Il giorno in cui, per la prima volta, parlarono a Domenico Quirico del califfato fu un pomeriggio, un pomeriggio di battaglia ad al-Quesser, in Siria. Domenico Quirico era prigioniero degli uomini di Jabhat al-Nusra, al-Qaida in terra siriana. Abu Omar, il capo del drappello jihadista, fu categorico: "Costruiremo, sia grazia a Dio Grande Misericordioso, il califfato di Siria... Ma il nostro compito è solo all'inizio... Alla fine il Grande Califfato rinascerà, da al-Andalus fino all'Asia". Tornato in Italia, Quirico rivelò ciò che anche altri comandanti delle formazioni islamiste gli avevano ribadito: il Grande Califfato non era affatto un velleitario sogno jihadista, ma un preciso progetto strategico cui attenersi e collegare i piani di battaglia. Non vi fu alcuna eco a queste rivelazioni. Molti polemizzarono sgarbatamente: erano sciocchezze di qualche emiro di paese, suvvia il califfato, roba di secoli fa. Nel giro di qualche mese tutto è cambiato, e il Grande Califfato è ora una realtà politica e militare con cui i governi e i popoli di tutto il mondo sono drammaticamente costretti a misurarsi. Questo libro non è un trattato sull'Islam, poiché si tiene opportunamente lontano da dispute ed esegesi religiose. È soltanto un viaggio, un viaggio vero, con città, villaggi, strade e deserti, nei luoghi del Grande Califfato.
Non vi è forse popolo, tra le genti che affollano lo stivale, che più dei siciliani abbia dato alla storia patria grandi geni e, insieme, grandi criminali, sublimi scrittori e altrettanto eccelsi malfattori, sofisticate menti politiche ed efferati attentatori del bene pubblico. Questo libro perciò si guarda bene dall'avanzare una qualsiasi tesi sulla loro impenetrabile identità. Esso narra piuttosto di alcuni personaggi che hanno il pregio di esporre in maniera esemplare il "mistero della sicilitudine". Da Federico stupor mundi a Tomasi di Lampedusa che, in ossequio alla ferrea regola dell'odio vigilante, scrisse il suo capolavoro per dare una lezione a De Roberto, accusato di aver raccontato, con "I viceré", la nobiltà spiata dal buco della serratura; da Telesio Interlandi improbabile cantore del razzismo mussoliniano con tanto di prezzario degli aggettivi a Luigi Pirandello che della sicilianità esprime al massimo grado la goduria di farsi la guerra da solo ("Il fu Mattia Pascal"), e la consapevolezza che il manicomio sia il nostro habitat naturale ("Sei personaggi in cerca d'autore"); Ettore Majorana convinto estimatore del nazismo a Giuseppe Peri oscuro vicequestore angariato, insultato e fatto morire di crepacuore per aver denunciato in grande anticipo la strategia della tensione; dai fratelli Lanza di Trabia saltellanti fra i Ciano, Eisenhower e Togliatti per difendere feudi e privilegi a Vito Guarrasi signore incontrastato e sconosciuto di cinquant'anni di potere in Italia.
John Perkins torna alla riflessione sull'impero globale e sulla base economica che lo sostiene, le corporation statunitensi. Analizzando quattro zone calde del pianeta - Asia, America Latina, Medio Oriente e Africa - grazie alle testimonianze di collaboratori "pentiti" delle multinazionali, mercenari, attivisti, politici e vittime dello sfruttamento, Perkins denuncia le responsabilità del governo americano e di organismi come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale nel creare una crisi geopolitica ed economica della quale beneficiano soltanto pochi privilegiati. Ma se la corruzione, l'instabilità, l'ingiustizia sono ormai pratiche dominanti, le storie di chi le combatte dimostrano che c'è spazio anche per immaginare un pianeta diverso. "Non troverete del catastrofismo in queste pagine", avverte Perkins. "Per quanto seri, i nostri problemi sono opera dell'uomo. Poiché siamo stati noi a creare i nostri problemi, possiamo anche risolverli". Un libro allarmante ma non privo di speranza, dedicato a quanti si impegnano a costruire "un mondo stabile, sostenibile e pacifico".
Pezzi di materia che si animano, attrezzi da lavoro dei nostri primi anni, i giocattoli ci raccontano qualcosa di come eravamo quando loro erano i nostri bizzosi, amatissimi dèi: la carabina col tappo che emetteva un rumore secco, quasi lo schiocco di un bacio, le auto-mobiline a chiavetta con il suono di ranocchia, l'universo dei pianeti marini nelle biglie disseminate sul letto, i birilli come biberon, con quel nome da capitombolo... Oggi li osserviamo con un misto di nostalgia, inquietudine e una punta di crudeltà. Eppure, i sessantacinque giocattoli descritti in questo libro non seguono un pretesto semplicemente memorialistico. Demoni e angeli custodi, depositari di antichi incanti, paesaggi, odori, "vampiri commedianti che di notte vegliano sui bambini derubandoli momentaneamente della vita", i giocattoli, chiamati a raccolta in questo libro, ci restituiscono l'infanzia come una possibilità eterna, una bacheca colorata, allegra e scintillante, un "cosmo meraviglioso" che chiede di essere esplorato in ogni momento della nostra vita.