Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva. Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. È con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse. Per ogni dislivello di diritti che le donne subiscono a causa del maschilismo esiste un impianto verbale che lo sostiene e lo giustifica. Accade ogni volta che rifiutano di chiamarvi avvocata, sindaca o architetta perché altrimenti «dovremmo dire anche farmacisto». Succede quando fate un bel lavoro, ma vi chiedono prima se siete mamma. Quando siete le uniche di cui non si pronuncia mai il cognome, se non con un articolo determinativo davanti. Quando si mettono a spiegarvi qualcosa che sapete già perfettamente, quando vi dicono di calmarvi, di farvi una risata, di smetterla di spaventare gli uomini con le vostre opinioni, di sorridere piuttosto, e soprattutto di star zitta. Questo libro è uno strumento che evidenzia il legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo. Ha un'ambizione: che tra dieci anni una ragazza o un ragazzo, trovandolo su una bancarella, possa pensare sorridendo che per fortuna queste frasi non le dice più nessuno.
In questo libro Ernesto De Martino risale alle radici dell'esigenza umana di rifiutare la morte nella sua scandalosa gratuità e, di riflesso, procurare al defunto una «seconda morte» culturalmente definita, mediante il ricorso a determinate pratiche rituali. Tra queste, l'istituto del lamento funebre, rivolto ai vivi non meno che ai defunti, poiché la piena del dolore rischia di compromettere l'integrità della presenza dei sopravvissuti. Qui sta la funzione più profonda del pianto rituale, che non cancella la crisi del cordoglio ma l'accoglie in sé, trasformandola in disciplina culturale capace di mantenere il pathos al riparo dall'irruzione della follia. In ciò risiede la sua umanissima sapienza, il cui valore trascende i limiti storici di diffusione del fenomeno, e al quale s'abbandona persino la Madonna al cospetto della morte del Figlio, nonostante l'accesa polemica cristiana contro il costume pagano. Dall'analisi del fenomeno, ridotto allo stadio di «relitto folklorico», scaturisce il bisogno di estendere l'analisi alle antiche civiltà agrarie del Mediterraneo, al cui interno l'istituto del lamento funebre visse la stagione del suo massimo splendore, fino al progressivo declino, causato dallo scontro con il cristianesimo trionfante. De Martino si interroga infine sul problema della risoluzione laica della crisi del cordoglio, e l'"Atlante figurato del pianto" riflette mediante un sapiente uso delle immagini l'affascinante itinerario dell'Autore, che sollecita un confronto con l'Atlante "Mnemosyne" di Aby Warburg.
La vita nell'amicizia è adesso, lo sentiamo senza dovercelo dire. Vale la pena di vivere per questo, perché c'è l'amicizia. Essa libera la quotidianità dal suo carattere di «compito» e l'esistenza da qualunque sospetto di «doversela meritare». È la ricompensa dei viventi, che non bisogna aspettare anni o in un'altra vita. In questo senso, proprio oggi, per noi contemporanei è una delle più assurde e anacronistiche manifestazioni. Ricorda a una società che ne ha completamente smarrito il senso che non c'è un oltre, ma che esso è già qui, che c'è qualcosa che non corrisponde a nessuno scambio equo, è uno spazio della «ingiusta gratuità», ingiusta perché questa non è offerta a tutti.
Quella del presepio è una storia che conosciamo tutti: la nascita di Gesù. Ci sono la Sacra Famiglia, una grotta, una capanna, la stella cometa, una mangiatoia, il bue, l'asinello e i Re Magi. La sua iconografia sembra essere tanto luminosa quanto immutabile. Ma, come spesso avviene con i racconti forniti di un forte significato culturale - quelli che hanno valore fondativo per una comunità o per un gruppo -, anche la narrazione della Natività è frutto di centinaia di anni di riscritture, di racconti che nel tempo si sono sedimentati su una base originariamente povera di dettagli. Nei Vangeli di Luca e Matteo molti degli elementi che popolano i nostri ricordi di bambini, infatti, non sono presenti. Non si parla né di una capanna né di una grotta, e nemmeno di due bestie che avrebbero tenuto al caldo il corpo del neonato. Queste pagine descrivono dunque il processo che ha condotto alla formazione di una vera e propria scenografia culturale della Natività, in base alla quale Gesù, che secondo Matteo era nato in una casa, passo dopo passo è arrivato a vedere la luce in una grotta, vegliato da animali soccorrevoli: come tanti eroi mitici dell'antichità destinati a cambiare il destino dei popoli. Quanto ai personaggi più fiabeschi del presepio - il bue, l'asino, i Re Magi -, scopriamo con sorpresa che la loro creazione, e la loro definizione, è stata prodotta non dalle invenzioni del folclore, ma da dotte speculazioni teologiche. Infine, l'autore disegna una vera e propria antropologia del presepio, mettendo in luce la trama di relazioni che da un lato lega fra loro la Sacra Famiglia, i pastori e coloro che «fanno il presepio », simbolicamente rappresentati da queste figurine; dall'altro ristabilisce il contatto con le statuette utilizzate nelle pratiche votive di epoca classica, per testimoniare, ora come allora, fedeltà, memoria e gratitudine alla divinità. Bettini ricostruisce questo avventuroso percorso antropologico con la cura del filologo e la passione del narratore, mostrandoci tutta l'affascinante complessità meticcia che si nasconde sempre dietro la tradizione.
Anche se non documentata da testimonianze scritte, l'Africa antica possiede una storia, spesso sottostimata quando non brutalmente negata
A partire dalle tracce lasciate da civiltà il piú delle volte scomparse e dalle tradizioni orali, François-Xavier Fauvelle ricostruisce in modo rigoroso e appassionante la ricchezza di questo continente ritrovato. In trentaquattro brevi saggi offre al lettore un panorama dell'Africa subsahariana dall'VIII al XV secolo: dai viaggiatori cinesi del periodo Tang alle avventurose spedizioni di Vasco da Gama lungo le coste dell'oceano Indiano. Tra questi due estremi il lettore incontrerà momenti memorabili: una città introvabile, la capitale del Ghana, descritta nel 1068 da un geografo di Cordova; una cerimonia grandiosa svoltasi a Marrakech con l'arrivo del re dell'oscuro regno di Zafun; una misteriosa tomba sudafricana dove nel 1932 è stato trovato un piccolo rinoceronte d'oro del xii secolo; una chiesa costruita dal sovrano cristiano d'Etiopia nel XIII secolo... Un mosaico di testimonianze, siti archeologici, oggetti e frammenti che permettono all'autore di ricostruire il volto di un'Africa per lungo tempo rimasto nell'ombra. Dal Sahara al fiume Niger, dall'impero del Mali al regno cristiano della Nubia, dai principati della costa orientale alle maestose rovine di un enigmatico regno del Grande Zimbabwe.
Traduzione di Anna Delfina Arcostanzo
«Tra i fiumi Senegal e Gambia si estende il regno dei "Gilofi" (Wolof), guidato da un re che regna su altri re suoi vassalli. Ma, dice Cadamosto che cerca in qualche modo di cogliere l'originalità di ciò che sente e vede, "non è questo re simile alli nostri di cristianità; perché il suo regno è di gente selvaggia e poverissima; e non vi è città alcuna murata, se non villaggi con case di paglia". I loro regni, del resto, non sono ereditari, poiché la loro sovranità sembra dipendere da un sistema di scambio di servizi e tributi fra re e signori. Un re ha tutte le mogli che vuole ed è proprietario di schiavi che coltivano i suoi possedimenti. È presso un signore della costa chiamato il "Budomel" [...], che il Veneziano affina la sua antropologia del potere: i grandi di questo paese non sono affatto re per merito dell'estensione della loro terra, della potenza dei loro castelli o dell'ereditarietà del loro status. "Questi tali non sono signori perché siano ricchi di tesoro né di danari, perché non ne hanno, né lí si spende moneta alcuna; ma di cerimonie e di seguito di genti si ponno chiamar signori veramente, perché sempre sono accompagnati da molti e reveridi e temuti molto più dai suoi sudbditi, di quello che non sono i nostri signori di qua". La regalità non consiste in un elenco di attributi; essa è una percezione sociale»
L'età media della popolazione italiana non è mai stata tanto alta, eppure oggi nessuno più si sente vecchio. Definirsi anziani è diventato un tabù; e tutti vogliono rimanere giovani, cedendo alle lusinghe di un'"eterna giovinezza". La questione della vecchiaia, però, diventerà sempre più centrale e porterà a profondi mutamenti sociali e culturali che ci coinvolgeranno tutti. Senza dimenticare che non si può negare un futuro alle nuove generazioni. Perché essere anziani significa aver imparato molte cose, e dunque prendersi l'autorità e la soddisfazione di raccontarle. Ma significa anche avere il diritto di scoprire uno spazio della vita tutto da reinventare, andare lenti, osservare meglio il mondo, lasciare spazio a chi è più giovane. Marco Aime e Luca Borzani ci accompagnano alla riscoperta di una fase dell'esistenza ingiustamente rimossa, che, senza ansie, si può e si deve vivere con pienezza.
La canzone napoletana studiata e raccontata non nei suoi aspetti folcloristici più standardizzati, ma come mito che affonda negli archetipi musicali più antichi, come sonorità rimosse dalla memoria e affioranti dove meno te l'aspetti: in un mercatino domenicale dove si vendono dischi di prima della guerra o nel negozio di un barbiere cantante che conserva tradizioni perse nei secoli. Roberto De Simone ci conduce in una ricerca che diventa inventario di testi e musiche, ma anche racconto di personaggi, di luoghi, di rappresentazioni popolari devote e profane. Sempre nei libri di De Simone alto e basso, popolare e colto si intrecciano indissolubilmente; così avviene anche in questo libro, che insieme al saggio sul Presepe napoletano è forse il suo capolavoro, la summa delle sue ricerche e della sua antropologia culturale. Dunque nelle pagine della Canzone napolitana l'arte canterina di un anonimo venditore ambulante e la raffinata poesia di Salvatore Di Giacomo vanno a braccetto fra loro, come i melodrammi di Rossini e Donizetti e la performance di tre femminelli in processione a un santuario. L'alternanza fra capitoli di rigorosa musicologia e altri di spericolata narrazione è più apparente che reale, perché nei capitoli storico-musicali si insinua la fiction (come in un bellissimo colloquio immaginario fra Torquato Tasso e Monteverdi) e nelle narrazioni c'è molta filologia (peraltro le partiture delle canzoni sono raccolte in fondo al volume). Attraverso la trattazione storica e il racconto, De Simone delinea un genere musicale ma tratteggia anche il ritratto della sua città: una Napoli cangiante nei secoli eppure sempre se stessa. Un collage di sovrapposizioni (splendidamente rappresentate in un parallelo visivo dalle illustrazioni di Gennaro Vallifuoco, antico sodale di De Simone) legato da un filo rosso che arriva fino alla seconda guerra mondiale e, attraverso le testimonianze più resistenti ai cambiamenti della modernità, a saperle trovare e ascoltare, fino ai giorni nostri.
Cosa significa essere femminista oggi? Per prima cosa reclamare la propria importanza, di individuo e di donna insieme; reclamare il diritto all'uguaglianza senza se e senza ma. E cosa significa essere una madre femminista? Non smettere di essere una donna, una professionista, una persona, e condividere alla pari la responsabilità con il proprio compagno. Mostrare a una figlia le trappole tese da chi la vuole ingabbiare per mezzo della violenza, fisica o psicologica, in un ruolo predefinito, e spiegarle che quel ruolo non ha nessun valore reale e che potrà scegliere di essere ciò che vorrà. Farle capire che la sua dignità non dipende dallo sguardo e dal giudizio degli altri e che la sua realizzazione non dipenderà dal compiacere quello sguardo. E significa soprattutto insegnarle che l'amore è la cosa più importante, ma che bisogna anche capire quando è il caso di battersi contro l'ingiustizia. Adichie ha scritto un intenso pamphlet sotto forma di lettera, con uno sguardo confidenziale eppure politico. La sua voce, che sa essere intima e allo stesso tempo universale, ha saputo dare vita a un manifesto necessario in un presente in cui dobbiamo imparare a vivere la differenza per poterci ancora dire umani.
Cosa è diventato per noi il lavoro? Abbiamo ancora dei progetti di vita? Cosa ci porta via il tempo che passa e come governiamo lo spazio in cui dobbiamo muoverci? L'amore può ancora tingere di rosa la nostra vita? Sociologi e antropologi hanno iniziato a chiedersi, già dagli anni dell'avvento della globalizzazione e del neoliberismo, che cosa stesse cambiando sul piano culturale nelle società contemporanee. Oggi che la crisi di sistema si è dispiegata in tutto il suo potenziale distruttivo, vale la pena di esplorare puntualmente come si sono modificate quelle conoscenze e quei valori che più di altri governano il nostro agire quotidiano. In questo lavoro ci si è proposti di indagare le fratture grandi e piccole intervenute nell'esperienza concreta delle persone. Studenti e precari, taxisti e cameriere, commercianti e professori, edicolanti e impiegati sperimentano nuovi comportamenti, vivono modifiche sostanziali di vecchie gerarchie e stratificazioni sociali, cercano nuovi saperi e nuovi valori. Talvolta a caro prezzo. Talvolta forse anche con qualche speranza di successo.
Il cibo sognato e desiderato come un'utopia dalle "pance vuote" della civiltà contadina è diventato la fonte di ossessioni, squilibri e nuove paure. Nel passaggio dal mondo della fame a quello del troppo pieno il senso del mangiare è mutato di pari passo al contenuto dei cibi, ai metodi produttivi e alle pratiche alimentari. Una trasformazione che riguarda la salute, il corpo, lo stare assieme, il rapporto con i luoghi, la costruzione dell'identità, il sacro. La perdita della frugalità è anche perdita di strumenti per comprendere il mondo di oggi. Un altro universo ancora affamato chiede di partecipare alla nostra tavola, aspirando a un paradiso che i nostri migranti tentavano di fabbricarsi, con dolore e nostalgia, partendo per l'America. Il Mediterraneo di oggi è l'oceano di un secolo fa. In gioco non c'è solo il cibo, la possibilità di nutrirsi e di placare la fame - il tema di un'Expo che appare troppo distante da questa sofferenza - ma la nostra idea di convivenza. Un universo che ci interroga, chiedendo risposte a un Occidente smarrito.
Perché alcuni paesi sono ricchi, mentre altri sono poveri? In che modo le istituzioni possono influenzare il buon andamento di un sistema economico? Perché la Cina cresce a un ritmo cosí vertiginoso? Cosa possiamo imparare confrontando una crisi personale con una crisi di portata nazionale? Come possiamo affrontare i comunissimi pericoli quotidiani? Quali insegnamenti, a livello di stile di vita e benessere, possiamo ricavare dall'osservazione dei popoli tradizionali? Quali saranno le sfide globali del prossimo futuro? Dal metodo di ricerca delle scienze sociali alle differenze economiche delle nazioni, dalla crisi mondiale alle peculiarità della situazione italiana: tra antropologia, geopolitica e analisi culturale Jared Diamond, affrontando le grandi domande del presente, ci accompagna in una nuova avventura nella storia del nostro pianeta.