Quando compie settant'anni, Michelangelo è convinto che il suo periodo più fertile dal punto di vista artistico sia ormai alle spalle: provato dalla scomparsa degli amici più cari e scoraggiato dalla perdita di commissioni importanti, assegnate ad artisti più giovani, il supremo artista crede sia arrivato il momento di ritirarsi, tanto che inizia a concentrarsi sul progetto della propria tomba. Ancora non sa che gli anni a venire saranno invece tra i più fervidi e produttivi della sua vita, perché il destino ha in serbo per lui la sfida più ambiziosa e difficile: diventare l'architetto di Dio. Attraverso lettere e documenti dell'epoca, William E. Wallace, esperto della vita e dell'opera del genio aretino, racconta gli ultimi vent'anni di Michelangelo, a partire dal momento in cui diventa responsabile della fabbrica di San Pietro, oltre che l'artefice di altri cruciali interventi architettonici. Nel 1546, quando il papa gli affida il compimento della basilica, l'enorme cantiere è fermo, bloccato da progetti imperfetti e problemi ingegneristici. Michelangelo prende in mano la situazione: individua immediatamente i nodi irrisolti, supera le resistenze di burocrati e maestranze, e convince il papa a ricominciare tutto daccapo. Queste pagine, accompagnate da un ricco apparato iconografico, gettano nuova luce sugli anni meno noti di Michelangelo, mostrandoci un artista che veste anche i panni dell'innovativo ingegnere e dell'esperto uomo d'affari. La sfida di costruire San Pietro spinge Michelangelo verso una fede ancora più profonda: tra gli intrighi politici della Chiesa e la difficoltà di fronteggiare una salute sempre più precaria, l'artista si aggrapperà alla convinzione di essere stato scelto direttamente da Dio per costruire la chiesa più grande e magnifica mai concepita. Iniziata ben prima che lui ne divenisse l'architetto e incompiuta per molto tempo ancora dopo la sua morte, la basilica rappresenta il risultato più importante della sua carriera: è fulcro e culmine del suo coerente progetto. San Pietro è una creazione di Michelangelo, ed è il suo capolavoro.
Crisi ecologica, polemiche sull'insegnamento del darwinismo, scontro tra laici e cattolici su questioni bioetiche sempre più impegnative: già questi temi ci ricordano come il confronto su natura e creazione rappresenti il problema nel quale siamo tutti coinvolti. Ma in quali termini si presenta oggi questo confronto? La risposta è ben nota: Darwin ha segnato un punto di svolta epocale e semplicemente inaggirabile. Accanto agli snodi più rilevanti del naturalismo darwiniano, il libro discute anche gli attacchi sferrati contro di esso dagli odierni neo-creazionisti, e la loro confutazione da parte di biologi, filosofi e persino teologi interessati a confrontarsi col naturalismo darwiniano.
La sconfitta elettorale del 13 aprile 2008 segna la fase più drammatica per la sinistra politica nella storia repubblicana. Per la prima volta nessun rappresentante dei partiti di sinistra siede sui banchi del Parlamento italiano. Nelle stesse elezioni la destra, dopo un testa a testa prolungatesi per quasi quindici anni, ha conquistato una indiscutibile vittoria a tutto campo. Le radici di questa cocente sconfitta sono molteplici. Non si limitano agli errori, pur innegabili, compiuti dalle forze di centro-sinistra nei venti mesi del governo Prodi. A determinare questo esito sono stati ritardi ed errori di ben più lungo periodo, da parte sia della sinistra riformista, cioè il Partito democratico, che di quella radicale, in primo luogo Rifondazione comunista. La nascita di un soggetto politico che sia davvero nuovo a tutti gli effetti è oggi condizione ineludibile per la sopravvivenza stessa della sinistra politica in Italia e in Europa. Franco Giordano, ex segretario del Prc, è stato tra i protagonisti della vicenda della sinistra dopo lo scioglimento del Pci e della parabola del secondo governo Prodi e dell'Unione. In questo libro, alla luce della sua esperienza concreta, analizza, la crisi della sinistra partendo dalle sue radici più lontane e indica le condizioni necessarie per una sua rinascita. Ad arricchire l'analisi, le considerazioni introduttive di Fausto Bertinotti.
"Le mie poesie saccheggiano quasi tutto, timori, progetti, congetture e stupori, cercano prove di infedeltà, frammenti di ispirazione. Indifferenti alla sofferenza che descrivono, odiano tutto quello che amo, credono solo nella loro insularità."
È spesso una data, un’ora del giorno, una stagione, a dare l’avvio alle poesie di Philip Schultz, o un oggetto, una strada, una persona. Elementi di per sé insignificanti, fortuiti, ma che accendono la memoria, annullano le distanze, squarciano i veli di rimozione in un abbraccio liberatorio con il tempo. Gran parte della lirica di Schultz sembra scaturire dal bisogno di assecondare i ricordi che lo incalzano e lo assediano scagliandolo in un passato non riconciliato. Dettagli visivi, sensazioni tattili e il dolore ancora lacerante di affetti perduti si compongono alla fine in un insieme dove il passato è ancora vivo, e la lingua è sempre in tumulto e fortemente emotiva. Figlio di emigrati provenienti dai margini dell’impero russo agli inizi del XX secolo, Schultz ripercorre nelle sue poesie momenti e passaggi nodali della sua esperienza biografica: l’infanzia emarginata a Rochester (NY), la precarietà esistenziale degli anni giovanili nel corso della guerra del Vietnam, il senso di stupore e quasi di colpa per il successo inaspettato, giunto in età matura, insieme agli affetti familiari: «Non mi aspettavo di avere una famiglia;/ non mi aspettavo la felicità», confessa in una poesia. Il presente resta comunque «inabitabile» e il futuro «inequivocabile/ nel suo desiderio di sfuggirmi». La felicità appartiene forse ai figli che corrono insieme ai cani lungo l’oceano, «un posto magico», «un regno/ dove andiamo per sentirci umani,/ e essere grati».