre. Felix passa in birreria il tempo libero dal lavoro di magazziniere, ma la sua è soltanto una fuga. Alice, Eileen, Simon e Felix si parlano, si fraintendono, si deludono e si amano e, mentre attraversano il cerchio di fuoco dei trent'anni, si chiedono se esista davvero, al di là, un mondo bello in cui sperare.
Non possiamo capire la storia del mondo dopo il 1945 se non prendiamo atto di come i popoli e le comunità siano stati influenzati a livello di mitologie condivise, costumi e modi di vivere. Dalla Guerra fredda al '68 e all'emergere delle culture giovanili, dal crollo del muro di Berlino all'affermarsi delle lotte di genere, dall'esplosione del turismo internazionale ai drammatici flussi migratori contemporanei, questo saggio delinea i tratti fondamentali della cultura negli ultimi ottant'anni, concentrandosi su fenomeni e tendenze capaci di espandersi al punto di rivestire un significato mondiale. Nonostante la globalizzazione sembri ormai un dato di fatto, non tutte le identità e specificità culturali e sociali sono andate scomparendo. Culture globali mostra infatti come nei decenni scorsi le specificità nazionali e locali emergenti e le forme più diverse di controcultura si siano diffuse e intrecciate e abbiano resistito alle continue pressioni tese all'omologazione e al conformismo culturale. È così che, all'inizio del XXI secolo, anche in seguito alle recenti difficoltà dell'economia e della politica internazionale, nonché al trionfo dei nazionalismi e delle rivendicazioni autonomistiche, il mondo appare complessivamente caratterizzato dalla diversità più che dall'omologazione, meno integrato, meno democratico e meno tollerante rispetto al recente passato.
«Cominciamo dal nome, Velarus. Lo scelse quella scema di mia madre. L'idiota che era mio padre non si oppose, e così fu». Sullo sfondo della ricca e fin troppo operosa provincia del Nord Italia, la sfrenata tragicommedia di un ragazzino con una famiglia di disgraziati. Il padre e la madre di Velarus non sono quel che si dice due tipi amorevoli. Del resto come potrebbero esserlo dei faccendieri sempre in viaggio, sempre attaccati al telefono, sempre impegnati a comprare e a vendere. Anche la nascita di un figlio è per loro una semplice transazione. Solo che poi non hanno né il tempo né la voglia di occuparsene, preferiscono scaricare l'impiccio su uno strampalato tassista e sulla sua altrettanto bizzarra moglie infermiera. Così il bambino viene lasciato in custodia un po' a chi capita: comincia per lui una lunga teoria di «affidamenti». Tutto questo, però, produce nel piccolo uno strano fenomeno fisico, qualcosa di davvero eccezionale. Ed ecco che nella testa dei genitori guizza l'idea di combinare l'ennesimo affare della vita, il più redditizio. A quel punto, la vendetta di Velarus prende il via.
L'Italia ha imparato a comprendere la sua scuola in termini che le sono profondamente ostili. È questo il lascito di don Milani. E sta qui il nucleo di un equivoco che accompagna il nostro discorso educativo dagli anni Settanta in avanti. Ebreo convertito al cristianesimo e prete in odio alla borghesia, che nella Chiesa aveva aperto un'aspra polemica in nome dei poveri, don Milani sembrò incarnare una potente richiesta di cambiamento. In una maniera che ha qualcosa di profondamente ironico, tuttavia, la cultura pedagogica italiana ha finito per restare impigliata nelle stesse contraddizioni in cui si dibatteva il suo eroe. Il fatto è che don Milani, figura del nuovo, sarebbe rimasto fedele fino alla fine all'antico, al messaggio di Cristo e alla Chiesa. E a ben vedere anche a una idea di borghesia come classe di cultura. A pensarci è sorprendente come una figura così complessa, piena di tante cose, ambigua, contraddittoria e indubbiamente carica di fascino sia stata poi ridotta al figurino senza spessore del pedagogismo nostrano. L'ideologia che nel nome di don Milani pretende di bandirne il messaggio finisce così per imprigionare il prete a Barbiana ma svuota contemporaneamente Barbiana di ogni significato.
Donato Giannotti nacque a Firenze nel 1492, pochi mesi dopo la morte di Lorenzo il Magnifico. Benché molto piú giovane, conobbe Machiavelli e ne fu amico. Fu segretario della Repubblica di Firenze tra il 1527 e il 1530, prima del ritorno degli odiati Medici. Dopodiché emigrò esule in Veneto e poi a Roma, dove morì nel 1572. Scrisse tre volumi sulla corretta istituzione di un governo repubblicano: Della Republica Fiorentina (1538), il dialogo Della Republica de' Vinitiani (1540), che ebbe molto successo, concludendo la trilogia con la trattazione Della Republica Ecclesiastica (1541), scritta su richiesta del cardinale Niccolò Ridolfi, suo protettore, e letta solo da pochi amici fidati per timore delle autorità ecclesiastiche. Una copia manoscritta di quest'opera è stata ritrovata recentemente e viene qui pubblicata per la prima volta. Dunque il volume è un inedito assoluto. L'importanza di questo testo consiste già nel fatto di essere la prima storia della Chiesa scritta da un laico. Ma, oltre a questo, sono i contenuti dell'ultimo capitolo a sorprendere e a far sì che il libro sia destinato a diventare un fondamentale oggetto di studio per gli storici. Lì infatti Giannotti, all'alba del Concilio di Trento, enuncia la sua proposta politica: e cioè spostare l'autorità politica della Chiesa dal papa al Collegio dei cardinali, sulla falsariga del rapporto fra doge e Senato nella Repubblica di Venezia.
La Grande crisi globale iniziata nel 2007 non ha nulla di naturale; piuttosto, è dipesa dalla risposta sbagliata al rallentamento dell'economia. Luciano Gallino ha condotto un documentato lavoro di spiegazione strutturale delle sue cause che la ricostruisce nei termini di una crisi del capitalismo. Crisi economica e crisi ecologica sono considerate da Gallino le manifestazioni più appariscenti della crisi del modo di strutturare l'economia, la politica, la cultura e la comunità delle società del pianeta intero, cui egli si riferisce nei termini di una (sola) civiltà-mondo sviluppatasi negli ultimi decenni. Il volume conduce nell'esame di numerose dinamiche concausali, e non solo concomitanti, delle crisi della civiltà-mondo. Sono qui raccolti temi e analisi sviluppati da Luciano Gallino in Finanzcapitalismo (2011), Il colpo di Stato di banche e governi (2013) e Il denaro, il debito e la doppia crisi (2015). La selezione e il coordinamento dei testi sono stati curati da Paola Borgna.
Il patrimonio culturale - le chiese, le grandi opere, gli umili selciati - può trovare un senso solo se ci permette di liberarci dalla dittatura del presente, dall'illusione di essere i padroni della storia, dalla retorica avvelenata dell'identità. Se ci restituisce l'amore necessario a coltivare ciò che in noi è ancora umano. Abbiamo forse smarrito la ragione profonda per cui davvero ci interessiamo al patrimonio culturale e alla storia dell'arte: la forza con cui apre i nostri occhi e il nostro cuore a una dimensione «altra». La sua capacità di separarci dal flusso ininterrotto dell'attualità, per metterci in contatto con ciò che ci avvince alla vita, ciò che le dà un senso. Per vedere - per sentire - tutto questo, è però necessario riattivare la sua connessione con la parte più intima della nostra anima individuale e collettiva; occorre una vera e propria educazione sentimentale. Come scrive Tomaso Montanari nelle pagine di questo saggio lucido e appassionato, il patrimonio culturale è la nostra religione civile, la nostra scuola di liberazione: non riguarda soltanto il paesaggio o le opere d'arte, ma riguarda soprattutto noi e quell'amore che tutto congiunge. Ogni sguardo posato in una chiesa antica, ogni piede che calpesta un selciato, comporta domande, risposte, interpretazioni. Così, passo dopo passo, lentamente, riattribuiamo significato alle cose e ai luoghi fino a sentirli parte, quasi estensioni, dei nostri corpi: perché solo quelli danno senso alle pietre e ai quadri. E perché soltanto così il discorso sul patrimonio culturale potrà aiutarci a recuperare le ragioni di una convivenza universale, fondata sulla giustizia e sulla condivisione.
Questo libro racconta l'appassionante storia del nostro moderno mondo materiale. Se il consumismo è spesso descritto come una recente e peculiare invenzione americana, questa analisi ampia e dettagliata dimostra come si sia invece trattato di un fenomeno internazionale, con una storia molto piú lunga e complessa. Frank Trentmann descrive l'influenza del commercio sui gusti, in che modo beni esotici quali il caffè, il tabacco, il cotone e le porcellane cinesi conquistarono il mondo, ed esplora i fenomeni legati alla crescente domanda di oggetti per la casa, vestiti alla moda e le numerose altre comodità che hanno trasformato la nostra vita pubblica e privata. Nell'Ottocento e nel Novecento sono comparsi i grandi magazzini, le carte di credito e la pubblicità, ma anche il consumo consapevole e nuove identità generazionali. Osservando il presente e il futuro, Trentmann prende infine in considerazione le sfide globali imposte dall'inarrestabile e ubiquo accumulo di cose - compresi sprechi, debiti, stress e ineguaglianze.
Molto è stato scritto sulla Resistenza e sulla guerra di liberazione in Italia. Ma che cosa accadde ai partigiani dopo l'aprile 1945? Come vissero realmente gli anni del dopoguerra e della rinascita del Paese coloro che la Repubblica avrebbe celebrato come i nuovi eroi della patria, martiri del secondo Risorgimento nazionale? Dal 1948 e fino ai primi anni Sessanta, nelle aule di giustizia della nuova Italia democratica va in scena un «Processo alla Resistenza», destinato ad avere un forte impatto mediatico. Assassini, terroristi, «colpevoli sfuggiti all'arresto». Così la magistratura del dopoguerra, largamente compromessa col regime fascista, giudica quei partigiani che hanno combattuto una guerra clandestina per bande, tra il 1943 e il 1945. Giudizio condiviso dalla stampa e da gran parte dell'opinione pubblica italiana, che si accompagna a una generale riabilitazione di ex fascisti e collaborazionisti della Rsi, autori di stragi e crimini contro i civili, costretti a «obbedire a ordini superiori». Attraverso carte processuali e documenti d'archivio inediti, Michela Ponzani ricostruisce il clima di un'epoca, osservando i sogni, le speranze tradite e i fallimenti di una generazione che pagò un prezzo molto alto per la scelta di resistere. Cosa resta della Resistenza nella Repubblica? Rimosso dalla memoria collettiva, il «Processo alla Resistenza», celebrato nelle aule di giustizia dopo il 1945, anima per decenni il dibattito mediatico, plasmando distorsioni, manipolazioni, miti e luoghi comuni «antiresistenziali», in una serie di polemiche a posteriori. La messa sotto accusa dell'antifascismo finisce col ribaltare ragioni e torti, meriti e bassezze, valori e disvalori. Coloro che hanno combattuto contro nazisti e fascisti si trasformano in pericolosi fuorilegge, colpevoli di aver attentato al bene della patria (esposta all'invasione angloamericana e ai tragici effetti delle rappresaglie, scatenate dall'occupante tedesco) e di aver messo a repentaglio la sicurezza nazionale, difesa invece fino alla fine dai combattenti di Salò. Assassini, vigliacchi, terroristi, «colpevoli sfuggiti all'arresto». Sulla base di questi termini (utilizzati dalla stampa degli anni Cinquanta) la magistratura del dopoguerra, quasi sempre compromessa col regime fascista, giudica quei partigiani che hanno combattuto una guerra per bande. Mentre ex fascisti e repubblichini, autori di stragi e crimini contro civili, vengono assolti, riabilitati e persino graziati per aver «obbedito ad ordini militari superiori» o per la loro natura «di buoni padri di famiglia», i partigiani sono giudicati responsabili delle rappresaglie scatenate dai nazifascisti, per non essersi consegnati al nemico.
Racconti simbolici o improvvisazioni sinaptiche, i sogni sono un mistero che parla di noi: realtà irreali, private e profondissime. «Ogni sogno ha [...] un ombelico attraverso il quale è congiunto all'ignoto», scriveva Freud più di un secolo fa. Da questo ombelico misterioso, che dà il titolo al suo libro, Vittorio Lingiardi inizia un viaggio onirico e poetico tra divinazione, psicoanalisi e neuroscienze. Perché «la verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni». Non sappiamo a cosa servono, ma servono; e non resistiamo al bisogno di raccontarli. Sarà che siamo fatti della loro sostanza.
Il principale testo di giuntura fra il mondo antico e la cultura medievale. «Un'alternanza di prosa e versi che si autocommenta, una girandola di richiami interni, questo sembra il lascito di Boezio a Dante e ai Canti orfici di Dino Campana, a Petrarca e al Tolkien de Il Signore degli anelli, così come forse a Baudelaire e a Rimbaud. E questi sono i motivi per cui leggiamo oggi volentieri la Consolatio: per quell'insieme di cultura antica e fede nuova, di pensiero alto e quasi lacrimevole poesia che così si addice ai nostri tempi» (Maria Bettetini). Con l'introduzione di Maria Bettetini e le note di Giovanni Catapano.
Dopo una lunga fase in cui si è immaginato che un pensiero radicale debba necessariamente percorrere una strada destituente, questo libro intende ripensare il rapporto tra vita e istituzioni. Ribaltando tale tesi, Roberto Esposito non solo ricostruisce il dibattito novecentesco sul ruolo innovativo delle istituzioni, ma ne riconosce la genealogia profonda in tre autori classici come Machiavelli, Spinoza e Hegel. Partendo dall'enigmatico lemma latino, di incerta origine, vitam instituere, l'autore ne coglie la prima elaborazione nella filosofia moderna, lungo una direzione che soltanto oggi sembra sperimentare un possibile esito in una nuova interpretazione del rapporto tra politica e vita. Se nel diritto romano il tema dell'institutio vitae trova un'iniziale enunciazione, è Machiavelli il primo a pensare la politica come energia istituente. Dopo che Spinoza conferisce all'immaginario sociale la capacità di istituire la vita di relazione, Hegel per la prima volta vede nello 'spirito oggettivo' lo spazio in cui società e Stato si articolano nella dinamica delle istituzioni. Ma nel sistema hegeliano, a esprimere la potenza istituente è la stessa dialettica come processo infinito in cui le idee s'incarnano nella realtà. È solo a partire da queste radici moderne che il pensiero contemporaneo trova nel movimento delle istituzioni il luogo strategico in cui i linguaggi della filosofia, dell'antropologia e della politica s'incrociano in un nuovo orizzonte di senso.